Piastre Petri, pipette, puntali: la quantità di plastica monouso che un laboratorio di ricerca biomedica usa ogni anno è enorme. Secondo le stime della University of Exeter, i 280 ricercatori del Dipartimento di Bioscienze avrebbero prodotto nel solo 2014 circa 267 tonnellate di plastica monouso. Moltiplicando questo dato per le migliaia di ricercatori che, in tutto il mondo, sono stati impegnati nello stesso anno in ricerca biomedica o agraria le cifre raggiungono i 5,5 milioni di tonnellate.
E che cosa dire dell’energia consumata dai server per archiviare terabyte di dati genomici? O delle emissioni di CO2 sprigionate dai lunghi viaggi intercontinentali necessari per partecipare a congressi scientifici internazionali?
Questi sono solo alcuni esempi di come la ricerca abbia, proprio come tutte le attività umane, un impatto sull’ambiente di cui gli scienziati iniziano ad avere consapevolezza.
Oggi molti ambiti di ricerca si concentrano sulla messa a punto di strategie per rendere più sostenibili le attività umane. Ma c'è qualcosa che può rendere più sostenibile anche il mondo stesso della ricerca?
Spazio alla sostenibilità
Nell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile messa a punto dalle Nazioni Unite troviamo questa definizione:
Lo sviluppo sostenibile è stato definito come uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
Se l’obiettivo generale è chiaro, più complesso è definire per ogni attività umana le strategie che possono contribuire a ridurre l’impatto sul Pianeta e sulle generazioni future. Questo è vero soprattutto per attività che non si incamminano su binari predefiniti e rodati - proprio come le attività di ricerca che, tra tutte le attività umane, sono quelle che più si muovono al confine tra conosciuto e sconosciuto, tra prevedibile e imprevedibile.
Qualche tentativo, però, è stato fatto. Nel settore chimico, le strategie di Green Chemistry ci mostrano da anni che è possibile ridurre l’inquinamento o lo spreco di risorse attraverso una attenta pianificazione delle procedure industriali e di laboratorio. In ambito biomedico c’è ancora molta strada da fare, ma numerosi scienziati in tutto il mondo iniziano ad avere consapevolezza del problema e a cercare soluzioni alternative alle pratiche meno sostenibili della ricerca.
1. Pianificare in modo accurato e continuo
Durante il post-Doc al Baylor College of Medicine, ricordo che un giorno la responsabile del laboratorio disse: «No more ”What if?” experiments». Gli esperimenti ”What if?” di cui non voleva più sentire parlare erano le prove fatte sull’onda dell’entusiasmo del momento. Quelli che, mentre sei al bancone ad allestire l’esperimento, ti fa aggiungere qualche provetta o piastra Petri in risposta a un’improvvisa ispirazione: «E se raddoppiassi le dosi di farmaco?», «E se seminassi meno cellule?».
La responsabile non voleva imbrigliare la fantasia di chi faceva ricerca nel suo laboratorio, ma esigeva che avessimo la consapevolezza dello spreco di reagenti a cui poteva portare ogni esperimento "What if?". L’intuizione del momento poteva essere buona ma, se volevamo mettere in piedi quell’esperimento, dovevamo pianificare tutti i passaggi, verficare che ne valesse la pena, e calcolare l’impatto che quella piccola divagazione poteva avere: aggiungere anche solo una piastra di coltura nell’incubatore poteva significare, in una sorta di reazione a catena, aumentare anche il numero di provette da analizzare al citofluorimetro o il numero di reazioni di RT-PCR.
Il nostro laboratorio, al tempo, contava quasi 20 persone: se ognuna si fosse lasciata andare a esperimenti "What if?", che cosa sarebbe successo alla nostra scorta di reagenti nel giro di qualche mese o di un anno?
La prima parola d’ordine della sostenibilità nella ricerca è quindi: pianificazione accurata e continua. Questo secondo aggettivo potrebbe sembrare scontato, ma per mantenere la rotta dei progetti di ricerca nel solco della sostenibilità è fondamentale informarsi e rimanere aggiornati sul proprio ambito di ricerca.
In alcuni settori, la quantità di articoli scientifici pubblicati ogni mese è molto voluminosa, ed è fondamentale verificare periodicamente se altri hanno già messo a punto la stessa metodica: questo semplice controllo può far risparmiare il tempo e i reagenti necessari per imbastire una nuova metodica partendo da zero.
2. Cercare alternative più sostenibili
Una pianificazione accurata significa anche valutare se lo stesso risultato può essere ottenuto con alternative più sostenibili. Un esempio è dato dalla strategia computer-aided drug discovery (CADD), cioè dai sistemi di design e selezione di potenziali nuovi farmaci attraverso metodi computazionali.
Le strategie tradizionali di sviluppo di farmaci hanno portato, in passato, a successi significativi, ma a quale costo? Sostenere lo sviluppo di un farmaco fino alla fine di un trial clinico in passato poteva richiedere miliardi di dollari, fino a 12 anni di attesa e nessuna garanzia di successo.
Con la CADD è possibile identificare per via computazionale potenziali bersagli farmacologici, eseguire uno screening virtuale di grandi librerie chimiche per individuare farmaci efficaci e valutare in silico la loro eventuale tossicità. Dopo queste analisi in silico, i composti selezionati vengono indirizzati verso i consueti esperimenti in vitro e in modelli animali. Con questo approccio, sono già stati sviluppati antibiotici, farmaci antitumorali e anti-HIV. La CADD aumenta quindi l’efficienza del processo di selezione e riduce in modo drastico il numero di composti chimici da testare sperimentalmente.
3. Promuovere la condivisione di risultati negativi
La ricerca è fatta anche di fallimenti. Il percorso che va dall’inizio di un progetto alla sua conclusione è costellato da ipotesi che si rivelano errate, vicoli ciechi e deviazioni forzate. Nelle riviste scientifiche, raramente si trova traccia di questi imprevisti e si tende a mettere in risalto solo il percorso principale, quello che infine ha portato al risultato finale. Ci sono però progetti che, nonostante ripetuti tentativi, non arrivano mai a un risultato pubblicabile, semplicemente perché tutte le ipotesi testate si sono rivelate sbagliate. Questi fallimenti sono storie poco “attraenti” per le riviste scientifiche, e solo pochi ricercatori arrivano a condividerli.
Quanto tempo e risorse (pensate solo ai reagenti e alle plastiche di laboratorio) potrebbero venire risparmiati ogni anno se fossero pubblicati anche i risultati negativi? Chi inizia un dottorato può passare mesi a destreggiarsi tra risultati che non tornano e ipotesi da riformulare: forse, da qualche parte nel mondo, altri ricercatori hanno già provato la stessa strada e si sono accorti che non portava da nessuna parte. Se quesi risultati negativi fossero stati pubblicati, un anno di lavoro sarebbe stato risparmiato ad almeno alcuni di loro.
PLOS One e il Journal of Negative Results sono alcuni esempi di riviste scientifiche che, rigorosamente in modalità peer-reviewed, hanno deciso da qualche anno di dare spazio anche ai progetti scientifici che sono finiti in un vicolo cieco.
4. Promuovere l’uso di strumenti statistici
Oltre a confermare se i risultati di un progetto sono significativi, i modelli statistici dovrebbero essere uno dei pilastri su cui costruire il progetto fin dalle prime battute. Per esempio, i biostatistici possono aiutare chi fa ricerca a definire l’impalcatura di un progetto e a stabilire fin dall’inizio il numero di animali da laboratorio o di campioni di pazienti da includere nello studio.
Questa valutazione iniziale è importante anche per capire la fattibilità del progetto: è ragionevole pensare di ottenere da un ospedale un numero x di pazienti con una malattia rara? Oppure è necessario cercare collaborazioni con altri istituti o Paesi?
La statistica aiuta anche a evitare inutili escalation nel numero di campioni: se un risultato non ha raggiunto la soglia di significatività, ha senso continuare ad aggiungere repliche? Quando è tempo di fermarsi? La statistica può rispondere a queste domande e limitare lo spreco di tempo e di risorse.
5. Promuovere le collaborazioni
Per la ricerca di base, a volte è davvero indispensabile implementare nuove tecniche e testare strumenti all’avanguardia. È solo così che la ricerca può spostare il confine della propria frontiera un passo in avanti. Tuttavia, mettere a punto nuove metodiche può essere molto dispendioso. Quando vale la pena investire risorse in strumentazioni che non è detto diano i risultati sperati?
La strada delle collaborazioni amplifica le potenzialità anche di un piccolo laboratorio. Se in passato le collaborazioni tra laboratori si stringevano soprattutto all’interno dello stesso istituto, oggi la ricerca non conosce confini. Il Progetto Genoma Umano ci ha insegnato che collaborazioni internazionali di grande portata sono possibili e, in qualche laboratorio del mondo, ci può essere qualcuno che è già un professionista nell’uso di specifici strumenti o metodiche.
Questo non è un modo per disincentivare l’acquisizione di nuove competenze e lo sviluppo di nuove professionalità: chiedere collaborazioni può però aiutare a investire in modo più mirato i fondi di un progetto e ad avere una prima indicazione se valga la pena lavorare in quella direzione.
6. Condividere protocolli, modelli di analisi e banche dati
Condividere i risultati del proprio progetto è il fondamento della ricerca scientifica, ma si può fare ancora di più se, oltre ai risultati, i ricercatori condividono i dati e gli strumenti che hanno usato per analizzarli. Questo approccio, che potremmo battezzare open research (“ricerca aperta”), mira ad incentivare la condivisione di:
- protocolli riproducibili per limitare lo spreco di tempo e di risorse in innumerevoli cicli di tentativi e fallimenti;
- codici e software open source per l’analisi statistica dei dati o per la loro visualizzazione;
- banche dati che raccolgono, per esempio, i dati di genomica; questa pratica, che ovviamente deve essere fatta nel rispetto della privacy dei donatori, potrebbe ammortizzare i costi di raccolta dei dati originari e favorire la produzione di più studi a partire dallo stesso set di dati.
7. Promuovere il consolidamento dei risultati e la loro riproducibilità
Fare ricerca è un po’ come scavare gallerie per addentrarsi in una montagna. Per farlo, si possono scavare gallerie profonde un paio di metri in una direzione e poi ricominciare, in una direzione diversa, a scavare un’altra piccola galleria. Questo approccio permette di sondare nuove strade, che si sviluppano in direzioni anche molto diverse, ma il rischio è quello di una proliferazione quasi frattale di tante piccole nicchie che danno solo un assaggio del potenziale di una ricerca: si tratta di qualcosa che merita altri studi oppure è davvero una galleria da abbandonare?
Per scoprirlo, non c’è che un modo: svolgere altri studi che hanno come obiettivo primario non quello di iniziare una nuova galleria, ma quello di puntellare e consolidare la galleria scavata fino a quel momento. Questi studi lavorano a favore della riproducibilità dei risultati: un passaggio fondamentale se si vuole continuare a scavare in quella direzione. Solo dopo diversi di questi studi si può fare una valutazione generale sulla direzione di quel settore di ricerca.
Essere i pionieri che per primi scavano una nuova galleria è uno degli aspetti più affascinanti della ricerca, ma consolidare i risultati raggiunti è fondamentale per fare passi avanti e decidere dove è più vantaggioso e più sostenibile investire i fondi della ricerca.
8. Valutare l’impatto diretto e indiretto della ricerca
Gli impatti di un progetto di ricerca sull’ambiente possono essere diretti o indiretti. Tra gli impatti diretti c’è la carbon footprint, cioè la quantità di CO2 associata a una determinata attività. Per acquisire consapevolezza di questa problematica è importante che chi fa ricerca cerchi modi per ridurre l’uso di plastica monouso e valuti le potenziali alternative come quelle promosse dalla Università di Exeter:
- Rifiutare, per esempio, acquistando plastica monouso in modo responsabile;
- Ridurre, pianificando gli esperimenti in modo da ridurre il consumo di plastica;
- Riutilizzare, per esempio, usando lo stesso puntale della pipetta per diluizioni seriali;
- Riciclare, destinando al riciclo tradizionale tutta la plastica non contaminata da materiale biologico.
Altrettanto importante è dedicare tempo alla manutenzione o alla sostituzione di vecchi strumenti che consumano grandi quantità di energia; gli strumenti vecchi possono poi essere donati ad altri laboratori di ricerca nei Paesi in via di sviluppo grazie a iniziative come Seeding Labs.
Ridurre l’impatto diretto significa inoltre chiedersi quale metodica, a parità di prestazioni, ha l’impatto minore sull’emissione di gas serra.
L’impatto indiretto di un progetto di ricerca può invece essere determinato dalle conseguenze di quel progetto: un progetto con un impatto limitato nell’immediato potrebbe, in futuro, richiedere per esempio costi molto elevati per l’archiviazione dei dati a lungo termine.
Per stimolare chi fa ricerca a tenere conto di questi aspetti stanno fiorendo iniziative come quelle promosse in Francia da Labos1.5, un collettivo di scienziati di diversi settori il cui obiettivo è quello di limitare l'impatto della ricerca sull’ambiente e sul cambiamento climatico.
9. Comunicare la ricerca in modo sostenibile
Fin da quando è stata fondata la Royal Society, i congressi sono uno dei pilastri su cui si regge il progresso scientifico. È alle conferenze che si possono comunicare i dati preliminari di un progetto molto prima che siano pronti per la pubblicazione su riviste peer reviewed. Ed è alle conferenze che si possono ricevere feedback e consigli su come risolvere problemi e uscire da vicoli ciechi. Infine, è alle conferenze che scienziati di tutto il mondo possono conoscersi di persona, essere esposti a idee innovative e dare vita a nuove collaborazioni. In altre parole, le conferenze sono un aspetto imprescindibile della scienza.
Tuttavia, valutare la carbon footprint di un laboratorio significa anche stimare l’impatto che ha sull’ambiente la partecipazione a conferenze. Per partecipare a un congresso internazionale, possono essere anche centinaia i ricercatori che attraversano metà globo, per esempio per andare dall’Australia agli Stati Uniti. E ritorno.
Una possibile soluzione ce l’ha suggerita la pandemia di COVID-19, durante la quale molti congressi scientifici si sono svolti online. Si è trattata di una soluzione di emergenza, e certamente una conferenza online non può sostituire del tutto il valore degli incontri di persona, ma questa può essere una valida alternativa per limitare la carbon footprint.
Paura che una simile tendenza finisca per imbrigliare la ricerca e limitarla? Non necessariamente.
Viaggiare per congressi, soprattutto a livello internazionale, può essere molto dispendioso in termini di denaro (i piccoli laboratori o le giovani leve della ricerca non sempre hanno fondi a sufficienza per finanziare le trasferte) e anche di tempo (per i congressi più grandi, un ricercatore può doversi allontanare per una settimana dal laboratorio e interrompere la ricerca). Promuovere le conferenze in modalità ibrida, in cui la partecipazione è possibile anche online, può quindi aumentare la partecipazione (e non limitarla!) e rendere l’iniziativa più inclusiva e sostenibile al tempo stesso.
Per promuovere questa tendenza, è stato proposto di introdurre un limite annuale massimo per ricercatore o per laboratorio per ridurre la travel footprint, cioè l’impatto sull’ambiente legato agli spostamenti. Di pari passo con questa strategia va la richiesta di scegliere in modo più oculato la sede dei congressi, per esempio favorendo - quando possibile - i luoghi che la maggior parte dei partecipanti può raggiungere in treno anziché in aereo.
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