È possibile sviluppare terapie in grado di colpire in modo mirato le cellule di un tumore e risparmiare i tessuti sani?
Esiste un modo per veicolare i farmaci in regioni anatomiche difficilmente accessibili, per esempio il cervello?
Come si possono sviluppare test diagnostici per malattie infettive che siano al contempo rapidi e altamente sensibili?
Forse vi potrà stupire, ma queste tre domande – che toccano ambiti così diversi – potrebbero avere una soluzione in comune: il phage design, cioè la tecnologia che permette di ingegnerizzare i batteriofagi (o fagi) e trasformarli in strumenti terapeutici e diagnostici altamente specifici.
I fagi sono semplici virus che infettano i batteri ma sono totalmente innocui per gli umani. A metà del Novecento sono stati protagonisti di esperimenti che hanno fatto la storia della biologia molecolare, come quello con cui Alfred Hershey e Martha Chase hanno dimostrato nel 1952 che sono le molecole di DNA, e non le proteine, a custodire l’informazione genetica. In seguito, i fagi hanno ceduto il passo a modelli sperimentali più complessi, ma negli ultimi dieci anni hanno poco a poco riconquistato il palcoscenico della ricerca e oggi, grazie al phage design, potrebbero diventare una delle frontiere più promettenti e innovative delle nanotecnologie.
In questa seconda parte della sua intervista, il professor Alberto Danielli, responsabile del Laboratorio di Biotecnologie molecolari del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna, ci spiega in che cosa consiste il phage design e in che modo i fagi possono trasformarsi da toolbox vintage della biologia molecolare a strumenti innovativi per la diagnosi e la terapia di malattie.
1. Che cos’è il phage design?
Il designer grafico Paul Rand sosteneva che «il design è il metodo per mettere insieme forma e contenuto […]». Un punto di vista abbracciato anche dalla designer Paola Antonelli, quando sostiene che «il buon design è un atteggiamento rinascimentale che unisce tecnologia, scienza cognitiva, bisogno umano e bellezza […]».
Queste definizioni arrivano dal mondo della grafica e dell’arte, ma contengono comunque gli ingredienti di un buon design in ambito biotecnologico. Nel caso specifico del phage design, la disciplina che permette di ingegnerizzare i fagi, la forma è, per esempio, quella del fago filamentoso M13, un microscopico e sottilissimo spaghetto lungo circa 1000 nm. Il contenuto è quello conferito dalle tecniche di ingegnerizzazione, che permettono per esempio di modificare in laboratorio il tropismo del fago (cioè a quali cellule si attaccherà) o le sue capacità funzionali (per esempio, quella di attivare una specifica reazione chimica utile in campo terapeutico o diagnostico).
E l’atteggiamento rinascimentale? Questo lo ritroviamo nell’approccio transdisciplinare che unisce settori diversi: è stato così anche per il gruppo di ricerca di Alberto Danielli, che ha unito le proprie competenze di biotecnologie molecolari con quelle del gruppo di Matteo Calvaresi, del Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician”. Ne è nato un progetto a quattro mani di phage design basato su due successivi livelli di ingegnerizzazione:
- a livello molecolare, il fago viene modificato per consentirgli di riconoscere e legare una specifica molecola, per esempio il recettore espresso da una cellula tumorale; questo permette di indirizzare il fago in modo mirato verso le cellule che esprimono quel recettore.
- a livello funzionale, il fago viene equipaggiato con molecole che gli danno la possibilità di svolgere nuove funzioni, per esempio quella di attivare una specifica reazione chimica nelle cellule a cui è indirizzato.
Spiega Danielli:
Grazie alla collaborazione con i colleghi chimici, il fago modificato si trasforma in una sorta di nanorobot che non solo ha un tropismo modificato e completamente diverso da quello originario, ma è anche armato di molecole chimiche con una funzione terapeutica o diagnostica.
2. Quali sono le applicazioni del phage design?
A differenza della terapia fagica (in cui viene sfruttata la capacità dei fagi di lisare i batteri), nel phage design l’obiettivo è quello di convertire il fago in un nanovettore di molecole. L’ingegnerizzazione dei fagi apre così la strada a una vasta gamma di applicazioni, il cui punto di forza è l’alta specificità coniugata alla incredibile versatilità.
Le applicazioni dei fagi ingegnerizzati riguardano due ambiti in particolare.
- Terapie mirate: i fagi ingegnerizzati possono essere impiegati come vettori terapeutici per nanoterapie innovative. In questo articolo vedremo, in particolare, due applicazioni messe a punto dal laboratorio di Alberto Danielli, basate sulla terapia fotodinamica e la terapia sonodinamica, in cui le radiazioni luminose o gli ultrasuoni vengono impiegati per colpire cellule tumorali.
- Biosensoristica: in questo caso, il phage design permette di trasformare i fagi in vettori diagnostici, cioè biosensori in grado di riconoscere in modo altamente specifico marcatori molecolari. In coda a questo articolo, Alberto Danielli ci spiega come questa strategia può essere impiegata in ambito clinico per riconoscere la presenza di un patogeno o di cellule tumorali.
3. Phage design e terapie mirate: come funziona un vettore fagico terapeutico?
Partiamo dalle applicazioni terapeutiche: in questo ambito, una delle più promettenti è la terapia fotodinamica per il trattamento di tumori. Come abbiamo accennato, per ottenere fagi ingegnerizzati da impiegare in questa terapia sono necessarie due fasi:
- nella prima fase, il fago M13 viene modificato dal punto di vista molecolare per indirizzarlo verso uno specifico marker tumorale, per esempio il recettore EGFR;
- nella seconda fase, il fago viene modificato anche dal punto di vista chimico e coniugato con molecole sensibilizzatrici: si tratta di molecole che, una volta eccitate con la luce o con gli ultrasuoni, generano ROS, cioè specie reattive dell’ossigeno la cui azione citotossica uccide le cellule tumorali in cui è penetrato il fago.
In un recente studio pubblicato dalla rivista Nanoscale, i gruppi di Alberto Danielli e Matteo Calvaresi, grazie anche a un finanziamento della Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, hanno dimostrato con esperimenti in vitro che il fago M13 ingegnerizzato in questo modo è in grado di legarsi in modo specifico alle cellule di un carcinoma della pelle che esprimono il marcatore tumorale EGFR. Una volta legati e internalizzati dalle cellule, i fagi sono poi stati colpiti con una radiazione luminosa che ha innescato la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Il risultato è stata l’eliminazione selettiva delle cellule tumorali che esprimevano il recettore EGFR.
Questo stesso approccio può essere impiegato per eliminare i batteri responsabili di un’infezione. È lo stesso della terapia fagica classica, ma l’uso di fagi ingegnerizzati permetterebbe di indirizzare l’azione terapeutica in modo ancora più specifico solo sui batteri che esprimono determinati marcatori. Rispetto agli antibiotici, che spesso hanno uno spettro d’azione molto ampio e possono dare molti effetti collaterali, i fagi ingegnerizzati colpirebbero solo i batteri da eliminare, risparmiando, per esempio, le popolazioni batteriche del microbiota.
Una variante della terapia fotodinamica è la terapia sonodinamica: il principio è il medesimo, ma in questo caso il rilascio di ROS è innescato dagli ultrasuoni anziché dalla luce. Il vantaggio? Uno è senza dubbio il potere di penetrazione nei tessuti umani, che nel caso degli ultrasuoni è molto superiore a quello della luce emessa dai laser terapeutici usati per la terapia fotodinamica.
4. Quali sono i vantaggi delle terapie con fagi ingegnerizzati?
Che si tratti di terapia fotodinamica o sonodinamica, l’approccio terapeutico basato su fagi modificati è molto promettente per diversi motivi, primo fra tutti la sicurezza.
Spiega Danielli:
Questa strategia di phage design funziona come un gate logico: l’effetto citotossico si ha solo se entrambe le condizioni sono soddisfatte nello stesso momento.
Il fago ingegnerizzato, di per sé, non ha infatti alcun effetto, a meno che non venga attivato con la luce o con gli ultrasuoni. Per esempio, il fago M13 ingegnerizzato si può legare in modo specifico al recettore EGFR, ma in assenza dello stimolo fornito dalla luce o dagli ultrasuoni non si avrà alcun effetto citotossico. Allo stesso modo, in assenza del fago l’emissione di luce o di ultrasuoni non provoca alcun danno alle cellule.
Perché si verifichi l’emissione di ROS e, di conseguenza, l’effetto citotossico, è indispensabile che il fago si leghi al recettore EGFR esposto sulle cellule e che, contemporaneamente, le stesse cellule vengano investite dalla luce o dagli ultrasuoni.
Si tratta di un sistema a doppio puntamento che garantisce un maggior controllo del momento e della zona in cui viene applicata la terapia. Gli effetti terapeutici rimangono limitati alla regione colpita dalla luce o dagli ultrasuoni e gli effetti collaterali si riducono.
Quest’ultimo aspetto mette in evidenza gli altri vantaggi del phage design, ovvero la precisione e la riduzione degli effetti collaterali. Torniamo al caso del fago M13 che lega EGFR: questo recettore è espresso ad alti livelli da alcune cellule tumorali, ma è presente anche su alcuni tessuti sani. Il sistema a doppio puntamento garantisce che, se il fago dovesse legarsi anche ai tessuti sani, l’effetto citotossico si avrà solo nella regione del corpo che verrà investita dalla luce o dagli ultrasuoni, cioè la regione in cui si trova il tumore.
Infine, il phage design ha il vantaggio di essere molto versatile: con modifiche molecolari mirate, è possibile variare il tropismo del fago e indirizzarlo verso i marcatori specifici di diversi tipi di tumore.
5. Le frontiere del phage design: quali sono le potenzialità cliniche di questa terapia?
Tra le caratteristiche del fago M13, ce ne sono alcune che potrebbero rendere la terapia foto/sono-dinamica ancora più promettente. La prima riguarda la capacità dei fagi di penetrare all’interno di tessuti e regioni anatomiche che da sempre costituiscono fortezze quasi inespugnabili dal punto di vista terapeutico. La principale di queste è il tessuto nervoso: protetto dalla barriera emato-encefalica (BEE), il cervello viene tenuto al riparo dalle sostanze potenzialmente tossiche presenti nel sangue. Purtroppo, la BEE si trasforma in un ostacolo quando si cerca di veicolare nel cervello alcuni tipi di farmaci, come gli anticorpi monoclonali e i chemioterapici usati per il trattamento di tumori cerebrali. Invece, i fagi M13 ingegnerizzati sono in grado di attraversare la BEE e, se modificati in modo opportuno, potrebbero essere indirizzati in modo specifico verso le cellule tumorali e sprigionare la propria potenza terapeutica all’interno del cervello, lì dove altri farmaci arrivano con difficoltà.
Oltre a superare la BEE, i fagi sono in grado anche di penetrare all’interno degli sferoidi, le piccole masse solide che alcuni tumori tendono a formare. In genere, anche molecole molto piccole come gli anticorpi monoclonali faticano a penetrare negli sferoidi; i fagi, invece, sembrano farlo senza difficoltà, forse grazie a un processo di transcitosi che permette loro di passare da una cellula a quella contigua. Si tratta di un fenomeno fino a poco tempo fa insospettabile e che deve ancora essere investigato nel dettaglio, ma che – proprio come nel caso della BEE – potrebbe aprire la strada a potenzialità terapeutiche finora inesplorate.
Molti farmaci esercitano la loro azione sugli strati superficiali del tumore, ma faticano a colpire le cellule che si trovano all’interno della massa. I fagi potrebbero aiutare a superare questo ostacolo e, in sinergia con altri farmaci (chemioterapia, immunoterapia, ecc.), amplificare l’efficacia dei trattamenti antitumorali.
Il gruppo di Alberto Danielli sta già testando in laboratorio l’efficacia di questo approccio su sferoidi 3D riprodotti in vitro e, in un recente studio, ha dimostrato che gli sferoidi di carcinoma ovarico possono essere colpiti con fagi diretti contro il recettore EGFR e disgregati grazie al rilascio di molecole ROS innescato dalle molecole fotosensibilizzatrici. Questo modello è al momento testato in laboratorio anche su altri tumori rari o per i quali i trattamenti disponibili sono poco efficaci o molto invasivi, come il melanoma, il carcinoma mammario, i sarcomi epitelioidi e il neuroblastoma.
6. In che modo i fagi possono essere usati come biosensori?
Veniamo ora al secondo campo di applicazione del phage design, la progettazione di biosensori per test diagnostici sempre più affidabili. Partiamo da un esempio pratico, emerso nel corso della pandemia di COVID-19: i test antigenici fai-da-te hanno il grande vantaggio di dare una risposta in tempi molto rapidi ma purtroppo sono poco sensibili, cioè possono dare un risultato negativo anche quando il campione è positivo (falso negativo). I tamponi molecolari, per contro, sono molto più sensibili ma meno immediati; per avere un risultato è necessario attendere ore, talvolta un giorno: il tempo necessario per eseguire l’analisi di RT-PCR in un laboratorio specializzato.
Come fare per avere un test che unisca i vantaggi di entrambi questi approcci, che sia cioè allo stesso tempo rapido e altamente sensibile? Per rispondere a questa domanda, nel 2022 ha preso vita ECLipse, un progetto europeo coordinato da Luca Prodi, professore di Chimica Generale dell’Università di Bologna. Del progetto ECLipse fa parte anche il gruppo di ricerca di Alberto Danielli, che grazie a questo studio spera di trasformare i fagi in biosensori per test diagnostici semplici e accessibili a tutti: per la prima volta, i fagi verranno utilizzati in sinergia con l’elettrochemiluminescenza (o ECL, da cui il nome del progetto), un sistema in grado di emettere un segnale luminoso molto forte e facile da rilevare, quindi potenzialmente molto utile per aumentare la sensibilità dei test diagnostici.
Per capire il principio alla base di questa applicazione, torniamo ai tamponi antigenici anti-COVID: il sistema attuale si basa su anticorpi monoclonali che riconoscono nel campione naso-faringeo la presenza di antigeni di SARS-CoV-2, il virus responsabile di COVID-19. Questa strategia sfrutta la specificità con cui gli anticorpi riconoscono l’antigene, ma non è molto sensibile e, di fatto, in alcuni casi non fornisce un segnale abbastanza forte da essere rilevato. Da qui i falsi negativi.
La sensibilità del test potrebbe però aumentare se, al posto degli anticorpi monoclonali, venissero impiegati fagi ingegnerizzati in grado di riconoscere in modo specifico gli antigeni di SARS-CoV-2. Rispetto agli anticorpi monoclonali, i fagi possono infatti essere coniugati con un numero molto superiore di molecole sensibilizzatrici: parliamo di circa 1000 molecole per fago, contro le 2-5 in genere legate a un anticorpo monoclonale. Una simile amplificazione del segnale aumenterebbe la sensibilità del test e ridurrebbe in modo drastico i falsi negativi.
In futuro, questa stessa strategia potrebbe essere applicata anche per aumentare la sensibilità dei test diagnostici in un contesto clinico, per esempio per verificare se, dopo un trattamento, sono ancora presenti cellule tumorali che potrebbero dare origine a una recidiva futura della malattia.
immagine di copertina: Virus batteriofagi che attaccano i batteri (fonte: Shutterstock)