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Immunoterapia, arma preziosa contro il cancro

Dagli inibitori dei checkpoint alle cellule CAR-T: come l’immunoterapia insegna al sistema immunitario a sconfiggere i tumori

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La storia dell’immunoterapia non inizia con Emily Whitehead, ma il suo nome è legato a uno dei momenti più significativi dello sviluppo di queste terapie rivoluzionarie. Nel 2010 Emily aveva 5 anni quando le fu diagnosticata una leucemia linfoblastica acuta: si tratta di un tumore che, nei bambini, ha altissime percentuali di guarigione, ma nel caso di Emily la terapia non diede i risultati sperati. Dopo un anno di tentativi falliti, tutte le armi a disposizione dei medici erano ormai spuntate. Tutte a parte una, ancora in fase sperimentale e mai testata in pazienti pediatrici: si trattava della terapia con cellule CAR-T, un particolare tipo di linfociti ingegnerizzati, che Carl June stava mettendo a punto alla University of Pennsylvania per istruire il sistema immunitario a combattere i tumori.

Il 17 aprile 2012 Emily ha ricevuto la prima dose di cellule CAR-T presso il Children’s Hospital of Philadelphia: quel giorno è diventata la prima paziente pediatrica al mondo a ricevere questo tipo di trattamento. A distanza di dieci anni, Emily può festeggiare l’ennesimo anniversario dalla scomparsa della leucemia.

Quando le terapie tradizionali non bastano

La chemioterapia e la radioterapia sono tra le principali strategie antitumorali, ma spesso comportano gravi effetti collaterali, perché la loro azione può danneggiare anche i tessuti sani. Il dosaggio e l’intensità delle cure devono quindi essere stabiliti tenendo conto di tutti gli effetti, anche quelli indesiderati, e questo può talvolta limitarne il potenziale terapeutico.

Per aumentare la potenza di fuoco contro i tumori sono sempre più necessarie terapie mirate, in grado di colpire i tessuti tumorali preservando quelli sani. Una di queste è l’immunoterapia: l’idea è quella di istruire il sistema immunitario a riconoscere ed eliminare le cellule tumorali, proprio come farebbe con un agente patogeno. Negli ultimi dieci anni questa strategia terapeutica ha rivoluzionato la cura di molti tumori, alcuni dei quali, per esempio il melanoma metastatico, erano prima incurabili.

L’origine dell’immunoterapia

Per una strategia così innovativa e rivoluzionaria, può sorprendere scoprire che le basi dell’immunoterapia sono state gettate alla fine del diciannovesimo secolo. È stato infatti nel 1891 che il chirurgo statunitense William Coley ha sviluppato la prima immunoterapia per pazienti affetti da cancro. L’ispirazione gli era venuta osservando un paziente con sarcoma, in cui il tumore era regredito dopo aver contratto una grave infezione della pelle. Coley ipotizzò che le difese immunitarie innescate dall’infezione batterica avessero, in qualche modo, svolto anche un ruolo antitumorale.

La terapia ideata da Coley prevedeva di inoculare nei pazienti con tumori una miscela di componenti batteriche, nella speranza di attivare una risposta immunitaria antitumorale. La terapia era però molto complessa e i risultati difficili da replicare, e per questo fu presto abbandonata. Ma l’ingranaggio era stato ormai messo in movimento e nei decenni che seguirono molti ricercatori accarezzarono, più o meno marginalmente, l’idea che il sistema immunitario potesse giocare un ruolo nel proteggere dai tumori.

Una partita a scacchi tra immunità e tumore

Una svolta significativa è arrivata a metà del Novecento con la teoria dell’immunosorveglianza, in base alla quale il sistema immunitario è in grado di riconoscere le cellule che presentano antigeni tumorali e di eliminarle prima che crescano in modo incontrollato. Questa sorveglianza si regge però su un delicato equilibrio: la capacità del sistema immunitario di riconoscere ed eliminare le cellule tumorali deve infatti tenere testa alle strategie sviluppate continuamente dal tumore per rendersi “invisibile” o inattaccabile dal sistema immunitario. Quella tra cellule immunitarie e cellule tumorali è una vera e propria partita a scacchi, e non sempre a vincere è il sistema immunitario. Esistono però metodi per ribaltare il risultato della partita e dichiarare scacco matto al tumore.

Questa linea del tempo del Cancer Research Institute riporta le principali tappe nella storia dell’immunoterapia.

Svegliare il can che dorme

L’idea che il sistema immunitario sia coinvolto nel contenimento dei tumori è diventata sempre più concreta nella seconda metà del Novecento, grazie alla scoperta delle citochine immunitarie, dei primi antigeni tumorali e dei checkpoint immunitari. Su questi ultimi vale la pena spendere due parole, non solo perché la loro scoperta è valsa a James P. Allison e Tasuku Honjo il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia nel 2018, ma soprattutto perché si tratta della scoperta che ha fatto da rampa di lancio per lo sviluppo dei primi farmaci immunoterapici di successo.

Se il sistema immunitario fosse un’auto, i checkpoint immunitari sarebbero i freni che permettono di rallentare prima di perdere il controllo della vettura. Nel caso di un’infezione, questo meccanismo è importante per spegnere la risposta immunitaria quando il patogeno è stato ormai eliminato. Allison e Honjo hanno però scoperto che due di questi “meccanismi frenanti”, basati sulle molecole CTLA-4 e PD-1, sono sfruttati anche dalle cellule tumorali per tenere a bada il sistema immunitario. Grazie a specifici anticorpi monoclonali è però possibile disinnescare il freno di CTLA-4 e PD-1, e risvegliare le risposte immunitarie contro il tumore (ne abbiamo parlato in questo articolo dell’Aula di Scienze).

La scoperta di questo sistema di difesa antitumorale ha aperto la strada a nuove, rivoluzionarie terapie. Gli esperimenti di Allison, per esempio, hanno portato allo sviluppo di ipilimumab, un anticorpo monoclonale che inibisce il checkpoint CTLA-4: è nato così il primo farmaco nella storia dell’oncologia che ha permesso di aumentare la sopravvivenza dei pazienti con melanoma metastatico.

Cinque tipi di farmaci immunoterapici

I risultai pionieristici di Allison e Honjo hanno dato il via allo sviluppo di numerosi trattamenti di immunoterapia antitumorale. Oggi sono disponibili strategie che agiscono su entrambi i versanti: alcune immunoterapie potenziano il sistema immunitario mentre altre agiscono sul lato opposto, quello delle cellule tumorali, per renderle più visibili e riconoscibili da parte delle cellule immunitarie.

Per semplicità, possiamo raggruppare le diverse immunoterapie in cinque categorie principali.

1. Immunomodulatori. Sono molecole che regolano la risposta immunitaria, agendo come “acceleratori” o come “freni”. Appartengono a questa categoria gli inibitori dei checkpoint immunitari, come gli anticorpi monoclonali che interferiscono con CTLA-4 o che impediscono il legame di PD-1 con PDL-1 (vedi immagine qui sopra). Anche alcune citochine ricombinanti, come IL-2 e IFNα, sono usate come immunomodulatori, grazie alla loro capacità di regolare la produzione e la maturazione di cellule immunitarie.

2. Terapia cellulare adottiva. Questa strategia, chiamata anche immunoterapia cellulare, sfrutta le cellule del sistema immunitario per eliminare il tumore. Alcune di queste terapie prevedono semplicemente la raccolta e la successiva espansione in laboratorio di cellule immunitarie del paziente, per esempio i TIL, i linfociti T che infiltrano il tumore: si tratta di cellule immunitarie già in grado di riconoscere le cellule cancerose ma che hanno bisogno di una “spinta” per essere attivate.

Altre strategie, più complesse, sono forme di terapia genica che, grazie alle tecniche del DNA ricombinante, potenziano la capacità delle cellule immunitarie di sconfiggere il tumore. L’esempio più conosciuto è quello delle cellule CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T cells): grazie a tecniche di ingegneria genetica, i linfociti T del paziente vengono equipaggiati con un recettore per l’antigene artificiale (“chimerico”), che non esiste nei linfociti naturali e che è progettato in modo specifico per riconoscere gli antigeni espressi sulla superficie del tumore di quel particolare paziente. I linfociti T vengono generalmente ingegnerizzati con vettori virali ma oggi si stanno testando tecniche più efficaci e sicure, come CRISPR. Nel 2018, in Europa sono state approvate terapie con CAR-T per due tipi di tumori del sangue: la leucemia linfoblastica acuta e il linfoma.

3. Anticorpi monoclonali mirati. Gli anticorpi monoclonali (mAb) possono essere progettati per riconoscere e legarsi a specifici antigeni tumorali e attivare così la risposta immunitaria contro di essi, proprio come farebbe un anticorpo naturale. In alcuni casi, gli anticorpi monoclonali possono essere coniugati con farmaci antitumorali o sostanze radioattive, che vengono in questo modo veicolate solo sulle cellule che espongono l’antigene tumorale; questo sistema permette di limitare gli effetti collaterali. Altri mAb, chiamati BiTEs (Bispecific T cell Engagers), sono bispecifici, cioè legano sia le cellule tumorali sia i linfociti T: questa vicinanza aumenta le possibilità di una risposta immunitaria più efficace.

4. Vaccini antitumorali. Alcuni vaccini antitumorali hanno un’azione preventiva: ne sono un esempio i vaccini anti-epatite B (HBV) e anti-papillomavirus (HPV), che proteggono dall’infezione di due virus responsabili della trasformazione neoplastica delle cellule infettate. Nella maggior parte dei casi, però, i medici si trovano ad affrontare tumori già formati, per i quali servono approcci personalizzati e più sofisticati.

L’instabilità genetica di molti tumori è un grande serbatoio di nuovi antigeni (neoantigeni), specifici del tumore; l’obiettivo dei vaccini antitumorali terapeutici è quello di istruire il sistema immunitario a riconoscerli e a uccidere, in modo mirato, solo le cellule che li esprimono. Alcuni tipi di vaccini possono essere ottimizzati per produrre anche molecole immunostimolanti.

I primi due vaccini antitumorali approvati dall’FDA statunitense sono entrambi usati per il tumore alla prostata: il primo, basato sul bacillo di Calmette-Guerin, è costituito da un preparato di batteri attenuati in grado di stimolare il sistema immunitario; il secondo vaccino (sipuleucel-T), molto più sofisticato, si basa invece su cellule immunitarie specializzate nella presentazione dell’antigene, cioè le cellule dendritiche del paziente. A differenza del bacillo di Calmette-Guerin, che aumenta in modo generico la risposta immunitaria, sipuleucel-T agisce in modo specifico contro l’antigene PAP espresso dalle cellule tumorali del carcinoma prostatico.

5. Virus oncolitici. Si tratta di virus che infettano le cellule tumorali e ne causano la morte per lisi; la rottura delle cellule rilascia nell’ambiente extracellulare antigeni tumorali che possono richiamare e stimolare la risposta immunitaria. In questo modo, l’azione antitumorale può estendersi anche ad altre cellule tumorali non infettate direttamente dal virus oncolitico.

Alcuni virus oncolitici possono essere ingegnerizzati con le tecniche del DNA ricombinante, per esempio per limitare la loro capacità di infettare cellule sane oppure per indurre le cellule tumorali a produrre la citochina GM-CSF, che stimola ulteriormente la risposta immunitaria.

Finito il trattamento, la cura continua

Rispetto alle terapie antitumorali tradizionali, l’immunoterapia offre alcuni vantaggi che la rendono un’alternativa rivoluzionaria in campo oncologico per diversi motivi:

•   colpisce in modo mirato le cellule tumorali limitando gli effetti sui tessuti sani;

•   agisce dall’interno e risveglia un potenziale che è già presente nell’organismo: quello di riconoscere cellule maligne;

•   è un sistema dinamico e versatile: una volta attivato, può adattarsi alla continua evoluzione e ai continui tentativi del tumore di sfuggire all’immunosorveglianza;

•   forma una memoria immunitaria contro gli antigeni tumorali: in questo modo, l’effetto terapeutico dell’immunoterapia si estende per mesi o anni dalla fine del trattamento e tiene sotto controllo eventuali recidive future o la crescita di metastasi.

Un sistema ancora da calibrare

Negli ultimi dieci anni gli inibitori dei checkpoint, la terapia CAR-T e altre immunoterapie hanno rivoluzionato il trattamento di alcuni tumori considerati incurabili. Rivoluzionario non significa però miracoloso, e ci sono due aspetti in particolare da ottimizzare. Il primo riguarda gli effetti collaterali, che possono presentarsi anche settimane dopo il trattamento e che, seppur gestibili, possono essere molto intensi; alcuni di questi effetti, come la tempesta di citochine, sono l’espressione di un’eccessiva attivazione del sistema immunitario e possono essere limitati con farmaci già usati per contenere le malattie autoimmuni.

Il secondo aspetto riguarda l’efficacia: l’immunoterapia funziona in circa il 40-50% dei pazienti; per cercare di aumentare questa percentuale, è importante capire quali caratteristiche fanno sì che un particolare paziente o tumore risponda al trattamento.

Per far fronte a questi limiti, i ricercatori stanno testando nuove strategie. Vediamo tre delle più promettenti.

•   Terapie combinate. L’immunoterapia può essere usata insieme alla chirurgia, alla chemioterapia, ad anticorpi monoclonali mirati oppure ad altre immunoterapie: questo uso combinato aumenta la potenza di fuoco e le possibilità di guarigione. Un approccio di questo tipo è stato usato di recente per l’ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, affetto da melanoma: alla radioterapia, usata per distruggere le cellule tumorali e richiamare cellule immunitarie, ha fatto seguito il trattamento con un inibitore di PD-1 per potenziare la risposta.

•   Studio del microambiente tumorale. Per comprendere le dinamiche che governano l’ecosistema tumorale è importante caratterizzare tutte le cellule immunitarie che ne fanno parte: fino a oggi la maggior parte degli sforzi si è concentrata sui linfociti T, ma anche i linfociti B, le cellule detritiche, i macrofagi e le cellule NK potrebbero svolgere un ruolo chiave nei meccanismi di progressione tumorale e di risposta all’immunoterapia.

•   Analisi delle caratteristiche individuali per una terapia personalizzata. Molte immunoterapie sono progettate per la popolazione generale, ma l’uso di criteri diagnostici più stringenti e l’analisi di specifici biomarcatori tumorali potrebbero aiutare a identificare i sottogruppi della popolazione più indicati per un certo tipo di terapia. La tendenza è quindi quella di sviluppare un’immunoterapia di precisione, basata per esempio sul livello di espressione del gene PD-1, sul carico mutazionale del tumore e su altri biomarcatori utili per stratificare i pazienti in sottogruppi. Oltre ai fattori genetici intrinseci alle cellule tumorali, vanno considerate anche altre caratteristiche dell’ospite: tra queste, sta assumendo sempre maggiore importanza il microbiota, per il suo ruolo nel modulare le risposte immunitarie dell’organismo.

Per approfondire
Come batteremo il cancro - La sfida dell’immunoterapia e delle Car T di Fabio Ciceri e Paola Arodio, Raffaello Cortina Editore 2021

L’immunoterapia oltre i tumori

I successi dell’immunoterapia nei tumori potrebbero rivelarsi utili anche al di fuori dell’ambito oncologico. La pandemia di COVID-19 ne è una dimostrazione eclatante: per esempio, alcuni farmaci usati per controllare la tempesta di citochine scatenata dai CAR-T hanno trovato impiego in reazioni analoghe provocate dall’infezione da SARS-CoV-2. Anche per i vaccini a RNA, diventati oggi una delle scelte terapeutiche di punta per il controllo della pandemia, dobbiamo ringraziare gli anni di ricerche dedicati allo studio di vaccini antitumorali a RNA.

Per altre patologie, l’immunoterapia può fornire i mezzi per attenuare, anziché stimolare, una risposta immunitaria alterata. Dalle malattie autoimmuni al rigetto dei trapianti, da condizioni infiammatorie croniche ad allergie e patologie cardiovascolari: gli ambiti della ricerca immunoterapica sono in continuo aumento, un chiaro segnale di quanto l’azione del sistema immunitario sia pervasiva nel nostro stato di salute.

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Le principali categorie di strategie immunoterapie in relazione al complesso ecosistema formato da cellule tumorali e cellule immunitarie (immagine: Zhang Y and Zhang Z, Cellular & Molecular Immunology, 2020)

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Un anticorpo bispecifico lega il linfocita T e la cellula tumorale (immagine: Wikipedia Commons)

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Le principali tappe nella produzione di cellule CAR-T (immagine: Wikipedia Commons)

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CTLA-4 e PD-1 agiscono, con meccanismi diversi, come freni della risposta immunitaria (figure in alto in giallo). Se queste molecole vengono bloccate da anticorpi, il sistema immunitario si risveglia ed elimina le cellule tumorali (figure in basso in verde) (immagine: Nobelprize.org)

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Una fotografia di William Coley nel 1892 (immagine: Wikimedia Commons)