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Tra le onde e negli abissi: l'uomo con lo scandaglio

Navighiamo nel libro dello svedese Patrik Svensson per scoprire storie e stratagemmi di uomini che hanno solcato mari ed esplorato profondità

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A partire dal primo volo di Juri Gagarin, avvenuto il 12 aprile 1961, sono poco meno di 600 gli esseri umani che sono stati nello spazio, di cui 12 possono dire di aver camminato sulla Luna. Un numero destinato a crescere con i voli turistici spaziali di compagnie come Virgin Galactic e Blue Origin.

Circa 6000 sono gli esseri umani ad aver raggiunto l’Everest, con i suoi 8.848 metri la montagna più alta del pianeta. I primi sono stati il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay il 29 maggio 1953.

Fino al 2019, invece, erano state appena sette le persone ad aver raggiunto l’Abisso Challenger che, con i suoi 10.994 metri sotto il livello del mare, è il punto più profondo della Terra, situato nella Fossa delle Marianne (Oceano Pacifico). Fra questi sette c’era anche James Cameron, regista di Avatar e Titanic, di cui consiglio il film documentario Deepsea Challenge 3D. Negli ultimi anni le persone che hanno visitato il Challenger sono salite a una trentina.

Sembra quindi molto più semplice rivolgere lo sguardo verso l’alto, al cielo e alle vette, che verso il basso, nelle abissali e buie profondità. Ma prima di questo intenso rapporto con la verticalità del mondo, per molti secoli il genere umano ha avuto un rapporto orizzontale con gli spostamenti, ancor più con il mare.

All’inizio fu in superficie

La storia umana è una storia di spostamenti, fin dai primi movimenti di Homo sapiens dall’Africa verso nord-est, fino alle navi di fenici, greci, romani e vichinghi: la loro fama di grandi navigatori è arrivata fino ai nostri manuali di storia. Cosa che in genere non è accaduta ai polinesiani, che circa cinquemila anni fa, molto prima dei popoli menzionati, partirono dall’Indonesia e dalla Filippine per colonizzare il Pacifico.

Ora, se osserviamo un mappamondo dalla parte dell’Oceano Pacifico, inclinandolo leggermente in modo da intravedere il Polo Sud, avremo modo di notare una cosa abbastanza impressionante: quasi non si vede terra. Il Pacifico rappresenta un terzo del nostro pianeta, con i suoi 179.000.000 di kilometri quadrati. E i polinesiani, con le loro piccole canoe in uso ancora oggi, migliaia di anni fa furono in grado di navigare per migliaia di kilometri (per esempio dalle Hawaii fino a Tahiti) resistendo, senza morire, all’infinità di pericoli ai quali erano esposti.

Come fu possibile? A questa domanda risponde l’appassionante libro L’uomo con lo scandaglio. Storie di mare, abissi e meraviglie (Iperborea, 2023, 222 pp., euro 18), scritto dallo svedese Patrick Svensson (1972), un libro dove ogni capitolo racconta una storia legata al mare con protagonisti, per esempio, Ferdinando Magellano e il suo schiavo malese, i capodogli e Moby-Dick, la grande biologa Rachel Carson o il ritmo della natura.

Verosimilmente ricorrevano alla cosiddetta «navigazione stimata», una tecnica per determinare la rotta e la velocità in mancanza di punti di riferimento visibili per orientarsi. Studiando i venti, le onde e le correnti si riesce ad avere un'idea di dove si è sapendo dove si era un'ora prima. È una tecnica che si basa sull'osservazione continua. Ai tempi delle prime traversate dei polinesiani, probabilmente c'era un navigatore seduto a poppa che, con i piedi sul fondo di legno, sentiva i movimenti sotto di sé, studiava la conformazione delle onde per farsi un'idea della velocità, faceva caso al vento sulle guance e agli odori che gli portava. Era un'arte sensoriale, la capacità di essere pienamente presenti in ogni istante.

I navigatori polinesiani impararono a capire l'andamento delle correnti e dei moti ondosi, a interpretare come si increspava la superficie dell'acqua al diminuire della profondità e che cosa preannunciavano del viaggio il ritmo e l'altezza delle onde. [pp. 39-40]

I polinesiani oltre ad “ascoltare” le onde si orientavano con le costellazioni e con gli uccelli migratori, ma i secoli sono passati e l’arte della navigazione è progredita, soprattutto in Europa, dove era strettamente legata alla conquista di nuove terre e nuove risorse. Gli eroi di questi anni sono Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano e Vasco de Gama.

Per tutti, nei lunghi viaggi in mare sono fondamentali due cose: sapere dove ci si trova ed evitare il naufragio, spesso fatale. Ecco forse perché si chiama pianeta Terra e non pianeta Acqua: perché per quanto vitale sia l’acqua, è sulla terra che troviamo riparo e sicurezza. Non siamo balene…

Mentre per evitare il naufragio servono barche in ordine, un equipaggio efficiente e un capitano con esperienza, possibilmente non ossessionato da Moby-Dick, per sapere dove ci si trova sono necessari alcuni strumenti.

Il primo è l’astrolabio, uno strumento astronomico circolare inventato ad Alessandria circa nel IV secolo d.C. e perfezionato dagli Arabi nel X secolo, dai quali si diffuse in Europa in età moderna. Grazie al funzionamento di questo strumento, i navigatori potevano conocere la loro latitudine terrestre. La latitudine, lo ricordiamo, è la «distanza angolare di un luogo dall’equatore terrestre, gener. misurata in gradi con valori tra 90° Sud e 90° Nord» [dallo Zingarelli 2024].

Scrive Svensson:

Il navigante aveva così un punto preciso cui fare sempre riferimento, poteva dire “sono qui” basandosi su qualcosa di più di una semplice sensazione o di un’idea. Attraverso la scienza e l’esperienza, per gli esseri umani la navigazione diventò un mezzo efficace per fare scoperte ed ampliare orizzonti.[p. 49]

Ma come fare con la longitudine? («Distanza angolare di un luogo dal meridiano di Greenwich (Londra), gener. misurata in gradi tra 180° Est e 180° Ovest», Zingarelli 2024). Talmente pressante era il problema che il parlamento inglese, nel 1714, mise in palio un premio dell’equivalente odierno di dieci milioni di euro a chi avesse inventato un modo per sapere anche la longitudine di una nave nel mare.

Questa storia avventurosa è raccontata in un libro, Longitudine di Dava Sobel (Bur, 2017, euro 12), e venne risolta nel 1761 da John Harrison, un orologiaio autodidatta passato alla storia per avere inventato il cronometro marino che, unito al sestante (che sostituì l’astrolabio), alla bussola e alle tabelle delle effemeridi, consentiva con complicati calcoli di avere anche la longitudine, così da sapere in quale esatto punto dell’oceano la nave si trovava. Finalmente.

Poi venne l’abisso

Dopo secoli trascorsi a solcare i mari, fra i navigatori crebbe sempre di più un’altra esigenza: sapere cosa c’è sotto. Sapere quanto è profondo. I primi timidi tentativi avvennero lungo la costa, con la pertica:

Si riusciva così ad arrivare fino a qualche metro sotto la superficie, oltre il punto in cui l’occhio umano non vedeva più. Nemmeno la conoscenza si spingeva molto oltre. [p. 112]

Poi si adottò lo scandaglio a sagola (la sagola è una corda sottile) con un peso di piombo che arrivava sul fondo. Misurando la corda si riusciva a capire quanto era profondo quel punto di mare:

Il peso veniva lanciato con un movimento particolare, che ogni volta consentiva di misurare la sagola stendendo le braccia: per questo motivo in alcuni paesi la profondità marina è misurata in braccia. Un braccio corrisponde a tre cubiti, sei piedi, all’incirca centottanta centimetri. Per tradizione è anche la profondità delle fosse per la sepoltura. [p. 113]

Dopo migliaia di anni in questo modo, con variazioni e migliorie, ma comunque con grosse imprecisioni, si arriva all’ecoscandaglio, inventato dal tedesco Alexander Behm nel 1913. In uso ancora oggi, è uno strumento che utilizza la tecnologia dei sonar, ovvero la tecnica dell’impulso sonoro riflesso, o ecolocalizzazione, che la biologia animale conosce da milioni di anni (per esempio nei capodogli e nei pipistrelli).

Come racconta l’autore, prima dell’ecoscandaglio sulle carte nautiche si contavano quindicimila punti scandagliati che indicavano la profondità del mare. Se sembrano tanti, basti pensare che equivalgono a una misurazione di un singolo punto ogni quindicimila kilometri quadrati di mari! In realtà non sorprende, perché si stima che – oggi – circa l’80% dei mari sia inesplorato.

È questo un capitolo particolarmente riuscito del libro, perché racconta – come accennavamo all’inizio – l’esplorazione degli abissi, cioè degli ambienti più misteriosi che esistano sulla Terra, misteriosi perché assolutamente ostili alla vita umana. Dunque non solo luoghi fisici, anche filosofici. Ed è questo, forse, il cuore del libro:

L’uomo con lo scandaglio è l’uomo che cerca [p. 121], perché l’idea dell’ignoto è insopportabile. [p. 114]

L’uomo con lo scandaglio siamo tutti noi, perché tutti siamo alla ricerca della conoscenza. Tutti cerchiamo di sconfiggere le tenebre, o perlomeno di venirci a patti, nonostante i pericoli spesso mortali. Come eroi letterari in carne e ossa. E la scienza aiuta, nel suo essere «un approccio alla verità, non la verità stessa.» [p. 123]

Contraddicendo quanto detto in precedenza, anche nel mare troviamo allora riparo e sicurezza: il pesce ci nutre, e le correnti ci hanno portato in altri mondi. A volte siamo come pesci: il mare sembra essere il nostro elemento, nonostante tutto. È da lì che la vita proviene e a volte, come le balene, le tartarughe e i delfini, è lì che anche noi torniamo, abbandonando la terra.

Altri consigli di lettura:
  • Rachel Carson, Il mare intorno a noi (a lei e al suo libro Svensson dedica il capitolo finale; di un altro libro della Carson, invece, avevamo già scritto qui)
  • Morten Strøksnes, Il libro del mare, o come andare a pesca di uno squalo gigante con un piccolo gommone sul vasto mare (recensito qui)
  • Moby-Dick o il capodoglio” (Aula di Scienze)

Immagine in evidenza: Due palombari, uno con una tuta a 1 atmosfera e l’altro con un equipaggiamento standard, si preparano a esplorare il relitto della nave RMS Lusitania, 1935 (crediti: Wikimedia Commons)

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Un uomo pesca con la lancia in piedi su una canoa a bilanciere, Isole Gambier, Polinesia francese (immagine: Wikimedia Commons)

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La copertina del libro di Patrik Svensson, Iperborea

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Miniatura di due uomini con scandaglio tratta dal libro di Olao Magno Historia de gentibus septentrionalibus, 1555 (immagine: Wikimedia Commons)