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Marco Polo: viaggiatore, naturalista, divulgatore

Le avventure raccontate nel Milione rivelano la grande passione del mercante veneziano per la natura, gli animali e le popolazioni umane

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La Cina non è vicina, ed è ancora più lontana se consideriamo che mentre Gesù Cristo doveva ancora nascere, in Cina avevano già inventato la carta e la bussola magnetica, nonché gli spaghetti…

Successivamente, con un anticipo di vari secoli rispetto all’Occidente, in Cina avevano la stampa con caratteri mobili, la porcellana, la polvere da sparo, la carta igienica. Senza considerare l’allevamento, la lavorazione del baco da seta e un livello di ingegneria tale da consentire la costruzione della Grande Muraglia, lunga quasi 9.000 kilometri.

La Cina è lontana e lo era ancora di più nella seconda metà del XIII secolo: in quella che è oggi l’Europa, dal lontano Oriente giungevano leggende esotiche da parte di uno sparuto gruppo di missionari. Ma saranno i commerci – come spesso accade – a cambiare le cose.

Le molte avventure del Milione

Il primo viaggio significativo che contribuirà a far conoscere la Cina in Europa è raccontato in uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale: il Milione di Marco Polo, un "libro delle meraviglie" che rappresenta anche il primo libro di viaggio della letteratura italiana.

Il mercante patrizio veneziano Marco Polo (1254-1324) racconta il viaggio in Asia, che compie insieme a suo padre e suo zio, iniziato nel 1271 e terminato nel 1295. Un lunghissimo viaggio che lo porta fino in Cina (allora chiamata Catai), accolto con benevolenza alla corte del Gran Khan Qubilai (o Kubilai, 1215-1294).

Appena rientrato a Venezia – molto più ricco di prima – viene imprigionato dai genovesi per tre anni, dal 1296 al 1299, nelle carceri di San Giorgio a Genova. In questo periodo di detenzione detta le sue avventure al compagno di cella, l’autore di romanzi cortesi Rustichello da Pisa.

Il prodotto finale della reclusione, scritto da Rustichello in lingua franco-veneta, viene intitolato Le divisement dou monde (La descrizione del mondo), poi Milione. Non c’è accordo unanime sull’origine di questo titolo. Una delle più accreditate deriva dall’umanista Ramusio, che nel XVI secolo sostiene che Milione fosse il soprannome di Marco Polo e poi, per estensione, dei suoi famigliari:

nel continuo raccontare ch'egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l'entrata di quello essere da 10 in 15 milioni d'oro, e così di molte altre ricchezze di quei paesi riferiva tutto a milioni, lo cognominarono "messer Marco Milioni".

Questo libro affonda le radici nella tradizione letteraria – iniziata verso il XII secolo – del viaggio allegorico-didattico, ma è qualcosa di completamente diverso rispetto a tutto ciò che si era scritto fino a quel momento. È un libro anticipatore, “multistrato”, nel senso che è ibrido e con molteplici livelli di lettura e di destinatari ideali.

Per esempio: c’è l’avventura di Marco Polo e dei suoi compagni di viaggio dettata a voce nelle prigioni genovesi a Rustichello da Pisa che, molto probabilmente, si prende qualche libertà sulla fonte diretta orale.

Inoltre abbiamo l’avventura del manoscritto: l’originale è oggi perduto per sempre, ma viene tradotto in molte lingue con molti rimaneggiamenti, errori, mancanze e aggiunte, da cui segue l’avventura degli studiosi a caccia dei manoscritti vicini all’originale, in modo da poterne dare alle stampe una versione il più possibile corretta.

C’è poi l’avventura dei fatti narrati: un viaggio durato 24 anni, spesso in luoghi mai toccati da alcun viaggiatore occidentale. Molte migliaia di kilometri percorsi e un catalogo impressionante di luoghi, eventi, persone, usi e costumi di popoli sconosciuti. Come se noi, oggi, leggessimo il racconto di un ambasciatore terrestre che trascorre anni ospite di una civiltà aliena appena scoperta in un pianeta vicino al nostro di cui non si era sicuri che esistesse davvero.

L’avventura del racconto e della redazione dell’opera fa i conti con un approccio incredibilmente moderno, ed ecco perché abbiamo definito l’opera ibrida e con più livelli di lettura. Il Milione infatti è un libro che ha una natura:

  • enciclopedica: vuole descrivere il mondo, ancor più nei suoi aspetti meno conosciuti;
  • mercantile/merceologica: sottolinea l’utile e le ricchezze, tralasciando le regioni già note ai commercianti;
  • geografica: città e regioni sono descritte con cura in tutti i loro elementi fisici;
  • antropologica/etnografica: descrive gli usi e costumi dei popoli, con una particolare attenzione al “notevole” e all’insolito;
  • di viaggio: come fosse una moderna guida di viaggio Lonely Planet o Touring/Routard, l’itinerario del percorso è suddiviso in tappe ed è esposto tenendo conto delle esigenze dei viaggiatori e delle giornate di cammino necessarie, con indicazioni addirittura su dove trovare acqua potabile;
  • romanzesca: avventure esotiche e incredibili che possono essere lette come tali dall’elite del tempo per il semplice gusto di farlo.

Dal nostro punto di vista, è interessantissimo notare come nel racconto si alternino una vera e propria opera di debunking scientifico, cioè di smascheramento di falsi miti e false credenze, all’accettazione acritica di leggende che ai nostri occhi, oggi, appaiono ingenue. Come abbiamo visto facendo la conoscenza di Ulisse Aldrovandi, prima del metodo scientifico era frequente che la ricerca delle leggi naturali che governano il mondo si popolasse anche di mostri.

Marco Polo non fa eccezione: Milione «sovrappone all’immagine mitizzata e fantastica dell’Oriente elaborata dalla cultura medievale, un ampio, vivace, e per lo più “realistico” quadro storico-geografico.» (Lucia Battaglia Ricci, voce Milione, in Dizionario delle opere della letteratura italiana, Einaudi 2006).

Prima di procedere segnaliamo che per la stesura di questo articolo – e per le citazioni– abbiamo adottato la versione trecentesca toscana, detta l’Ottimo, pubblicata da Adelphi, edizione critica che contiene, peraltro, un utilissimo indice ragionato.

Per le scuole secondarie di primo grado si può anche utilizzare un’edizione riscritta in italiano moderno, a scelta tra quella di Giorgio Trombetta-Panigadi (TEA) e quella di Maria Bellonci (Mondadori).

Poiché faremo fede all’edizione Adelphi, le citazioni avranno sia il numero di capitolo sia il titolo del capitolo, visto che nelle altre edizioni la numerazione dei capitoli subisce delle modifiche.

Un Milione di fantasmi che cantano

I mostri, dicevamo… Un esempio è questo passaggio ambientato nel Deserto di Lop, situato nel nord-ovest della Cina, completamente privo di vita («non v’ha né uccelli né bestie, perché non v’anno da mangiare»):

quando l’uomo cavalca di notte per quel diserto, e gli aviene questo: che sse alcuno remante adrieto da li compagni, per dormire o per altro, quando vuole pui andare per giugnere li compagni, ode parlare spiriti in aire che somigliano che siano suoi compagnoni. E più volte è chiamato per lo suo nome propio, ed è fatto disviare talvolta in tal modo che mai non si ritruova; e molti ne sono già perduti. E molte volte ode l’uomo molti istormenti in aria e propriamente tamburi. E così si passa questo grande diserto. [Di Lop, cap. 56, 9-12]

Echi misteriosi nelle notti trascorse nel deserto, dove il viaggiatore può udire (oltre che gli spiriti) strumenti e tamburi suonare. Come può essere, se non c’è vita? Per capirlo sono dovuti passare secoli per chiarire l’affascinante fenomeno delle “singing sand”, le sabbie che cantano: una somma di condizioni particolari che permettono ciò che possiamo vedere e soprattutto udire in questo video:

In tutto il mondo sono stati contati una quarantina di luoghi con dune idonee dove è possibile sentire la sabbia cantare. Perché ciò accada i granelli di sabbia devono essere rotondi e delle stesse dimensioni, prevalentemente composti da minerali duri come il quarzo o la silice, e devono avere il giusto grado di umidità, come detto in questa voce Wikipedia e come raccontato in questo video, datato ma estremamente chiaro e ben fatto:

Tecniche di sopravvivenza per viaggiatori astuti

Milione ha molti riferimenti precisi e interessanti per gli europei a usi e costumi di popoli di cui si sapeva poco o nulla.

Per esempio: come facevano i Tartari a sopravvivere nel deserto per giorni?

E sì vi dico che quando egli è bisogno, eglino cavalcano bene 10 giornate senza vivanda di fuoco, ma vivono del sangue delli loro cavagli, ché ciascheuno pone la bocca a la vena del suo cavallo e bee. [Del Dio de’ Tartari, cap. 69, 20]

In questo modo, senza uccidere il proprio prezioso cavallo, risolvevano il problema della mancanza di un pasto caldo che nutrisse e idratasse con una piccola ferita.

Idratarsi in viaggio è una delle preoccupazioni più importanti. Quando nel reame persiano di Creman, l’attuale Kerman in Iran, Marco Polo si trova nel deserto in direzione Kuhbonan, come in una guida di viaggio contemporanea dà un consiglio molto pratico e utile per il benessere del viaggiatore: non bere l’acqua «verde come l’erba, salsa e amara; e chi ne bevesse pure una gocciola, lo farebbe andare bene dieci volte a sella» [Come si cavalca per lo diserto, cap. 37], ovvero gli farebbe venire la dissenteria. Rischiando seriamente di ucciderlo, come ancora oggi avviene, purtroppo, con circa 800.000 decessi ogni anno.

E ancora: come facevano i viandanti a proteggersi dagli animali selvatici attirati dall’odore di cibo degli accampamenti?

Bambù esplosivo

Questa volta siamo in Tibet, e anche se i Polo non ci andarono mai, è una testimonianza di seconda mano su una particolare usanza da considerarsi attendibile.

Quivi ae canne grosse bene 4 spanne, lunghe bene 15 passi, e ae dall’uno nodo a l’altro bene 3 palmi. E ssì vi dico che gli mercatanti e’ viandanti prendono di quelle canne la notte, e fanno ardere nel fuoco, perché fanno sì grande scoppiata, che tutti li leoni e orsi e altre bestie fiere anno paura e fuggono, e non s’acostarebbero al fuoco per cosa al mondo. E questo si fa per paura di quelle bestie, che ve n’à assai.
Le canne scoppiano perché si mettono verdi nel fuoco, e quelle si torcono e fendono per mezzo; e per questo fendere fanno tanto romore che s’odono da la lunga bene presso a 5 miglie [nell’edizione francese 10 miglie, NdR], di notte, e più: e ssì è terribile cosa a udire, che chi non fosse d’udirlo usato; ogni uomo n’avrebbe grande paura. [De la provincia di Tebet, Cap. 114, 2-8]

Non solo gli uomini, anche i cavalli, che vengono addestrati a non avere paura quando sentono questi scoppi, e se non sono abituati vengono loro bloccate le zampe, turate le orecchie e bendati gli occhi.

Da notare che con “leoni” qui Polo si riferisce molto probabilmente al leopardo delle nevi (Panthera uncia), uno degli animali più elusivi che esistano di cui abbiamo già scritto, e con “orsi” si riferisce invece all’orso nero dal collare (Ursus thibetanus), effettivamente più aggressivo nei confronti dell’uomo rispetto ad altre specie di orsi. Quindi, mentre nel primo caso si tratta di una paura atavica e simbolica, nel secondo caso è motivata da reali attacchi anche mortali (ancora oggi).

Il punto di questo brano però è l’uso delle canne di bambù come fossero petardi. Il motivo di tali esplosioni ce lo spiega la botanica unita alla fisica.

Con la parola bambù intendiamo poco meno di 10.000 specie di graminacee sempreverdi appartenenti alla tribù delle Bambuseae, a loro volta parte della sottofamiglia Bambusoideae. Qui non è facile stabilire esattamente la specie di bambù a cui si riferisce Polo: alcune possono crescere anche 50 centimetri al giorno, fino a raggiungere altezze di 40 metri con una diametro del fusto di 30 centimetri! Magari si tratta di Phyllostachys edulis, detto Moso, una delle piante erbacee più coltivate al mondo sia per usi alimentari sia edilizi, a causa dell’incredibile resistenza delle sue fibre.

Tutte le specie di bambù sono accomunate dal fatto che sono piante molto resistenti, versatili, a rapido accrescimento (un ettaro coltivato a bambù produce fino a 25 volte più legno rispetto a un ettaro di alberi) e che non hanno anelli di accrescimento.

Il bambù è un’erba legnosa priva di corteccia: è suddivisa in rizoma (le radici), culmo (il fusto, detto canna) e rami provvisti di foglie. Il culmo è suddiviso in nodi, fra i quali ci sono gli internodi, che all'interno sono come camere d’aria pressoché stagne, separate fra loro dalle pareti dei nodi, dette diaframmi.

La fisica insegna che, a volume costante, quando la temperatura di un gas aumenta, aumenta anche la sua pressione, in accordo con l’equazione di stato dei gas perfetti, nota anche come legge dei gas perfetti (unita alla sua estensione, la legge di van der Waals).

Come sostiene questo studio, il gas all’interno dei culmi è perlopiù anidride carbonica che viene immagazzinata dalla pianta – forse come riserva – a “pressione positiva”, cioè con una pressione maggiore rispetto a quella atmosferica. Quando il bambù viene bruciato, la pressione dell’anidride carbonica nei culmi aumenta ulteriormente, fino a provocare l’improvvisa rottura della resistentissima parete della canna di bambù. Di qui il rumore dello scoppio.

Come si vede bene in questo video amatoriale, poste sul fuoco le canne di bambù producono assordanti scoppi, talmente forti che è necessario turare le orecchie dei cavalli affinché questi, arrivando a rompere le cavezze per il terrore, non fuggano per la paura, lasciando gli uomini soli in balia della natura matrigna …

Pietre di fuoco

Egli è vero che per tutta la provincia del Catai àe una manera di pietre nere, che ssi cavano de le montagne come vena, che ardono come bucce, e tegnono più lo fuoco che nno fanno la legna. E mettendole la sera nel fuoco, se elle s’aprendono bene, tutta notte mantegnono lo fuoco. E per tutta la contrada del Catai no aedono altro; bene ànno legne, ma queste pietre costan meno, e sono grande risparmio di legna. [De le pietre ch’ardono, cap. 101]

Le «pietre ch’ardono» sono il carbon fossile, più semplicemente detto carbone. Se può sembrare di scarso interesse, consideriamo questo: il carbon fossile, come racconta il suo nome, è legno fossilizzato, cioè una roccia sedimentaria di origine biologica che risale a circa 350-320 milioni di anni fa, nel periodo non a caso chiamato Carbonifero (era del Paleozoico).

Nel periodo del Carbonifero vediamo sulla Terra l’esplosione della vita vegetale, con immense foreste di piante a loro volta enormi, in linea con il gigantismo che riguardava anche le specie animali, che si teorizza dipendesse dall’alta quantità di ossigeno nell’aria (35% a fronte del 21% attuale).

Con i profondi mutamenti tettonici e ambientali che seguirono, questa incredibile quantità di materiale vegetale viene ricoperta dal fango delle paludi e inizia una lentissima decomposizione anaerobica (senza ossigeno): pressione, calore e tempo trasformano i vegetali in carbon fossile.

Il brano di Polo sottolinea il potere di queste pietre di mantenere il fuoco e riscaldare per tutta la notte. Lecito supporre si tratti di antracite, che risale a circa 400 milioni di anni fa. Essendo il carbone più antico, l’antracite è anche il carbone con il più alto contenuto di carbonio (90%) e quindi il più calorifico ed efficiente (se una buona legna da ardere - come la quercia - ha un potere calorifico di circa 4.600 kcal/kg, i vari tipi di carbon fossile superano le 8.000 kcal/kg).

Il carbon fossile non va confuso con il carbone di legna (detto anche carbone vegetale o carbonella) che veniva prodotto nelle nostre zone rurali (spesso in montagna) fino a pochi decenni fa e in misura minore ancora oggi per gli amanti delle grigliate.

Per produrla, un tempo si costruiva la carbonaia accatastando tronchi e rami in un grande cumulo ordinato, che poi veniva ricoperta di foglie secche e terra umida. La cupola aveva dei fori, delle prese d’aria in punti strategici: ciò era necessario per avere una combustione molto lenta (la legna doveva diventare carbone, non cenere!), e per far questo la quantità di ossigeno (il comburente) doveva essere minima, come racconta a suo modo anche Carlo Cassola nel romanzo breve Il taglio del bosco.

Polo dice che le pietre che ardono «sono grande risparmio di legna». In queste cinque semplici parole si nasconde il dramma plurisecolare della deforestazione attuata per sopperire ai voraci fabbisogni umani.

Tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII cambiano le esigenze delle potenze in Europa e si intensifica l’uso della legna per la costruzione di flotte navali, infrastrutture, produzione di carbone di legna. Poiché gli alberi non sono infiniti e per crescere hanno bisogno di decenni, nel territorio europeo si ha la sempre più impellente necessità di trovare un’alternativa, per potersi anche riscaldare: l’uso della legna non può più essere l’unica via percorribile.

Il problema viene risolto con la scoperta e lo sfruttamento di giacimenti di carbon fossile. Disponibile in quantità davvero enorme e con un punto calorifico quasi doppio rispetto a quello della legna, il carbone ha contribuito in modo decisivo alla nascita della Rivoluzione industriale, che si è nutrita di forza lavoro a basso costo, ferro da fondere e della macchina a vapore di James Watt, brevettata nel 1769 e responsabile fra le altre cose della nascita del treno, nato nel 1804 proprio per trasportare fuori dalle miniere il carbon fossile… Circa 500 anni dopo che Marco Polo ne scrive nel Milione, e chissà quanti secoli dopo che in Cina lo utilizzavano per scaldarsi, così da risparmiare le foreste.

Per chi volesse mettersi le mani nei capelli, basti dire che ancora oggi bruciando il carbon fossile, estremamente inquinante, si produce circa il 25-28% dell’energia elettrica mondiale. Per chi invece volesse approfondire, consiglio il libro Energia per l’astronave Terra di Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli (Zanichelli).

Gran Khan gran amante degli alberi

A proposito di risparmiare le foreste: Polo racconta di una delle molte passioni naturalistiche del condottiero mongolo: quella per gli alberi. Tanto da ordinare di “costruire” una collina alta cento passi:

lo quale monte è pieno tutto d’àlbori che per niuno tempo non perdono foglie, ma sempre sono verdi. E sappiate, quando è detto al Grande Kane d’uno bello àlbore, egli lo fa pigliare con tutte le barbe [le radici, Ndr] e co molta terra e fallo piantare in quello monte; e ssia grande quanto vuole, ch’egli lo fa portare a’ lieofanti. [Del palagio del Grande Kane, cap. 83, 17-18]

Ma il Gran Khan non si limita al collezionismo, utilizzando – molto prima che la relatività di Einstein consentisse l’uso dei navigatori satellitari – gli alberi come “segnavia”, ovvero come strumenti visivi per indicare ai viaggiatori la strada da seguire:

Or sappiate per vero che ‘l Grande Sire à ordinato per tutte le mastre vie che sono nelli suoi regni, che vi siano piantati gli àlbori lungi l’uno dall’altro, su per la ripa della via, due passi. E questo [a]cciò che li mercatanti e’ messaggi o altra gente no possa fallare la via, quando vanno per cammino o per luoghi diserti; e questi àlbori sono tamanti [tanto grandi, NdR], che bene si possono vedere da la lunga. [Degli àlbori, cap. 99]

Con un salto avanti nel tempo, segnaliamo che la stessa strategia viene adottata anche dal collega Napoleone Bonaparte (1769-1821), evidentemente estimatore di Qubilai e avido lettore del Milione:

La diffusione sorprendentemente veloce del pioppo cipressino in buona parte dell’Europa viene messa in relazione con Napoleone Bonaparte. È noto che Napoleone faceva piantare questi alberi a crescita rapida ai bordi delle polverose strade di campagna lungo le quali i suoi eserciti marciavano da un teatro di guerra all’altro, poiché costituivano punti di riferimento visibili a grande distanza, vuoi in estate vuoi nella neve. [Rudi Palla, Ai piedi degli alberi, p. 134]

Animali fantastici e dove trovarli

Nel lungo viaggio raccontato nel Milione, Polo si premura di smentire alcune leggende al tempo date per vere; cosa non scontata, considerando che alla fine del Cinquecento il fondatore delle scienze naturali Ulisse Aldrovandi (1522-1605) credeva all’esistenza dei draghi, e che nel Settecento uno dei più grandi scienziati della storia, Isaac Newton (1643-1727), scrisse molte più pagine di alchimia che non di scienza.

Anche Polo prende qualche abbaglio, come nel caso dell’alligatore cinese (Alligator sinensis), detto anche drago di fango (da cui probabilmente l’iconografia cinese del drago), descritto nel capitolo 118 (Ancora divisa de la provincia di Caragian) con una certa precisione, ma scambiato per un serpente (colubre, dal latino: serpente).

Caso simile riguarda gli “unicorni” dell’isola di Giava:

Elli ànno leofanti assai selvatichi e unicorni, che no son guari minori d’elefanti: e’ son di pelo bufali, i piedi come lefanti; nel mezzo de la fronte ànno un corno grosso e nero. E dicovi che no fanno male co quel corno, ma co la lingua, che l’ànno spinosa tutta quanta di spine molto grandi; lo capo ànno come di cinghiarro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra: sta molto volentieri tra li buoi. Ell’è molto laida bestia (a vedere), né non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere a la pulcella, ma è ‘l contradio. [Della piccola isola di Iava, cap. 162, 14-17]

In mancanza della parola “rinoceronte” (che compare verso la fine del XV secolo e che dal greco significa “animale con un corno per/sul naso”), Polo usa un termine associato a una creatura fantastica per descrivere piuttosto fedelmente il rinoceronte di Giava (Rhinoceros sondaicus), oggi presente in natura in soli 76 esemplari.

Non hanno la lingua spinosa, ma mostrano una predilezione per il fango («tra li buoi»), proprio come altri animali che vogliono rinfrescarsi e proteggersi dai parassiti, per esempio i «leofanti» e i «cinghiarri». Solo i maschi hanno il «corno grosso e nero», che è anche la principale causa – insieme alla perdita di habitat – del fatto che la specie è in pericolo critico di estinzione.

Dopo la divulgazione scientifica, una nota da perfetto debunker: non è vero – come dice la leggenda – che una vergine può avvicinarsi a lui… anzi, meglio mantenere la distanza di sicurezza…

Poche righe dopo, Polo sfata anche il mito dei «piccoli uomini d’India», sostenendo che non esistono uomini così piccoli e che quelli che si vedono nei mercati sono una beffa e una menzogna, poiché sono semplicemente scimmie disseccate e conciate in modo da sembrare esseri umani molto piccoli. "Cose da turisti", diremmo oggi...

Sembrano esseri umani anche gli oranghi di Sumatra (Pongo abelii), una delle tre specie di orangutan talmente simili a noi da condividere la stessa famiglia tassonomica (siamo ominidi, insieme a scimpanzé, bonobo e gorilla, cioè le scimmie antropomorfe) e da trarre in inganno Polo, che li descrive come «uomini ch’ànno coda grande più di un palmo, e sono la maggior parte, e dimorano ne le montagne di lungi da la città; le code son grosse come di cane» [De rreame di Lambri, cap. 165, 4-5].

Non sorprende, visto che in malese «orang-hutan» significa proprio “persona/uomo della foresta”. Umani e scimmie antropomorfe condividono una caratteristica comune: non hanno la coda. Un errore di Polo, forse tratto in inganno dalla folta pelliccia o dai lunghi arti di queste pacifiche persone di foresta, anch’esse minacciate in modo tragico dalla crescente perdita di habitat.

Coi suoi occhi, nelle montagne forse del Kazakistan, Polo vede la salamandra, che la leggenda degli antichi vuole resista al fuoco senza bruciare, talmente fredda da essere addirittura in grado di spegnere le fiamme. Così si esprime Polo:

Quivi àe montagne ove à buone vene d’acciaio e d’andanico [acciaio indiano, NdR]; e in queste montagne è un’altra vena, onde si fa la salamandra. La salamandra nonn-è bestia, come si dice, che vive nel fuoco, ché neuno animale puote vivere nel fuoco [Chingitalas, cap. 59, 4-5]

Nessun animale può vivere nel fuoco, ma quel gruppo di minerali fibrosi che prendono il nome di amianto resistono al calore delle fiamme, ed è proprio a loro che Polo rivolge le sue attenzioni di divulgatore scientifico. Descrive allora come le fibre dell’amianto vengono trattate e lavorate fino a farne tovaglie che, poste sul fuoco, diventano «bianche come neve. E queste sono salamandre, e l’altre sono favole.»

Polo non poteva sapere che l’amianto, detto anche asbesto, per la semplice inalazione delle fibre è responsabile di quella malattia polmonare cronica detta asbestosi e che è fortemente cancerogeno, motivo per cui l’uso delle fibre di amianto in edilizia è vietato in Italia dal 1992, e così in gran parte del mondo.

Ancora oggi, però, si calcola che siano 230.000 i morti nel mondo per malattie legate all’amianto. Sia perché alcuni Paesi continuano a produrlo e utilizzarlo (il principale è la Cina, seguito da Russia, India, Kazakistan, Brasile, Indonesia, Tailandia, Vietnam e Ucraina), sia perché c’è ancora molto materiale edile contenente amianto da smaltire nei Paesi in cui è stato vietato.

Come si sarà capito, l’attenzione al mondo naturale è costante e, per molti versi, ricorda quella di Dante Alighieri nella Divina Commedia. Anche Marco Polo sembra appassionato di uccelli, li descrive con grande interesse, in particolare – come Dante – i falchi da caccia (da uccellagione), in linea con la diffusa pratica medievale della falconeria. Per esempio cita o racconta il falco sacro (Falco cherrug), il lanario (Falco biarmicus, chiamato da Polo laniere), il falco pellegrino (Falco peregrinus) oppure i preferiti dal Gran Khan, i girfalchi (Falco rusticolus).

Di molti degli animali che lo colpiscono Polo descrive areale, alimentazione, abitudini, capacità predatorie, rapporti con gli esseri umani. Per esempio, nella città mongola di Giandu, oggi nota come Xanadu, il Gran Khan allevava:

cerbi, dani e cavriuoli, per dare mangiare a’ gerfalchi e a’ falconi chìegli tiene i muda: in quello lugo egli v’à bene 200 gerfalchi. Egli medesimo vuole andare bene una volta ogni settimana a vedere. E più volte quando’l Grande Kane vae per questo prato murato, porta uno leopardo in sulla groppa del cavallo; e quando egli vuole fare pigliare alcuna di queste bestie, lascia andare lo leopardo, e leopardo la piglia e falla dare agli suoi gerfalchi ch’egli tiene i muda; e questo fa per suo diletto. [De la città di Gandu, cap. 74]

Forse una passione, quella per gli uccelli, che aveva unito il Gran Kane e Marco Polo, evidentemente entrambi appassionati birdwatcher ante litteram. Polo lo dimostra nel capitolo dedicato al Madagascar, dove riporta i racconti fantasiosi di mercanti su un rapace particolare: «Quelli di quella isola sì cchiamano quello uccello ruc, ma per la grandezza sua noi crediamo che sia grifone.» [Dell’isola di Madagascar, cap. 186, 21].

È un caso interessante perché qui Polo fa riferimento al roc, o ruc, uccello mitologico di derivazione araba, presente anche ne Le mille e una notte, di dimensioni tali da poter sollevare e predare un elefante. Così lo descrive:

non sono così fatti come di dice di qua, cioè mezzo uccello e mezzo lione, ma sono fatti come aguglie [aquile, NdR], e sono grandi com’io vi dirò. Egli pigliano l’alifante e portallo su in aire, e poscia i lasciano cadere, e quelli si disfa tutto; poscia si pasce sopra lui. Ancora dicono quelli che l’ànno veduti, che l’alie sue sono sì grandi che cuoprono 20 passi, e le penne sono lunghe 7 passi, e sono grosse come si conviene a quella lunghezza. [Dell’isola di Madagascar, cap. 186, 14-16].

Venti passi di apertura alare, cioè circa 12 metri. Il mito, condito con un po’ di creduloneria, incontra nell’appassionato ornitologo Marco Polo la descrizione di una specie realmente esistita e, cosa ancora più notevole, l’etologia di un comportamento che esiste davvero. La specie è nota con il nome del genere, che comprende 4 specie note: Aepyornis, detti anche uccelli elefante.

Gli uccelli elefante vivevano nell’isola del Madagascar e si pensa che si siano estinti tra 1000 e 500 anni fa, dando vita (o confermando) al mito di roc (il tempismo della loro estinzione è quindi in linea con possibili testimonianze dirette vicine al tempo di Polo). Erano alti tre metri, pesavano quasi mezza tonnellata, facevano uova lunghe più di 30 centimetri con una capienza di 8 litri di volume, ma… come gli struzzi e gli emù non potevano volare.

Lo stesso Polo li chiama grifoni ed è un buon indizio, perché Aepyornis era inetto al volo e quindi non era in grado di portare nessuno in aria, figuriamoci un elefante.

Volano eccome, però, i grifoni, specie di avvoltoi che esistono sia nella realtà che nella mitologia. Soffermandoci sulla realtà, il gipeto (Gypaetus barbatus) è un avvoltoio che si comporta proprio come descritto da Polo. Non lancia elefanti, ma ossa di carcasse, che raccoglie dal terreno, porta in volo abbastanza in alto e poi, con precisione balistica, lascia cadere su massi scelti con cura. Un comportamento piuttosto avanzato e specializzato per poter ingerire anche le ossa più voluminose, come si vede in questo breve video:

Gli avvoltoi sono anche attori protagonisti nella cosiddetta sepoltura celeste: «un antico rito funerario tibetano, ancora oggi largamente praticato. Il rito prevede che il corpo del defunto venga scuoiato, smembrato con un’ascia ed esposto agli avvoltoi per cibarsene. In Tibet la pratica è nota comejhator, che vuol dire fare l'elemosina agli uccelli» [Wikipedia]

Polo nel suo libro-mondo non ne parla, ma dedica varie pagine al culto dei morti dei popoli che incontra, necrofagia compresa. Lo fa senza esprimere giudizi morali, come farebbe un moderno ricercatore (vedi De la città di Giandu cap. 74, 21, e De rreame di Dragouain, cap. 164, 4-8).

Così come non esprime giudizi quando descrive questa usanza cinese:

E quando alcuna donna à fatto il fanciullo, lo marito stae ne letto 40 die, e lava ‘l fanciullo e governalo. E ciò fanno perché dicono che la donna à durato molto afanno del fanciullo a portallo, e così vogliono che si riposi. E tutti gli amici vegnono a costui al letto, e fanno grande festa insieme. [De la provincia d’Ardandan, cap. 119, 5-7]

Ed è così che termina questa nostra incursione fra le pagine del primo libro di viaggio della nostra letteratura. Tante cose bizzarre, animali, piante, usi e costumi di popoli misteriosi e scomparsi sono rimasti fuori da queste righe. Chi vuole può proseguire il gioco cercandoli nel testo del Milione.

Non solo: sarebbe interessante accompagnare alla lettura del Milione – libro che racconta agli occidentali il misterioso Oriente antico – la lettura de Le città invisibili di Italo Calvino, romanzo breve che vede il genio di Calvino immaginare Marco Polo raccontare le città dell’Occidente al Gran Khan Qubilai, durante il lunghissimo soggiorno alla sua corte. Uno dei libri preferiti da molti architetti, con una struttura interna perfettamente geometrica, che finisce così:

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già quui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»

Marco Polo scelse la seconda: decise, come tutti gli eroi, di intraprendere un lungo e pericoloso viaggio. Talmente significativo e avventuroso da essere degno di essere raccontato nel suo libro delle meraviglie.

Bibliografia consultata per la stesura di questo articolo
  • Marco Polo, Milione, Adelphi 1982 e segg., versione toscana del Trecento detta dell’Ottimo (1309), edizione critica a cura di Valeria Bertolucci Pizzorusso
  • Marco Polo, Il Milione, TEA 2002, versione in italiano moderno di Giorgio Trombetta-Panigadi
  • Lucia Battaglia Ricci, «Milione» di Marco Polo, in Letteratura italiana. Le Opere, Einaudi 1992, pp. 85-105
  • Lucia Battaglia Ricci, voce Il Milione, in Dizionario delle opere della letteratura italiana, Einaudi 2006
  • Valeria Bertolucci Pizzorusso, Enunciazione e produzione del testo nel Milione, in Morfologia del testo medievale, Il Mulino 1989, pp. 209-241
  • Italo Calvino, Le città invisibili, in Romanzi e Racconti 2°, Meridiani Mondadori
  • Carlo Cassola, Il taglio del bosco, BUR, 2007
  • Laura Minervini, La letteratura di viaggio, in La letteratura romanza medievale, Il Mulino 1994, pp. 297-308
  • Rudi Palla, Ai piedi degli alberi: viaggio tra i giganti della Terra, Ponte alle Grazie, 2008.
  • Frank Ross Jr., Scienza e tecnologia della Cina antica, Armando editore 1984
  • J. Zachariah, B. Sabulal et al., «Carbon dioxide emission from bamboo culms»
Grazie al professor Renato Bruni per la consulenza relativa al bambù.
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Il lungo viaggio di Marco Polo (immagine: Wikipedia)

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Disegno in sezione di una carbonaia (immagine: Wikipedia)

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Mercanti rompono un uovo di roc, Le Magasin pitoresque, Parigi, 1865 (immagine: Wikipedia)

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Esemplare di girfalco (immagine: Pixabay)

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Fibre bianche di asbesto su muscovite (immagine: Wikipedia)

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Un esemplare di orangutan (immagine: Wikipedia)

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Miniera a cielo aperto di carbon fossile (immagine: Pixabay)

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Disegno schematico con le parti di una pianta di bamboo

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Le sezioni del tronco di bamboo (immagine: Wikipedia)

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La copertina del Milione nell’edizione Adelphi