In sogno
dipingo come Vermeer.Parlo correntemente il greco
e non soltanto con i vivi.Guido l’automobile,
che mi obbedisce.Ho talento,
scrivo grandi poemi.Odo voci
non peggio di autorevoli santi.Sareste sbalorditi
dal mio virtuosismo al pianoforte.Volo come si deve,
ossia da sola.[…]
Wisława Szymborska, Elogio dei sogni (1972, in La gioia di scrivere, Adelphi)
Se ripercorriamo la storia della scienza adottando un punto di vista di genere, per esempio quello femminile, ci accorgiamo che è una storia fatta di solitudini, come involontariamente suggerito dalla poetessa polacca premio Nobel Wisława Szymborska (1923-2012).
Può essere vero anche in altri ambiti, certo (pittura, scultura, architettura, cinema…), ma nella scienza le cose sembrano essere da tempo sfuggite di mano.
Il nuovo numero della rivista semestrale La Ricerca (Loescher editore) si interroga sui motivi che vedono le materie STEM (acronimo delle parole inglesi Science, Technology, Engineering, Mathematics, ovvero scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) così poco praticate dalle donne, e si chiede cosa fare per raggiungere una parità di genere anche in questo cruciale ambito.
Dalla lettura risulta che, benché le cose stiano lentamente migliorando e siano molto migliorate negli ultimi decenni, la strada da percorrere è ancora lunghissima. Basta dare uno sguardo a questi due grafici, presi dal report del MIUR “Le carriere femminili in ambito accademico” (Marzo 2021).
Il primo grafico ci suggerisce che l’università, come tutti gli altri centri di potere, è l’ennesimo feudo maschile.
Il secondo grafico invece ci mostra come, nel 2022, siamo ancora vittime degli stereotipi di genere.
Come riporta Elena Bacchilega a pagina 15 del numero 21 de La Ricerca:
Secondo il report, «i dati evidenziano la permanenza di stereotipi culturali che inducono donne e uomini a scegliere percorsi tradizionali rispetto al genere». Per ridurre il divario, quindi, bisogna agire sugli stereotipi. È provato che la componente ambientale, ovvero l’influenza di genitori, educatori, amici e media, gioca un ruolo determinante nel modellare gli stereotipi, che si formano nell’infanzia e si consolidano durante l’adolescenza.
Poiché i libri possono essere, fra le altre cose, anche ottimi vaccini contro i molti virus di quelle patologie sociali e culturali che prendono il nome di stereotipi, vediamone un paio insieme per distruggere muri che non dovrebbero esistere.
Ragazze con i numeri
Un ottimo punto di partenza, di facile lettura e adatto anche per le scuole secondarie di primo grado, è il libro Ragazze con i numeri. Storie, passioni e sogni di 15 scienziate scritto dalle giornaliste Vichi De Marchi e Roberta Fulci (Editoriale Scienza, 2018, 205 pp., euro 18,90; illustrazioni di Giulia Sagramola).
Il libro è composto da 15 capitoli, ognuno dei quali è dedicato a una scienziata che in prima persona, in una documentata finzione narrativa e in una decina di pagine, racconta se stessa e i momenti cruciali della propria vita. Alla fine di ogni racconto una pagina riassume per punti chiari e semplici i fatti che rendono importante la scienziata protagonista.
La scelta operata dalle autrici è interessante, perché alle grandi star come Rita Levi Montalcini o Jane Goodall (mancano le icone già note come Margherita Hack e Marie Curie) sono affiancate le storie di scienziate sconosciute ai più, ma non meno interessanti e significative, anzi.
Scopriamo così la kenyota Wangara Maathai (1940-2011), fondatrice del Green Belt Movement, Nobel per la pace che si oppose alla corruzione in Kenya piantando alberi (ad oggi, più di 50 milioni).
Scopriamo la vulcanologa francese Katia Krafft (1942-1991), “la fidanzata del fuoco e dei vulcani”, che studiò, riprese e fotografò decine di vulcani in piena eruzione, salvò la vita a centinaia di persone e morì con il marito Maurice Krafft e altre 41 persone investita da una colata piroclastica del monte Unzen (Giappone). La coppia è presente anche nel documentario Dentro l’inferno di Werner Herzog (Netflix, 2016).
Scopriamo la toccante storia della matematica iraniana Maryan Mirzakhani (1977-2017), professoressa alla Stanford University (USA) già a 31 anni, l’unica donna ad aver mai vinto la medaglia Fields (a proposito di feudi), il cosiddetto “Nobel per la matematica”, morta prematuramente ad appena 40 anni per un tumore al seno.
Avevo grandi progetti. Se confidi che la soluzione esista, e deve solo essere trovata, è molto più facile dimostrare un teorema. Questo modo di pensare mi ha sempre premiato: la mia tesi di dottorato, nel 2004, conteneva già tre risultati importanti. In realtà io non credo di essere più brava di tanti altri, ma la fiducia è importante in matematica. Se pensi che non ce la farai, la tua mente non lavora bene; non ci prova nemmeno. [p. 109]
Fra le 15 c’è anche Rosalind Franklin (1920-1958), la scienziata che per prima riuscì a fotografare l’elica del DNA, fornendo la prova cruciale della sua esistenza. La sua però è anche una storia di grave ingiustizia e misoginia.
Ancora negli Sessanta, con la scienziata deceduta prematuramente a soli 37 anni per l’eccessiva esposizione ai raggi X (in questo ricorda tristemente Marie Curie con il radio), James Watson e Francis Crick, premi Nobel per la scoperta del DNA, pensarono bene di non riconoscere pubblicamente i meriti della Franklin, e addirittura di screditarne il contributo. La foto (una delle più famose dell’intera storia della scienza) le fu letteralmente strappata di mano da Watson, poiché confermava l’intuizione che aveva avuto con il suo socio.
Non ritrattarono mai la loro opinione sulla Franklin, anzi… Come disse una volta Watson, «[Rosalind Franklin] non sarebbe neanche male, se solo cambiasse modo di vestire».
Il libro Ragazze con i numeri, facendo parlare direttamente Rosalind Franklin, cerca di ristabilire un po’ di giustizia:
Ho lavorato giorno e notte per anni. Che cosa ho in cambio? Un drappello di uomini invidiosi, che diffondono i miei dati alle mie spalle e mi chiamano Rosie solo perché sanno che mi dà fastidio! […]
Il modello di Watson e Crick è bellissimo, elegante, geniale, ed è compatibile con i dati che abbiamo finora; lo ammetto, anche se so che lo hanno immaginato solo spiando le mie foto. Ma l’idea di uno scienziato non deve essere solo bella, deve essere anche vera! [pp. 134-135]
Se nella scienza per le donne è difficile, risulta difficile immaginare cosa deve aver passato la matematica afroamericana Katherine Johnson (1918-2020), che nel 1953 riuscì a essere assunta alla NACA (poi NASA). Anche lei ha molti primati, per esempio è stata la «prima donna a firmare report di ricerca ufficiali» alla NASA. Ma era anche la responsabile del calcolo delle traiettorie delle missioni spaziali. Da quella del 1961 del primo americano nello spazio (Alan Shepard), a quella dello sbarco dell’uomo sulla Luna (1969), a quella del 1970 che permise alla missione Apollo 13 di riuscire a tornare sulla Terra. Il film Il diritto di contare (2016), di cui di seguito puoi guardare il trailer, racconta la sua storia:
L’epopea delle lunatiche
Un altro libro consigliato (questa volta un saggio di divulgazione) lo ha scritto la giornalista esperta di storia delle donne Valeria Palumbo e si intitola L’epopea delle lunatiche. Storie di astronome ribelli (Hoepli, 2018, 143 pp., euro 12,90).
Un libro interessante che attraversa i secoli e spazia in mezzo mondo (occidente, certo, ma anche Russia e Cina), raccontando i contributi femminili all’astronomia. E non solo, come indica quel “ribelli” nel sottotitolo:
Molte delle scienziate che hanno accompagnato i progressi dello studio dei corpi celesti, nel Novecento, sono state anche protagoniste di epiche battaglie per le donne. Alcune di loro hanno fatto scoperte sensazionali e fondamentali, come Jocelyn Bell con le pulsar, e si sono viste negare il Nobel. Altre hanno affrontato lo spazio attraverso nuove discipline. Tutte sono state coraggiose pioniere della frontiera. [p. 105]
Importante per scoprire e conoscere tante storie poco conosciute, per esempio la storia dell’astronomia italiana femminile (dove Margherita Hack è solo la punta dell’iceberg).
Il libro si chiude con Valentina Tereškova (1937), prima donna nello spazio nel 1963 e da allora simbolo di emancipazione femminile. Con studio, preparazione e caparbietà riuscì ad abbattere i muri che non vedevano di buon occhio una donna cosmonauta. Fu talmente capace che i russi, prima scettici, la usarono poi per risultare all’avanguardia.
Avevano progettato il mio volo per rimanere nello spazio ventiquattro ore perché ero una donna e quindi, secondo loro, fragile.
Avremmo deciso in seguito se restare nello spazio di più e così è stato. Il volo fu prolungato e durò tre giorni e durante il viaggio ho fatto alcune foto della Terra che oggi appartengono alla storia. Grazie a quel volo ho provato che le donne, come gli uomini, possono lavorare bene nello spazio. [p. 137]
Nello spazio e in qualsiasi altro luogo.
Altri libri consigliati:
- Vichi De Marchi, Roberta Fulci, Ragazze per l'ambiente. Storie di scienziate e di ecologia, Editoriale Scienza, 144 pp., euro 16,90.
- Marco Ciardi, Marie Curie. La signora dei mondi invisibili, Hoepli, 152 pp., euro 12,90 (già recensito qui)
- Jim Ottaviani, Maris Wicks, Primati – Le amicizie avventurose di Jane Goodall, Dian Fossey e Biruté Galdikas, Il castoro, 140 pp., euro 14 (già recensito qui)
Per approfondire altre storie di scienziate non presenti nei due libri recensiti, consigliamo la lettura del blog Donne e uomini di scienza di Marco Boscolo, qui nell’Aula di scienze, per esempio:
La photograph 51 originale conservata tra i documenti di Linus Pauling (Immagine: Oregon State University Special Collections & Archive Research Center)
Nel 1963 la cosmonauta russa Valentina Tereshkova fu la prima donna ad andare nello spazio (immagine: ESA)