In questo mondo, una specie può prosperare solo quando prospera anche tutto il resto intorno a essa. David Attenborough
Un uomo in cammino
Capelli bianchi, passo deciso: un uomo si allontana da noi percorrendo una strada sovrastata da vegetazione incolta e condominii in rovina. Siamo a Prypjat, a due passi da Chernobyl: prima del disastro nucleare più noto della storia, avvenuto nella notte del 26 aprile 1986, la cittadina ospitava circa 50.000 abitanti, ma da quella notte è inabitabile, perlomeno per gli esseri umani.
Abbiamo appena finito di vedere David Attenborough - Una vita sul nostro pianeta, documentario e testimonianza del più giovane ultranovantenne della storia della televisione. Nato l’8 maggio del 1926 a Isleworth (distretto di Londra), questo ragazzo saggio, inesauribile e appassionato ha attraversato l’ultimo secolo perennemente in viaggio nei sette continenti per portare nelle case di molte generazioni le meraviglie della vita sulla Terra. Anche ora, mentre ne scriviamo, ha da poco iniziato le registrazioni di una nuova serie: Green Planet.
Prima di lui, i documentari come oggi li conosciamo non esistevano. Una moltitudine di animali che oggi al grande pubblico sembrano famigliari, quando David Attenborough iniziò la sua carriera – armato di intraprendenza, idee e una laurea in zoologia – non erano nemmeno mai stati sentiti nominare. Parlare di natura in televisione significava perlopiù mostrare al pubblico, da uno studio, esemplari dello zoo di Londra, oppure noiose sequenze girate in Africa che facevano leva sul fascino per l’esotico.
Attenborough iniziò davanti a una telecamera per sbaglio, come spesso accade nelle biografie di molti grandi professionisti. Il presentatore abituale (il direttore dello zoo) non stava bene e così lui lo sostituì all’ultimo minuto. Ma aveva un’idea che gli ronzava in testa: mostrare e descrivere gli animali selvatici nei loro habitat naturali.
Dai comuni sforzi della giovane BBC e dello zoo di Londra, su idea di Attenborough, nel 1954 nasceva Zoo Quest, un nuovo programma televisivo che mostrava la ricerca e la cattura di un animale raro o particolare in paesi lontani da portare allo zoo di Londra, per poi conoscerlo meglio in studio.
Per quanto oggi gli zoo ci sembrino anacronistici, va ricordato che stiamo parlando degli anni Cinquanta. Molte cose sono cambiate da allora, e se e oggi la sensibilità nei confronti del benessere e dei diritti degli animali è giustamente molto alta, lo dobbiamo in parte anche al lavoro di David Attenborough (per farsi un’idea della sua importanza, basta dare un’occhiata alla sua filmografia), che si è evoluto dagli anni Settanta verso una nuova sensibilità di rispetto assoluto e di profondo ambientalismo.
Le avventure di un giovane naturalista
Zoo Quest rappresenta l’alba di un nuovo modo di fare divulgazione in tv, il primo tentativo – forse un po’ goffo – di trovare nuove strade che porteranno ai fasti dei documentari targati BBC Earth degli ultimi trent’anni. Sono anche le prime vere avventure di Sir David Attenborough, che lui stesso racconta nel delizioso libro Avventure di un giovane naturalista (Neri Pozza, 2020, 380 pp., euro 19).
Il libro è suddiviso in tre parti, che corrispondono alla riuscitissima rielaborazione letteraria di tre diari tenuti dall’autore. Il primo viaggio è in Guyana (America centrale) alla ricerca del formichiere gigante. Il secondo nel Borneo e sull’isola di Komodo (Indonesia), alla ricerca di quel temibile e prezioso drago che chi ha letto il libro di Douglas Adams ha già incontrato. Il terzo è in Paraguay (America centrale), alla ricerca di armadilli.
L’armadillo è l’unico parente superstite del gliptodonte. Osservarlo significa vedere un legame vivente con le strane bestie primitive della preistoria ed è soprattutto questo a renderlo tanto intrigante ai miei occhi. Vive nelle tane che scava, corre nelle foreste e nelle pampas. Si nutre di radici, di piccoli insetti e di carogne. Forse deve in qualche misura la propria sopravvivenza alla peculiare corazza. La famiglia a cui appartiene sembra avere un successo notevole e comprende molte specie diverse, dall’armadillo pigmeo, poco più grande di un topo, che scava le sue tane nella sabbia dell’Argentina, all’armadillo gigante, lungo fino a un metro e mezzo, che vaga nelle foreste umide e calde del bacino amazzonico. [p. 259]
Un Attenborough poco più che ventenne ci dà un passaggio verso un tempo lontano e luoghi selvaggi che non esistono più. Un libro di viaggio popolato di animali rari, personaggi che sembrano usciti dall’Isola del tesoro di Stevenson, avventure affascinanti (a volte ai limiti della sopravvivenza) e situazioni molto divertenti (viene in mente Tre uomini in barca di J.K. Jerome).
Con una base scientifica sempre solida e in minima parta datata (ai lettori la sfida di approfondire alcuni aspetti che oggi risultano mutati, rispetto alle conoscenze degli anni Cinquanta, come per esempio le origini del drago di Komodo), il libro è fortemente innervato di sottile humour inglese, a tratti di vera e propria comicità che spesso nasce da questi uomini bianchi fuori luogo e furiosamente in cerca di animali selvatici per fini oscuri, agli occhi dei nativi.
A questi ingredienti che rendono la lettura un vero piacere aggiungiamo un pizzico di antropologia culturale. Come nel caso degli Akawaio del villaggio di Wailamepu, in Guyana, dediti alla religione dell’“Alleluia” (una loro versione del cristianesimo), convertiti a ribattezzati con nomi occidentali dai missionari della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno, che insieme alla nuova religione portarono anche il divieto di mangiare carne di coniglio.
Qui i conigli non esistono, però c’è un grosso roditore abbastanza simile, chiamato labba. Purtroppo la carne di labba è sempre stata uno dei cibi preferiti degli indiani e la proibizione è stata un duro colpo per loro. Si racconta che una volta un missionario ha trovato un indiano convertito intento a cuocere sul fuoco un labba e gli ha detto che era peccato. “Ma questo non è un labba” ha replicato l’indiano. “È un pesce”. Allora il missionario si è arrabbiato: “Sciocchezze! Nessun pesce ha incisivi così grossi!” E l’indiano ha ribattuto: “No, signore! Quando sei arrivato in questo villaggio hai detto che il mio nome indiano era cattivo, mi hai spruzzato con l’acqua e hai detto che adesso il mio nome era John. Allora, signore, oggi sono andato nella foresta, ho visto un labba e gli ho sparato, l’ho spruzzato con l’acqua prima che era morto e ho detto: ‘Labba è un brutto nome, adesso sei un pesce’. Allora adesso sto mangiando pesce, signore.” [p. 57]
Come sostiene Attenborough nel documentario, a quei tempi non si rendeva conto che i cambiamenti ambientali erano già in atto. Gli sembrava di vivere avventure incredibili in luoghi incontaminati, ma col senno di poi capì che si sbagliava: già allora, la natura selvaggia iniziava ad essere in pericolo e alcuni animali, a causa della condotta scellerata degli esseri umani, erano sempre più difficili da trovare. Bisognava fare qualcosa, e al più presto.
Una vita sul nostro pianeta
Con questo senso di urgenza nasce il documentario David Attenborough - Una vita sul nostro pianeta (Netflix, 83’), testimonianza diretta e d’eccezione di un uomo che ha vissuto ed esplorato il nostro pianeta come pochi altri. Un documentario che andrebbe mostrato in tutte le scuole, di ogni ordine e grado. Dall’infanzia in Inghilterra ai tempi raccontati nel libro Avventure di un giovane naturalista (anche con sequenze tratte da Zoo Quest), passando per la prima vera rivoluzionaria serie di documentari naturalistici mai prodotta: Life on Earth (1979), che richiese anni di riprese negli ecosistemi di tutti e sette i continenti.
Nel documentario vengono mostrati i cambiamenti avvenuti nell’arco di tempo della lunga e ricca vita di David Attenborough, fino a oggi:
- 1937 (anno della sua nascita)
Popolazione umana: 2,3 miliardi CO2 nell’atmosfera: 280 ppm Natura incontaminata: 66% - 2020
Popolazione umana: 7,8 miliardi CO2 nell’atmosfera: 415 ppm Natura incontaminata: 35%
Dopo una prima bellissima parte autobiografica, nella seconda parte Attenborough prospetta il futuro misero che ci attende se non cambieremo nulla rispetto ai consumi odierni. Nella terza e ultima parte, però, fornisce le soluzioni ai problemi che dobbiamo affrontare nell’immediato futuro: non solo a parole, ma nei fatti.
In breve riassumiamo la sua ricetta – percorribile, auspicabile e di grande buon senso:
- rinaturalizzare il mondo, ovvero ripristinare la biodiversità del pianeta;
- incentivare la diminuzione del tasso di natalità;
- aumentare la qualità della vita (di tutti) senza aumentare il prelievo di risorse, possibile grazie allo sfruttamento delle energie rinnovabili;
- modificare la nostra alimentazione diminuendo il consumo di carne, in modo da produrre più cibo da una minore estensione di terreni coltivati.
Con esempi virtuosi in grado di infondere speranza e ottimismo per ciò che attende l’umanità, prendiamo atto che la Terra sta diventando un posto che non potremo più abitare. Proprio come Chernobyl – luogo in cui si apre e si chiude il documentario – entrambi i disastri sono «il risultato di cattiva pianificazione ed errore umano». Ma per quanto Prypjat sia oggi inabitabile per gli umani a causa delle alte radiazioni, è diventata un paradiso per lupi, volpi, ungulati e vita selvatica in generale, che qui prosperano in un nuovo, strano, ma accogliente habitat. Come recita Attenborough nel documentario:
La natura è il nostro maggiore alleato e la nostra più grande ispirazione. Dobbiamo solo fare ciò che la natura ha sempre fatto. Ha carpito il segreto della vita molto tempo fa. In questo mondo, una specie può prosperare solo quando prospera anche tutto il resto intorno a essa. Possiamo risolvere i problemi che ci attanagliano abbracciando questa realtà. Non si tratta di salvare il pianeta, ma noi stessi.
In questo senso, nonostante la sua età, David Attenborough è ancora un giovane naturalista: il futuro è il suo tempo, proprio come quello dei nostri figli, nipoti, bisnipoti. È qui con noi, a combattere strenuamente per un mondo migliore possibile. Per il nostro futuro.