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I pesticidi? Una lezione di educazione civica

Attraverso la storia dell'impiego dei pesticidi in agricoltura possiamo capire un meccanismo cruciale del funzionamento delle democrazie moderne: imparare a cogliere i benefici delle tecnologie e a ridimensionarne i rischi.
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Provate a cercare “pesticidi” su Google, e quello dei cosiddetti “veleni nel piatto” vi sembrerà un problema mai risolto, e una minaccia che pesa su ciascuno di noi ogni volta che addentiamo una mela, un pomodoro o un (apparentemente) innocente cetriolo. Invece, proprio i pesticidi sono un esempio quasi da manuale di come si possa arrivare all’uso responsabile di una tecnologia. Di come un pericolo possa essere trasformato in un rischio accettabile. Ma soprattutto di come il merito di tutto questo sia dell’intera società. A partire da chi continua a lanciare un allarme. Ogni nuova tecnologia, se sufficientemente potente, può infatti creare dei guai e a volte ne crea. Soprattutto all’inizio. Guardando però alla nostra vita, non possiamo non accorgerci del fatto che nonostante l’arrivo di sempre nuove e potenti tecnologie, la nostra sicurezza e la nostra salute non fanno che migliorare. In media, naturalmente. Se questo fatto ci sorprende, è perché nessuno ci ha mai spiegato un meccanismo cruciale del funzionamento delle democrazie moderne: quello che ci consente di imparare a cogliere i benefici delle tecnologie, e a ridimensionarne i rischi. È un processo spontaneo, a volte disordinato, forse mai abbastanza rapido, sicuramente imperfetto. Ma funziona.
Fonte: Il ruolo degli agrofarmaci nell’agroalimentare italiano, Università di Piacenza e Vsafe.
Anche se a nessuno piace l’idea che un veleno possa finire nel piatto in cui mangia, anche se in dosi infinitesime, gli agrofarmaci (così si dovrebbero chiamare) sono praticamente indispensabili per difendere le piante. Secondo un recente studio dell’Università di Piacenza, senza protezione le perdite di raccolto in Italia sarebbero enormi: - 67% nelle mele, - 81% nel pomodoro, - 71% nelle uve da vino, - 87% nel mais, - 70% nel grano duro, solo per fare qualche esempio. Gli attacchi di parassiti e malattie sono infatti un problema nato insieme all’agricoltura. La FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, stima che il 40% dei raccolti mondiali vada perso per mancanza di mezzi di difesa efficaci, e ha dichiarato proprio il 2020 Anno Internazionale della Salute delle Piante. Per questo l’invenzione di uno dei primi insetticidi di sintesi, il famoso DDT, fu salutata come un trionfo per l’umanità e premiata con un premio Nobel. Premio che oggi ci appare assurdo, ma solo per via di quel fenomeno psicologico per il quale un problema, una volta che è stato risolto, viene dimenticato. In effetti, quelle prime molecole sviluppate fra gli anni Quaranta e Cinquanta, ad esempio molti composti organofosforici, erano effettivamente molto pericolose, e in quegli anni venivano sparse nei campi in dosi massicce, per essere sicuri che funzionassero, spesso senza alcuna attenzione per la sicurezza degli stessi operatori. Allora infatti qualsiasi nuovo prodotto poteva essere venduto e utilizzato senza limitazioni e senza alcun controllo, semplicemente perché nessuno se ne preoccupava.  

L'allarme

L’allarme venne lanciato nel 1962 da una biologa americana, Rachel Carson, con un libro che avrebbe poi venduto milioni di copie in tutto il mondo e che si ristampa ancora: Primavera Silenziosa (ne ha scritto Pietro Bassi in questo articolo dell'Aula di Scienze). Silenziosa appunto perché senza più insetti e uccelli, e forse anche perché i pesticidi uccidono in silenzio anche noi. Oggi sappiamo che quell’allarme era probabilmente esagerato. Il DDT, ad esempio, è dannoso per gli uccelli e la fauna acquatica, ma è relativamente innocuo per gli esseri umani, e la cancerogenicità effettiva di molte di quelle molecole è stata poi ridimensionata. Ma di sicuro troppe persone, e soprattutto gli stessi agricoltori che le maneggiavano in grandi quantità, erano esposte a rischi eccessivi.
La copertina della prima edizione italiana del libro di Rachel Carson (Feltrinelli, 1963).
La cosa interessante è quello che è accaduto dopo. Da allora infatti associazioni ambientaliste, giornali e semplici cittadini hanno cominciato a denunciare e a protestare. Molti scienziati hanno cominciato a studiare il problema, e a documentare danni all’ambiente e alla salute. Ed è nata una consapevolezza diffusa dei rischi posti da un uso irresponsabile dei pesticidi. Tutto questo ha convinto la politica a cominciare a regolarne la vendita e l’uso. Le aziende produttrici hanno così cominciato a dover limitare la tossicità e la persistenza nell’ambiente delle nuove molecole, per essere autorizzati a venderle. Gli agricoltori hanno cominciato a dover limitare dosi e tempi di applicazione, oltre a osservare delle norme di sicurezza per proteggersi. Chi vende frutta e verdura è stato obbligato a rispettare norme sulla quantità massima di residui ammessi.  

Duri confronti

Non è stato un processo semplice e lineare. Chi lancia gli allarmi li ha spesso esagerati, le aziende produttrici hanno cercato di resistere alle regole, gli agricoltori non sono sempre stati attenti, e i venditori hanno spesso chiuso un occhio. Ci sono stati conflitti anche aspri. Ma col tempo tutti hanno cominciato a lavorare sempre meglio, e si è creato un circolo virtuoso. Un ruolo particolarmente importante l’ha avuto la ricerca. Da una parte ci sono stati ricercatori (soprattutto del settore pubblico) che hanno costantemente migliorato le nostre conoscenze sulla effettiva pericolosità delle sostanze usate, stabilendo per esempio le dosi massime di residui di pesticidi ammissibili perché non costituiscano un pericolo per la salute umana. Come ben sanno i tossicologi, infatti, “è la dose che fa il veleno”. Altri invece hanno studiato di quali dosi hanno effettivamente bisogno le piante, e in quale momento, per evitare di disperderne inutilmente nell’ambiente. O come limitare i danni alla fauna selvatica,. Dall’altra parte, ci sono stati ricercatori (soprattutto nel settore privato) che hanno sviluppato nuove molecole sempre meno tossiche, o che si degradano rapidamente dopo l’uso. Li chiamiamo sempre “pesticidi”, ma sono ormai sostanze che non hanno quasi più nulla in comune con quelle usate all’inizio di questa vicenda.  

La situazione oggi

Così oggi l’uso degli agrofarmaci viene attentamente regolato e controllato a livello regionale, nazionale ed europeo. Le autorità pubbliche di controllo e regolazione, come l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), il Ministero della Salute e i Servizi Fitosanitari Regionali si avvalgono del parere dei migliori esperti delle nostre università e dei nostri centri di ricerca pubblici e assistono la politica nella regolazione, di cui controllano poi l’applicazione. Grazie anche alla continua pressione dell’opinione pubblica, dal 1993, l’Unione Europea ha obbligato le aziende produttrici a ritirare dal commercio il 67% delle molecole. L’ultimo “repulisti” risale al 2014, quando si è stabilito che un altro 7% (fra questi i composti a base di rame utilizzati in agricoltura biologica) sarà ritirato quando saranno disponibili nuovi principi attivi efficaci. Questo ha spinto le aziende produttrici a fare grandi investimenti per sviluppare nuove molecole più sicure per la salute umana e quella dell’ambiente. Sempre grazie alla continua pressione dell’opinione pubblica, agricoltori e supermercati portano sul mercato frutta e verdura sempre più pulite. Diverse grandi catene di distribuzione, ad esempio, si impongono limiti ancora più bassi di quelli previsti dalla legge. In Italia, nel corso degli ultimi trent’anni l’uso di pesticidi è diminuito del 40%. Nel 2017, l’ultimo più recente per il quale il Ministero ha reso disponibili i dati delle rilevazioni, solo il 2,5% dei campioni esaminati conteneva residui in quantità maggiore rispetto ai limiti di legge, e ben il 65% ne era del tutto privo. Il risultato migliore in Europa, e forse nel mondo. Quanta strada, vero? Ma circoli virtuosi di questo tipo esistono per quasi tutte le tecnologie che entrano nella nostra vita: sostanze chimiche, farmaci, impianti potenzialmente inquinanti, automobili, treni, computer, persino giocattoli. Anche se ne molti di noi ne ignorano l’esistenza, un’enorme rete di persone, organizzazioni, istituzioni e normative fa sì che la nostra vita di tutti i giorni sia ragionevolmente sicura. In alcuni casi riuscendoci molto bene, in altri un po’ meno bene. Si può sempre migliorare. Il vero punto però è che tutto questo non è mai scontato, né automatico. Alla fine, dipende da noi. Dalle nostre preoccupazioni, dalle nostre proteste, dalle nostre richieste che trovano ascolto nei media, nella politica, nella scienza, nell’impresa. Perché dove la democrazia non c’è – la storia ce ne ha purtroppo fornito fin troppi esempi – nessuno si preoccupa di difendere i cittadini. Neppure dalle conseguenze indesiderate delle tecnologie.

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