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Gli effetti della pandemia sugli animali

La pandemia di COVID-19 ha avuto diverse ripercussioni anche sulle specie animali, dalla perdita di habitat agli allevamenti intensivi, fino al commercio e al bracconaggio.
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La pandemia di COVID-19 ha avuto diverse ripercussioni anche sulle specie animali, spingendo molti studiosi a riflettere sulla necessità di riconsiderare il nostro rapporto con gli animali non umani. Il sospetto che i primi contagi causati dal coronavirus SARS-CoV-2 possano essere avvenuti al mercato di Wuhan, in Cina, dove erano venduti anche animali vivi, è stato determinante nel richiamare l’attenzione sui rischi sanitari derivanti dal commercio di fauna selvatica. È infatti noto da tempo che il commercio di specie selvatiche, vendute come animali da compagnia, per scopi alimentari o per l’oggettistica, pone una serie di rischi che, oltre alla minaccia per la conservazione della fauna, includono la diffusione di specie invasive e la trasmissione di zoonosi. Il commercio, infatti, moltiplica le occasioni di contatto e quindi di infezione per tutte le persone che entrano nella filiera (l’allevatore o cacciatore, il trasportatore, l’acquirente, il cuoco). In più facilita lo scambio di patogeni tra specie che, in natura, non condividono lo stesso habitat e difficilmente potrebbero venire in contatto fra loro. Rischi aggiuntivi possono infine derivare dal commercio illegale di specie selvatiche, legati per esempio al tentativo di eludere i controlli e le quarantene.  

Vietare il commercio di animali selvatici

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato una guida per la riduzione del rischio associato alla vendita di animali selvatici nei mercati tradizionali. All’interno sono suggerite una serie di azioni: la prima è emanare norme di emergenza temporanee per sospendere la vendita di fauna selvatica in questi mercati. Misure del genere non sono una novità. Nel 2007 l’Unione Europea aveva vietato l’importazione di volatili a seguito dell’epidemia di influenza aviaria causata dal virus H5N1, mentre in Cina l’epidemia di SARS del 2002-2003 aveva portato a un divieto di caccia, vendita, trasporto ed esportazione di animali selvatici, revocato però al termine dell’emergenza sanitaria. Con la pandemia di COVID-19, la Cina ha vietato il commercio e il consumo di specie selvatiche e l’allevamento di specie selvatiche terresti a scopi alimentari. Questa decisione (che non si sa ancora se sarà permanente) è stata inoltre accompagnata da una revisione della lista delle specie protette, che ha elevato al massimo grado di tutela il pangolino (indagato come possibile ospite intermedio di SARS-CoV-2) e lo zigolo dal collare, due animali a rischio critico di estinzione, soprattutto a causa della caccia a scopo alimentare. Alcuni esperti, tuttavia, temono che queste restrizioni possano incrementare il mercato illegale. Un altro forte timore è per le conseguenze economiche: sebbene in Cina il consumo di fauna selvatica non sia una necessità, l’allevamento impedisce a molti allevatori di finire nella povertà. Il governo cinese ha previsto una serie di misure di sostegno, ma è difficile sapere se saranno sufficienti.  

La perdita degli habitat

Limitare il commercio di animali selvatici, inoltre, non risolve il problema alla radice. Per riuscire a mitigare il rischio di trasmissione di patogeni è necessario fermare la deforestazione e l’urbanizzazione che causano il degrado o la perdita di habitat essenziali per molti animali. Le specie che non soccombono si trovano ad avere popolazioni più dense, concentrate in un areale ridotto, dove la circolazione di patogeni è facilitata, mentre gli insediamenti umani risultano più a contatto con animali che possono veicolare patogeni pericolosi. Inoltre, gli studi suggeriscono che la modifica degli ambienti naturali favorisca proprio le specie portatrici di zoonosi.

L’origine delle zoonosi e i fattori ambientali che facilitano la trasmissione di patogeni fra gli animali e gli esseri umani.

È quindi evidente che il fattore umano influenza l’emergere e la diffusione delle malattie infettive, e non solo di origine zoonotica. Per esempio, i cambiamenti climatici modificano gli areali e i periodi di attività di diverse specie; gli artropodi come zecche e zanzare, in particolare, sono particolarmente sensibili al clima in quanto ectotermi: significa che la loro temperatura corporea dipende dall’ambiente esterno, cosicché il riscaldamento globale può favorirne la sopravvivenza in aree più estese e renderli attivi anche nei mesi più freddi.  

Il ruolo degli allevamenti

Il rischio sanitario non riguarda però solo le specie selvatiche, come è risultato evidente dopo l’allarme suscitato dai contagi da SARS-CoV-2 avvenuti negli allevamenti di visoni: infettati dagli umani, i visoni hanno nuovamente trasmesso il coronavirus agli operatori dell’allevamento, ma in una forma mutata. È un processo detto antropozoonosi, nel quale è l’essere umano a trasmettere un patogeno a un’altra specie, rischiando di creare un serbatoio biologico dal quale il virus può riemergere in qualsiasi momento. Per alcune specie, inoltre, può rappresentare una minaccia alla conservazione: particolare preoccupazione in questo senso l’ha destata il passaggio di SARS-CoV-2 alle scimmie antropomorfe, che comprendono specie a rischio di estinzione, e nelle quali in passato si erano già verificate epidemie dovute a patogeni trasmessi dagli umani, con gravi effetti sulle popolazioni.
Cuccioli di visoni in un allevamento di pellicce svedese (Immagine: Jo-Anne McArthur/Unsplash)
Il caso dei visoni evidenzia il rischio legato agli allevamenti intensivi, dove la densità degli animali può diventare molto alta, facilitando la trasmissione di virus e batteri. In generale, inoltre, gli allevamenti sono luoghi dove il contatto stretto e prolungato tra gli animali e gli esseri umani favorisce lo scambio di patogeni e l’emergere di zoonosi, come del resto dimostrano le periodiche pandemie influenzali di origine aviaria o suina, che includono la terribile epidemia di Spagnola del 1918 e la pandemia causata nel 2009 dal virus H1N1.  

La natura si è ripresa i suoi spazi?

Le misure restrittive imposte durante la pandemia di COVID-19 sono un altro elemento che ha influenzato la fauna selvatica. Questo periodo è stato ribattezzato da alcuni ricercatori “antropausa”, un neologismo usato per indicare la sospensione di molte attività antropiche. Anche in Italia, durante il lockdown diversi media hanno pubblicato fotografie e video di animali selvatici a spasso per le strade cittadine, spesso accompagnati dallo slogan “la natura si riprende i suoi spazi”. Sebbene esistano molte specie che si sono adattate a convivere con noi in contesti urbani, la maggior parte degli animali selvatici preferisce evitarci. Non dovrebbe perciò sorprendere che, con la gran parte degli umani chiusi in casa, gli animali abbiano potuto davvero “riprendersi i loro spazi”. Uno studio italiano dimostra che, in effetti, per alcuni animali c’è stato un aumento di attività nelle ore diurne, o l’espansione in aree dove difficilmente si sarebbero mostrati in nostra presenza. Per esempio, il fratino eurasiatico ha nidificato anche in tratti di spiaggia turistici, dove negli anni precedenti non erano stati osservati nidi. Sono inoltre diminuiti gli anfibi e i rettili investiti lungo le strade, e negli Stati Uniti sembra essere avvenuto anche per i grandi mammiferi e per le specie domestiche.  

Progetti di conservazione e bracconaggio

Lo studio italiano suggerisce tuttavia che anche le specie aliene invasive potrebbero avere beneficiato di un ambiente con una minore pressione antropica. Si tratta della conseguenza di uno degli aspetti forse più negativi del lockdown per la conservazione della biodiversità, ossia l’interruzione o il rallentamento dei progetti di conservazione. L’effetto è ancora da valutare appieno, ma le conseguenze potrebbero essere particolarmente gravi per le specie più a rischio. Diversi esperti hanno inoltre denunciato il rischio di un aumento del bracconaggio, a causa della diminuzione dei controlli e della mancanza di turisti (che possono fare da deterrente per le attività illegali), nonché del generale impoverimento delle comunità locali. In effetti, un incremento di casi di bracconaggio è stato registrato in diversi Paesi, come l’Uganda e l’India. È anche vero, però, che in altri casi il bracconaggio è diminuito: è quanto avvenuto in Sudafrica per il rinoceronte, in parte grazie al lockdown che ha limitato il movimento dei bracconieri. Secondo un rapporto dell’organizzazione Wildlife Justice Commission, le restrizioni ai trasporti internazionali hanno ostacolato anche il traffico illegale di fauna selvatica, che nei primi mesi del 2020 è diminuito.  

La nostra salute e quella del pianeta

«Ecco a cosa sono utili le zoonosi: ci ricordano, come versioni moderne di San Francesco, che in quanto esseri umani siamo parte della natura, e che la stessa idea di un mondo naturale distinto da noi è sbagliata e artificiale», scrive David Quammen nell’ultimo capitolo del celebre saggio Spillover. La pandemia di COVID-19 è una dura conferma delle sue parole: siamo legati a doppio filo con gli ecosistemi nei quali viviamo e che condividiamo con gli altri animali che popolano il pianeta. Muovendo quel filo mettiamo in moto una complessa catena di eventi che investono loro e noi: per mitigare i rischi futuri – dalle prossime pandemie alla crisi climatica – dobbiamo valutare le nostre scelte in un’ottica preventiva, riconoscendo questo stretto legame tra la nostra salute e quella del pianeta.   -- Immagine banner e box in homepage: Capre di montagna vagano per le strade deserte di LLandudno, in Galles, durante il lockdown del marzo 2020 (fonte: Peter Byrne - PA Images /Getty Images)
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