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Biologia

Mammiferi e mutazioni: quelli più longevi ne accumulano meno?

Il ritmo più lento con cui le specie longeve accumulano mutazioni spiegherebbe perché il rischio di cancro non aumenta con la durata della vita

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Chi produce più cellule nel mondo animale? Le bestiole più grandi e più longeve, ovvero quelle che ne fabbricano tante fin dall’inizio dello sviluppo, per raggiungere le proprie dimensioni tipiche. E quelle che nel corso di una lunga vita rimpiazzano molte delle cellule che vanno incontro a usura, si ammalano, muoiono. Numerosi tessuti, come la pelle, il sangue, le mucose, vanno incontro a frequenti ricambi della propria popolazione cellulare.

Più sono le cellule prodotte e maggiore dovrebbe essere il rischio di mutazione e quindi di cancro. Per quanto ne sappiamo, infatti, un tumore ha origine da una cellula che ha acquisito un certo numero di alterazioni genetiche funeste. Una crescita fuori controllo, tipica dei tumori, può avere luogo quando alcune di queste alterazioni liberano, per così dire, una cellula dal rispetto delle regole di convivenza ordinata della società cellulare cui appartiene.

Ragionando in termini di probabilità, i tumori dovrebbero essere più frequenti in animali con molte cellule, ossia in quelli più grandi o più longevi che, nel raggiungere grandi dimensioni e rispettabili età, compiono molte divisioni cellulari. La probabilità di mutazioni cresce infatti con il numero delle divisioni cellulari. Più numerose e frequenti sono le divisioni e maggiore è il numero di errori di copiatura del materiale genetico che possono capitare.

Eppure una balenottera azzurra, tanto grande e longeva, non ha un rischio maggiore di sviluppare un cancro rispetto a un topo, che produce molte meno cellule e gode di vita assai più breve. Questa stranezza è conosciuta, tra gli addetti ai lavori, con il nome di paradosso di Peto, dal nome di Sir Richard Peto, lo scienziato inglese che l’ha osservato per primo.

Di recente in Gran Bretagna, Alex Cagan ha analizzato, insieme a numerosi collaboratori, i dati di mortalità di animali di 191 specie diverse, vissuti in alcuni zoo del Paese. I dati hanno confermato il paradosso di Peto: gli animali con corpi più grandi o vite più lunghe non hanno avuto maggiori probabilità di morire di cancro rispetto a quelli più piccoli o dall’aspettativa di vita più breve. Cagan è un giovane postdoc che lavora nel laboratorio diretto da Ingo Martincorena al Wellcome Sanger Institute a Hinxton.

Mi sono imbattuta nella ricerca di Cagan su Twitter, inizialmente colpita dalla copertina che Nature ha dedicato al suo studio. Ho poi scoperto che Cagan è anche illustratore e che sua è l’immagine della copertina. Su Twitter ha fatto un ottimo Twittorial, ossia una spiegazione dei risultati della ricerca, illustrata da brevi testi, immagini e video.

Quale meccanismo biologico contribuisce al paradosso di Peto? Per rispondere a questa domanda, Cagan e colleghi hanno misurato la rapidità con cui le cellule vanno incontro a mutazioni nelle diverse specie animali.

Studiare i tassi di mutazione dell'intero genoma è una faccenda complicata e fino a poco tempo fa impossibile da fare cellula per cellula. Ancora oggi è assai difficile confrontare grandi popolazioni cellulari di animali diversi, dove la struttura del genoma è disomogenea.

Per superare questi problemi, Cagan e colleghi hanno scelto di studiare le cellule di un tessuto comune a tutti gli animali che hanno preso in considerazione le cripte intestinali che si trovano nel colon. Si tratta di cellule particolarmente adatte allo scopo, perché sono soggette a un rapido ricambio e perché le cellule di una cripta condividono tutte una cellula capostipite comune. Per ogni cripta la capostipite è una cellula che, qualunque sia l’aspettativa di vita di ciascuna specie, è esistita fino a poco tempo prima rispetto alle cellule a cui ha dato origine. Dalla misura della differenza nel numero di mutazioni tra la capostipite e la sua discendenza è possibile calcolare il ritmo con cui queste cellule accumulano mutazioni.

Cripte intestinali si trovano nelle 16 specie animali, di diverse dimensioni e aspettativa di vita, che i ricercatori hanno scelto di studiare per paragonarne il tasso di mutazione. Hanno così sequenziato i genomi delle cellule delle cripte dei diversi animali, dal gatto alla mucca, dal cane al cavallo e così via, ottenendo anche una buona stima del numero di mutazioni che erano presenti nella cellula capostipite della cripta stessa. Da qui hanno potuto calcolare, allo stesso modo per tutte le specie, il tasso di mutazione nel tempo delle cellule delle cripte di ciascuna specie.

Da studi precedenti si sapeva già che il numero di mutazioni nelle cripte intestinali umane aumenta di un numero costante ogni anno. Cagan e colleghi hanno trovato che lo stesso vale per le altre specie esaminate: l’aumento è lineare e progredisce nel tempo, con meccanismi di mutazione simili nelle diverse specie, nonostante l’alimentazione diversa e altre differenze. Dopo tutto, i mammiferi sono strettamente imparentati dal punto di vista evolutivo e il materiale genetico e la struttura delle cellule intestinali è affine.

Quando però gli autori hanno confrontato il numero totale di mutazioni stimate per anno nei genomi delle singole cripte, hanno trovato differenze notevolissime tra le specie. Il numero variava infatti fortemente, dalle 47 mutazioni annue nelle cripte umane alle 796 di quelle dei topi. Si tratta di una discrepanza di quasi 17 volte. I risultati sono stati pubblicati su Nature il 21 aprile 2022.

Da che cosa potrebbe dipendere questa differenza? Di preciso non si sa, ma si può pensare a meccanismi di riparazione del DNA più efficaci, più numerosi o ridondanti nelle specie più longeve. Non significa necessariamente che mutino meno: basta che le mutazioni siano riparate più efficacemente.

Cagan e colleghi hanno preso in esame altre differenze tra le specie, oltre all’aspettativa di vita, tra cui la massa corporea, le dimensioni tipiche delle cucciolate e il metabolismo basale. La correlazione più forte del variare del tasso di mutazione era però con la durata della vita. Il numero totale di mutazioni accumulate nelle cripte è invece più o meno simile tra le diverse specie al termine dell’esistenza di un animale. Come se ci fosse un numero da non superare, pena il termine dell’esistenza, sia essa di 5, 10 o 100 anni.

Il diverso rischio di cancro tra le varie specie non sembra dunque essere influenzato dalla durata tipica della vita di ciascuna specie. È però associato a un particolare tipo di alimentazione: mammiferi carnivori che consumano carne cruda di altri mammiferi sono a rischio maggiore (forse a causa della possibile trasmissione di virus oncogeni con questa dieta).

Il paradosso di Peto è dunque risolto? Forse sì, almeno per quanto riguarda la durata della vita delle diverse specie e le cellule delle cripte intestinali. Occorrerà verificare che i tassi di mutazione seguano lo stesso andamento anche in altri tipi di cellule oltre a quelle delle cripte. È verosimile che cellule più esposte a fattori ambientali esterni rispetto a quelle intestinali mutino in modo diverso, come per esempio accade alle cellule della pelle più esposte ai raggi solari.

Manca invece una spiegazione altrettanto convincente per quanto riguarda la dimensione del corpo. Perché animali più grandi, ossia con più cellule, sembrano avere un numero di tumori paragonabile ad animali più piccoli, cioè con meno cellule? Forse nei corpi degli animali di taglia maggiore esistono altri meccanismi in grado di ridurre il rischio di cancro. I genomi degli elefanti hanno, per esempio, una ventina circa di copie dei potenti geni oncosoppressori TP53, anche se non tutte sembrano essere ugualmente funzionali. Ne avevo scritto in questo articolo nell’Aula di scienze.

Altri meccanismi che potrebbero essere coinvolti? La velocità con cui si accorciano i telomeri, le terminazioni dei cromosomi, e la rapidità con cui le proteine sono degradate e sostituite. Si tratta di processi che hanno verosimilmente effetti anche sull’invecchiamento.

Il mantenimento dell’efficienza cellulare e corporea, almeno finché gli animali sono in età fertile, potrebbe essere stato un vantaggio per le specie, e la conseguente pressione selettiva nel corso dell’evoluzione potrebbe avere portato all’affermarsi del rallentamento della velocità di questi meccanismi nelle specie a vita più lunga o corpo più grande.

Per scrivere questo post ho consultato: Alex Cagan et al.,Somatic mutation rates scale with lifespan across mammals, Nature (21/4/22); Alexander N. Gorelick & Kamila Naxerova, Mutational clocks tick differently across species, Nature (21/4/22); Alex Cagan, Twittorial (13/4/22). L’immagine di apertura è di Alex Cagan.

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Le 16 specie animali su cui si sono concentrati i ricercatori (illustrazione di Alex Cagan, Twittorial)

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Il tasso di mutazione misurato nelle cellule delle cripte intestinali è inversamente correlato all’aspettativa di vita tipica di ciascuna specie: più breve è la vita e più velocemente si accumulano mutazioni. Il numero di mutazioni stimate al termine dell’esistenza è invece simile nelle diverse specie (Nature)

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Forse gli elefanti hanno meno tumori grazie al grande numero di copie del gene oncosoppressore TP53? (Illustrazione di Alex Cagan, Twittorial)

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Alex Cagan (foto: Wellcome Sanger Institute)

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La copertina che Nature ha dedicato il 21 aprile 2022 alla scoperta di Alex Cagan con l‘illustrazione del ricercatore

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Sir Richard Peto, l’autore dell’omonimo paradosso (foto: Università di Oxford)

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Cellule di cripte intestinali di colon al microscopio (Alex Cagan et al., Nature, 21 aprile 2022)

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