A Torino, a pochi passi dal corso del Po e dal Parco del Valentino, è custodita una collezione unica in Italia. Si tratta del Museo del Diabete: al suo interno si trovano centinaia di volumi antichi sull’origine di questa malattia, ma anche documenti sulla nascita della diabetologia nel nostro Paese e, soprattutto, molti strumenti diagnostici e terapeutici che hanno accompagnato le persone diabetiche per tutto il Novecento.
Il merito di questa collezione va a Bruno Bruni, primario di Endocrinologia e Centro di Diabetologia al Maria Vittoria di Torino tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso. Bruno Bruni era nato a Pavone Canavese in provincia di Torino nel 1923, lo stesso anno in cui fu attribuito il Nobel per la medicina e la fisiologia a Fred Banting e John Macleod per la scoperta dell’insulina: una curiosa coincidenza per un medico che dedicò tutta la sua vita professionale allo studio del diabete e molta della sua vita privata a raccogliere testimonianze della storia di questa patologia.
Attualmente il museo non è aperto al pubblico, ma in via eccezionale mi è stato permesso di visionare i reperti raccolti da Bruno Bruni e dai suoi collaboratori: in questo articolo vi racconto e vi mostro alcuni dei reperti più singolari custoditi dal Museo. A farmi da guida è stata Silvia Gamba, diabetologa che per anni è stata collega di Bruno Bruni presso il reparto di diabetologia dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino e che oggi è curatrice del Museo del Diabete.
La diabetologia a Torino: una storia iniziata nel 1936
Per capire come è nato il Museo del Diabete, e perché proprio a Torino, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di quasi un secolo. Per la precisione, dobbiamo tornare al 1936: è in quell’anno che Catullo Florio inaugura all’Ospedale Maria Vittoria di Torino il reparto di Malattie del ricambio, dedicato al trattamento delle persone diabetiche. È il primo reparto ospedaliero di questo tipo a nascere in Italia: una scelta lungimirante, se si pensa che in quegli anni la diabetologia non è ancora riconosciuta come disciplina medica, nonostante siano trascorsi circa 15 anni da quando Leonard Thompson ha ricevuto la prima iniezione di insulina al General Hospital di Toronto.
Nel 1945, quando Torino porta ancora i segni dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Bruno Bruni si unisce all’attività del reparto di Malattie del ricambio: al tempo è ancora uno studente universitario, ma collabora come volontario per alcuni dei servizi più importanti del reparto, come misurare la concentrazione di glucosio nelle urine e nel sangue. Oggi questi esami possono essere svolti facilmente in modo autonomo da ogni persona diabetica, ma un tempo richiedevano l’aiuto di medici in grado di svolgere i test in laboratorio.
La vita professionale di Bruni rimane legata al reparto di Endocrinologia e Centro di Diabetologia dell’Ospedale Maria Vittoria per 43 anni, nel corso dei quali, oltre a dedicarsi allo studio e al trattamento del diabete, colleziona in modo meticoloso molti documenti e strumenti relativi alla storia di questa patologia, alla sua diagnosi e trattamento. All’inizio è poco più di un piccolo archivio personale, ma nel corso del tempo la collezione cresce di dimensioni, fino ad assumere la forma di un vero e proprio piccolo museo privato. Oggi quella collezione è il Museo del Diabete di Torino.
La collezione del Museo del Diabete
Quando Silvia Gamba ha aperto la porta di uno dei locali che raccoglie i reperti del Museo del Diabete, la prima cosa che ho notato sono stati i libri: scaffali e scaffali di volumi, che occupano quasi per intero due pareti della stanza. Tra i reperti più importanti di questo Museo c’è infatti la sua biblioteca, che raccoglie circa 2000 volumi sulla storia e il trattamento del diabete attraverso i secoli. Di questi volumi, 128 sono libri antichi che Bruno Bruni ha scovato in giro per l’Europa e acquistato da librerie antiquarie.
Questi volumi antichi aiutano a cogliere il valore storico del diabete dal punto di vista sia medico sia sociale: per secoli i medici hanno descritto e riconosciuto casi di diabete, ma fino al 1921 (l’anno in cui fu scoperto il trattamento a base di insulina) per le persone diabetiche non esisteva nessun trattamento efficace: chi sviluppava il diabete di tipo 1 sopravviveva al massimo pochi anni.
Alcuni volumi antichi sono stati scansionati e sono consultabili online a questa pagina.
Insieme ai volumi antichi, nella biblioteca del museo sono conservati anche documenti originali, lettere e riviste che hanno fatto la storia della diabetologia in Italia e nel mondo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento.
Nel 1952, Bruno Bruni partecipa al primo congresso della Federazione Internazionale del Diabete (International Diabetes Federation, IDF), a cui prendono parte anche Margherita Silvestri Lapenna e Silvestro Silvestri, i due medici romani che insieme a Bruni hanno svolto un ruolo fondamentale per la divulgazione sul diabete in Italia. Gli anni Cinquanta sono infatti il periodo in cui prendono vita le prime associazioni per le persone diabetiche: l’insulina ha restituito ai diabetici nuove speranze e molti anni di vita, e medici e pazienti capiscono che la loro attenzione – non più concentrata sulla sopravvivenza nel breve periodo – deve essere dedicata a trovare strumenti che permettano alle persone diabetiche di vivere una vita di qualità. Il ruolo e l’importanza di queste associazioni viene ribadito da Silvestro Silvestri in una delle lettere dattiloscritte conservate al Museo:
«…assicurare ai diabetici l’assistenza morale, sociale e pedagogica che sono così necessarie per il buon funzionamento dei Centri antidiabetici e il vero “controllo” del diabete»
(Silvestro Silvestri, lettera del 28/08/1952 a Bruno Bruni)
Nel 1949, Margherita Silvestri Lapenna, con l’aiuto del marito Silvestro Silvestri, istituisce a Roma l’AID, l’Associazione Italiana per la difesa degli Interessi dei Diabetici, e pochi anni dopo inaugura la rivista Il Giornale dei Diabetici e la Scuola dei Diabetici. Bruno Bruni segue l’esempio dei colleghi romani e, con il loro contributo, dà vita nel 1954 alla Sezione piemontese dell’AID.
A Torino, questa attività di divulgazione è stata svolta per anni dalla Associazione Karen Bruni Bøcher dell’omonimo Centro di Diabetologia (chiamato da tutti semplicemente Centro KB): il nome è a imperituro ricordo della moglie di Bruno Bruni, prematuramente scomparsa nel 1975, per anni collaboratrice delle attività del reparto di diabetologia. Il Centro KB ha portato avanti per anni un programma di istruzione e aggiornamento continuo per i pazienti diabetici, organizzando incontri, pubblicando periodici e registrando i primi video dedicati all’autogestione del diabete, conservati oggi nella videoteca del Museo. Tutte queste pubblicazioni sono oggi visionabili online sul sito museodeldiabete.com.
Per noi oggi questi strumenti di divulgazione possono sembrare superflui, ma negli anni Cinquanta (e per molti decenni a seguire) le persone diabetiche non avevano accesso facilmente a informazioni attendibili su come gestire la loro condizione. Gli incontri divulgativi e le pubblicazioni periodiche organizzate da queste associazioni hanno fatto la storia di questa patologia aiutando le persone diabetiche a diventare più consapevoli della propria condizione: un primo, fondamentale passo verso l’autogestione della malattia.
Verso l’autocontrollo del diabete
Nel corso della prima assemblea dell’AID piemontese viene lanciata la proposta di istruire le persone diabetiche all’autocontrollo della glicosuria: siamo nel 1954 e questo è il primo tentativo italiano di spingere verso l’autogestione del diabete, di cui Silvia Gamba è stata negli anni successivi una delle promotrici. Questa pratica, che nella maggior parte del nostro Paese prenderà piede solo molti decenni dopo, è oggi una delle grandi conquiste per la gestione autonoma del diabete.
Di questo passaggio epocale rimangono le testimonianze in molti dei reperti custoditi nel Museo del Diabete: qui si seguito vi mostro una breve carrellata di reperti del Museo del Diabete, per ripercorrere le principali tappe dell’evoluzione del trattamento e della gestione del diabete nel Novecento.
Il monitoraggio della glicosuria
Per tenere sotto controllo l’andamento della malattia, sono stati fondamentali due strumenti diagnostici: inizialmente la misurazione della concentrazione del glucosio nelle urine e, successivamente, nel sangue. Questi test venivano inizialmente eseguiti dai medici, che a volte disponevano di un piccolo kit di reagenti per eseguire l’analisi a domicilio: la fiala con il reattivo di Nylander era usata per il controllo della glicosuria, quella di acido acetico per il controllo dell’albuminuria.
Un altro kit molto usato per il dosaggio del glucosio nelle urine è stato il diabetimetro Bottini. Il “glucoreattivo” di colore azzurro andava versato nella provetta di vetro e poi scaldato sopra una fiammella a gas fino al punto di ebollizione. Al liquido bollente si dovevano poi aggiungere 2 gocce di urina: se il liquido rimaneva azzurro, si ripetevano la bollitura e l’aggiunta progressiva di 1-2 gocce di urina (tenendo il conto del numero di gocce aggiunte ogni volta). L'operazione andava ripetuta fino a quando il liquido in ebollizione diventava torbido, rivelando così la presenza di glucosio. Consultando un’apposita tabella, le persone diabetiche potevano poi risalire al valore di glicosuria in base al numero di gocce di urina che avevano dovuto usare per il test. Nel caso in cui l’urina fosse priva di glucosio, come avviene nelle persone non diabetiche, il glucoreattivo rimaneva azzurro indipendentemente dalla quantità di urina aggiunta.
L’autocontrollo della glicemia
Il controllo della glicosuria con il diabetimetro Bottini ha permesso alle persone diabetiche di avvicinarsi al monitoraggio autonomo e ha aperto la strada ai test di autocontrollo della glicemia su campioni di sangue. Un punto di svolta significativo l’hanno segnato le strisce colorimetriche: dopo essersi punti il dito con una lancetta, i pazienti mettevano una goccia di sangue sulla striscia e dalla colorazione che assumeva la carta potevano dedurre il valore della glicemia confrontandolo con la scala di colori riportata sulla confezione.
Un ulteriore passo avanti è stato segnato dalla comparsa dei glucometri, gli strumenti che hanno permesso alle persone diabetiche di misurare in modo automatico e più preciso la propria glicemia. Presso il Museo del Diabete sono conservate diverse generazioni di glucometri, incluso il modello Ames Reflectance Meter del 1967, il primo a comparire sul mercato.
L’autoanalisi dei corpi chetonici nelle urine
Tra i segni clinici associati al diabete di tipo 1 c’è anche l’accumulo di corpi chetonici che, in caso di diabete non compensato, può portare a una pericolosa condizione di chetoacidosi. Per aiutare le persone diabetiche all’autoanalisi dei corpi chetonici nelle urine (chetonuria) sono stati sviluppati nel tempo diversi tipi di test colorimetrici basati sull’utilizzo di strisce reattive che funzionano in modo analogo alle strisce per il controllo della glicemia.
L’iniezione di insulina
Accanto a monitorare i propri livelli di glicosuria, glicemia e chetonuria, per le persone diabetiche della prima metà del Novecento è stato fondamentale imparare a somministrarsi in modo autonomo le dosi di insulina che dovevano iniettarsi ogni giorno. Presso il Museo del Diabete sono conservati alcuni dei primi sistemi per l’autoiniezione di insulina: le siringhe – al tempo, rigorosamente di vetro – venivano innestate su un dispositivo in metallo, chiamato autosiringa Lombardo (dal nome della ditta che lo brevettò). L’esemplare presente nel Museo reca i segni di un’evidente saldatura che il paziente, di professione meccanico, aveva eseguito per mantenerlo perfettamente funzionante per i 56 anni in cui la siringa Lombardo ha accompagnato la sua vita di diabetico, dal 1937 al 1993.
I kit per l’iniezione di insulina generalmente erano formati da una scatola di metallo che permetteva di bollire e sterilizzare la siringa di vetro: una procedura indispensabile per riutilizzarla più volte.
Dalle siringhe di vetro si è poi passati alle siringhe di plastica monouso, sostituite negli anni Ottanta dalle prime penne, cioè dispositivi automatici che contengono già l’insulina e permettono di regolarne il dosaggio in modo più semplice e preciso.
Ringrazio la Dott.ssa Silvia Gamba, curatrice del Museo del Diabete, per la sua grande disponibilità. Per un’intera giornata mi ha illustrato i reperti conservati nel Museo del Diabete, ha risposto a tutte le mie domande e ha condiviso con me numerosi aneddoti sulla sua attività clinica nel reparto di diabetologia di Torino: sono davvero grata di aver potuto ascoltare questi racconti in prima persona.
Ringrazio il Prof. Massimo Porta dell’Università di Torino, Presidente della Fondazione Diabete Torino, per i testi che mi ha donato per approfondire le mie ricerche e per avermi permesso di visionare in via eccezionale l’archivio del Museo del Diabete, che al momento è chiuso al pubblico in attesa di trovare una collocazione definitiva.
Ringrazio infine la Dott.ssa Mara Fausone, conservatrice dell’ASTUT (Archivio Scientifico e Tecnologico dell’Università di Torino) per avermi permesso di accedere ai locali in cui sono momentaneamente conservati i reperti del Museo del Diabete.
immagine di copertina: Museo del Diabete KB Torino