La prima volta che ho sentito parlare di Felix d’Hérelle, il microbiologo scopritore dei batteriofagi, mi trovavo a una delle serate organizzate a Bologna da Pint of Science, l’evento che ogni anno porta attorno al bancone di un pub racconti di scienza e di ricerca. Quella sera, a parlare di batteriofagi e terapia fagica, c’era Alberto Danielli, professore di Biologia molecolare dell’Università di Bologna, che dal 2017 ha messo i batteriofagi al centro dei propri studi.
Nel corso di quella serata, ho scoperto che i batteriofagi – spesso chiamati fagi – sono entità biologiche dal passato sorprendente e dal futuro pieno di promesse.
Per conoscere meglio questi virus – che infettano i batteri ma sono innocui per gli umani – sono andata a intervistare Alberto Danielli al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie, dove dirige il Laboratorio di Biotecnologie Molecolari.
In questa intervista, Danielli ci spiega in che modo i fagi potrebbero diventare i nostri migliori alleati per fronteggiare il problema – sempre più importante in ambito clinico – della diffusione di superbug, cioè batteri resistenti a diverse classi di antibiotici.
1. Come sono stati scoperti i batteriofagi?
La storia dei fagi inizia un po’ più di un secolo fa, quando il Novecento ha appena cominciato a muovere i primi passi. Il primo ad accorgersi che le piastre batteriche in laboratorio presentano strane chiazze trasparenti è il batteriologo inglese Frederick W. Twort, che però non è sicuro a che cosa attribuire questo strano fenomeno: una bizzarria nel ciclo replicativo dei batteri o forse l’azione di un enzima? Twort azzarda anche che possa trattarsi di un virus, ma non dedica al fenomeno troppi pensieri e accantona in fretta la faccenda.
A vederci giusto è invece Felix H. d’Hérelle, il microbiologo franco-canadese che, indipendentemente da Twort, scopre lo stesso fenomeno e nel 1917 pubblica un breve articolo su una prestigiosa rivista scientifica francese, in cui rivela la scoperta di un parassita intracellulare obbligato che si moltiplica a spese dei batteri: questa è la prima descrizione dei batteriofagi.
Mentre Danielli racconta la storia di d’Hérelle, non posso fare a meno di provare simpatia per questo scienziato così fuori dagli schemi e in anticipo sui tempi: per intenderci, uno che a 16 anni – nell’estate del 1889 – era partito da casa per esplorare la Francia e il Belgio in bicicletta!
La storia di d’Hérelle è così originale da meritare una piccola digressione. Alla microbiologia, d’Hérelle si avvicina da autodidatta mentre si trova in Canada per trovare un metodo di fermentazione per convertire lo sciroppo d’acero in schnapps. Questo interesse lo porta poi in Guatemala, con l’incarico di fare la stessa cosa a partire dall’agave: d’Hérelle ci riesce e si guadagna così un biglietto per la Francia, dove c’è chi vuole investire nella produzione industriale di schnapps. Una volta a Parigi, d’Hérelle inizia a frequentare come volontario l’Istituto Pasteur ed è proprio mentre studia malattie infettive di origine batterica che identifica i batteriofagi come virus in grado di infettare e uccidere i batteri.
In un’epoca in cui non si conoscono ancora gli antibiotici, e le malattie infettive come il tifo e la dissenteria decimano la popolazione, la scoperta di virus in grado di contrastare le infezioni batteriche si guadagna subito l’interesse di tutti. d’Hérelle inizia così a gettare le basi per la terapia fagica, cioè una terapia antibatterica che elimina un’infezione con i parassiti naturali dei batteri, i fagi.
I primi test di d’Hérelle danno risultati incoraggianti e, anche se talvolta i batteri diventano resistenti ai fagi, d’Hérelle intuisce già che questo ostacolo può essere superato mescolando più tipi di fagi, quello che oggi chiameremmo un cocktail fagico.
Negli anni Venti del Novecento la terapia fagica prende piede e d’Herelle viene invitato a trasferirsi a Tbilisi, capitale della Georgia, per aiutare a sviluppare questa terapia innovativa. Per molti decenni, la Georgia e pochi altri Paesi dell’Est Europa rimarranno tra i pochi luoghi al mondo in cui è possibile trovare in commercio preparazioni fagiche per infezioni della cute o per l’acne.
E nel resto del mondo? A partire dalla scoperta degli antibiotici, avvenuta nel 1928 grazie ad Alexander Fleming, in gran parte del mondo la terapia fagica viene rapidamente accantonata e Felix d’Hérelle, che per diverse volte era stato nominato per il premio Nobel (senza mai vincerlo), morirà nel 1949 dimenticato dalla comunità scientifica – proprio come la sua terapia a base di fagi.
2. Perché oggi è importante tornare a parlare di terapia fagica?
Gli antibiotici hanno dominato la ricerca farmaceutica del Novecento e il loro impiego ha permesso di domare molte malattie infettive che in passato avrebbero messo a repentaglio la vita di una persona. Questo dominio – praticamente indiscusso – degli antibiotici è durato fino a una decina di anni fa, quando il diffondersi delle farmaco-resistenze e la comparsa di superbugs hanno iniziato a far correre un brivido tra le scapole di molti microbiologici.
Spiega Alberto Danielli:
Gli antibiotici hanno contribuito a impostare la mentalità che ha governato la ricerca farmacologica nel Novecento, caratterizzata da produzioni di massa standardizzate in cui un’unica molecola va bene per tutti i pazienti. L’applicazione estensiva di questo modello ha purtroppo favorito l’insorgenza di resistenze multiple: in altre parole, gli antibiotici, usati indiscriminatamente, alimentano il problema che dovrebbero risolvere.
Negli ultimi anni il problema delle resistenze multiple ha raggiunto il livello di guardia in molti Paesi: non si tratta più di pochi casi isolati, ma di un’emergenza che minaccia di pervadere l’intero tessuto sanitario e che rischia di stravolgere il rapporto disinvolto che in Occidente abbiamo avuto fino a oggi nei confronti della maggior parte delle infezioni batteriche.
Il recente rapporto Bracing for Superbug, pubblicato dalle Nazioni Unite a inizio 2023, parla chiaro: la multiresistenza è una delle principali minacce di salute pubblica per tutto il pianeta ed entro il 2050 potrebbe causare la morte di milioni di persone. Trovare alternative all’uso di antibiotici è quindi un problema sempre più urgente, e una possibile soluzione potrebbe venire proprio dalla terapia fagica.
3. Quali passi sono necessari per implementare la terapia fagica?
Gli studi di d’Hérelle l’avevano già dimostrato un secolo fa: la terapia fagica è una valida strategia per contrastare le infezioni batteriche. Per metterla in atto in modo efficace è però indispensabile essere pronti a rivoluzionare i principi su cui si è basata la ricerca farmacologica dell’ultimo secolo.
Spiega Danielli:
Oggi la terapia fagica è tornata di moda ma deve confrontarsi con un mondo regolatorio e farmaceutico che è stato sviluppato per gli antibiotici: la produzione di antibiotici ha inseguito per decenni l’approccio “one size fits all”, il cui obiettivo è ottenere una molecola che vada bene per tutti i pazienti e per tutte (o quasi) le infezioni batteriche. La terapia fagica richiede invece un metodo completamente opposto, il cui successo si basa su un approccio personalizzato.
In altre parole, è inutile cercare un unico tipo di fago che sia in grado di eliminare tutti i ceppi di E. coli responsabili delle infezioni del tratto urinario: un simile fago, semplicemente, non esiste. Ci sono sicuramente diversi ceppi fagici che possono infettare e uccidere uno specifico ceppo di E. coli, ma gli stessi fagi potrebbero essere innocui verso altri ceppi della stessa specie batterica.
A prima vista, questo potrebbe sembrare un ostacolo invalicabile della terapia fagica, ma una soluzione c’è e si chiama terapia personalizzata.
4. Come funziona la terapia fagica personalizzata?
La terapia fagica con un approccio personalizzato richiede innanzitutto la disponibilità di fagoteche, cioè collezioni di fagi isolati da pazienti umani e catalogati per il tipo di patologia e di ceppo batterico contro cui sono efficaci. L’obiettivo della fagoteca è quello di costruire la raccolta più ampia possibile di fagi per ciascuna specie batterica infettiva che si vuole contrastare.
Il protocollo generale della terapia fagica personalizzata prevede cinque fasi:
- si isola dal singolo paziente il ceppo batterico antibiotico-resistente responsabile dell’infezione;
- si spedisce il campione di batteri al laboratorio che possiede una collezione di fagi (fagoteca);
- il laboratorio testa l’efficacia dei fagi e, mediante un rapido screening, identifica uno o più ceppi di fagi in grado di lisare e uccidere i batteri responsabili dell’infezione;
- il laboratorio della fagoteca prepara nell’arco di pochi giorni un cocktail con i diversi ceppi fagici risultati efficaci contro quel ceppo batterico specifico;
- il cocktail viene spedito all’ospedale che può somministrarlo al paziente per il trattamento dell’infezione antibiotico-resistente.
Dal punto di vista clinico, la terapia fagica può portare a diversi vantaggi. Infatti, i fagi non solo eliminano direttamente i batteri ma, così facendo, aiutano il sistema immunitario a riprendere il controllo della situazione e a eliminare in modo definitivo l’infezione cronica.
Inoltre, la terapia fagica può essere usata in combinazione con altre strategie: per esempio, è stato osservato che l’impiego dei fagi promuove la perdita della resistenza da parte dei batteri responsabili dell’infezione. I meccanismi molecolari di questo fenomeno sono tutti da scoprire, ma suggeriscono che, in alcuni casi selezionati, la combinazione tra fagi e antibiotici potrebbe essere la soluzione vincente.
5. A che punto è oggi la terapia fagica?
L’approccio personalizzato è quindi la chiave di volta che regge tutto l’impianto teorico e applicativo di una terapia fagica efficace, ma purtroppo è stato più volte sottovalutato, anche in tempi recenti. È questo il caso dello studio clinico PhagoBurn, che tra il 2015 e il 2017 ha testato la terapia fagica in pazienti che, in seguito a ustioni, avevano sviluppato infezioni cutanee multiresistenti dovute al batterio Pseudomonas aeruginosa. Purtroppo, l’efficacia della terapia è da subito apparsa molto bassa, tanto da costringere alla chiusura anticipata dello studio. Il motivo? Lo studio non ha tenuto conto della necessità di un approccio personalizzato e ha testato la terapia fagica proprio come se fosse un antibiotico qualsiasi. Molto probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso se lo studio clinico avesse tenuto conto della specificità dei singoli ceppi batterici responsabili dell’infezione in ogni singolo paziente e avesse selezionato i fagi più efficaci per trattare l’infezione in ciascuno di essi.
Per funzionare, la terapia fagica ha bisogno di un metodo personalizzato calibrato sul singolo paziente. Questa è la frontiera di questo tipo di terapia: solo un approccio personalizzato può fare la differenza.
Un approccio che richiede grandi investimenti e un cambio di mentalità, oltre che di infrastrutture. Ma i primi esempi di successo non mancano: per esempio, la terapia fagica personalizzata è stata di recente testata per infezioni polmonari multiresistenti da Mycobacterium abscessus, per un’infezione cronica multiresistente successiva all’impianto di una protesi e per un’infezione da Pseudomonas aeruginosa in un paziente in cui il trattamento con l’unico antibiotico funzionante non poteva essere proseguito perché aveva causato un danno renale acuto.
Finora, questi test sono stati limitati a casi compassionevoli, cioè persone in cui nessuna delle terapie standard funzionava più; tuttavia, qualcosa sta iniziando a muoversi e al momento c’è grande attesa per uno studio clinico canadese di fase I/II, avviato a maggio 2023, che impiega la terapia fagica personalizzata per il trattamento di infezioni urinarie croniche causate da batteri E. coli multiresistenti. A luglio 2023 la stampa canadese ha divulgato i risultati preliminari ottenuti in una paziente che convive con un’infezione urinaria cronica da 7 anni: già a 48 ore dall’inizio della terapia fagica, la paziente ha iniziato a mostrare i primi benefici.
E la sicurezza? Per ora, la terapia fagica sembra essere un trattamento sicuro e ben tollerato dai pazienti. Inoltre, ha un vantaggio notevole: quello di autolimitarsi; i fagi sono infatti parassiti obbligati dei batteri che infettano, e la loro diffusione si interrompe automaticamente quando l’infezione batterica viene eradicata dall’organismo.
6. Quali sono gli sviluppi futuri della terapia fagica?
Per testare e sviluppare il potenziale della terapia fagica sarà necessario risolvere i problemi logistici e normativi che ancora imbrigliano questo tipo di trattamento.
Danielli indica una possibile strada:
La realizzazione futura di questo modello terapeutico richiederà centri nazionali o strutture sovranazionali europee dotate delle più grandi fagoteche possibili: dopo aver ricevuto il campione del paziente, la fagoteca potrebbe individuare in pochi giorni i fagi efficaci e amplificarli, per poi rispedirli al paziente con un titolo virale certificato per la terapia.
Al momento, questa è una strada ancora tutta da costruire, soprattutto a causa di norme molto rigide sulla sperimentazione di terapie personalizzate non standard. Ma alcuni esempi iniziano ad affiorare in Australia, negli Stati Uniti e anche nel vicino Belgio (l’unico Paese europeo ad aver abbracciato questo approccio). In Italia, invece, l’uso della terapia fagica oggi non è possibile nemmeno per uso compassionevole, ma anche da noi qualcosa sta iniziando a muoversi almeno a livello di studi sperimentali.
Le sfide non mancano nemmeno sul versante biologico, dove si sta cercando di comprendere come modificare le caratteristiche molecolari dei fagi per ottenere terapie sempre più mirate ed efficaci. Al posto dei fagi naturali raccolti nelle fagoteche, in futuro questo stesso approccio potrebbe usare fagi ingegnerizzati, cioè modificati dalle biotecnologie per essere ancora più specifici. Per esempio, un fago ingegnerizzato potrebbe colpire non solo i batteri che proliferano in modo attivo, ma anche quelli quiescenti o le spore, che in genere sfuggono all’azione degli antibiotici e sono responsabili di infezioni persistenti.
Immagine di copertina: Wikimedia Commons (Emily Brown combined the pictures ‘Phage’ by Dr Graham Beards, also licensed under CC BY-SA 3.0., and ‘Bxz2_Plaque’ by Deborah Jacobs-Sera and Graham Hatfull).