La vita del botanico sovietico Nikolaj Vavilov e le tecniche di de-estinzione sono i protagonisti della ventesima puntata di Voci in Agenda. Nel primo podcast ascoltiamo le intuzioni scientifiche e le peripezie di uno degli scienziati più visionari del Ventesimo secolo; nel secondo cerchiamo di capire come si possono riportare alla luce specie estinte e perché è importante provare a farlo.
1. Vavilov e la genetica di Stato
Alle Isole Svalbard, oltre il Circolo Polare Artico, esiste una banca di semi. È incastonata dentro una montagna e funziona da backup di sementi provenineti da centinaia di banche di semi che oggi sono sparse in tutto il pianeta, spesso in luoghi vulnerabili sia dal punto di vista geopolitico, sia dal punto di vista ambientale. Si chiama Svalbard Global Seed Vault ed è una specie di forziere di biodiversità delle colture che utilizziamo da millenni per produrre il cibo che mangiamo. Colture che non possiamo permetterci di perdere soprattutto in questi anni, nei quali gli ecosistemi sono messi a dura prova dai cambiamenti del clima.
La prima persona che ebbe l’idea di costruire una banca di semi non lo aveva fatto guidato da puro spirito conservazionista, né era spinto dai mutamenti del clima. Cercare in giro per il mondo le varietà colturali originarie, raccoglierle e studiarle poteva servire per evitare o attenuare il peso enorme delle carestie che nei primi decenni del Novecento falcidiavano il suo Paese, l’Unione Sovietica. Il suo nome era Nikolaj Ivanovič Vavilov.
La storia di Vavilov che ci racconta Lara Rossi parte proprio da qui. È la storia di uno scienziato brillante che nel giro pochi anni rivoluzionerà con le sue idee il mondo della botanica, sarà ammirato da colleghi e celebrato da Lenin. Una storia di successo che però si incrina improvvisamente quando Stalin va alla guida del Partito Comunista, la politica diventa strumento di potere e per arginare il dissenso innescato dalle terribili carestie degli anni Trenta servono capri espiatori. Così per la macchina della propaganda la fama della scienza accademica incarnata da Vavilov è la responsabile della fame di quanti, a milioni, muoiono nelle campagne.
2. Riportare in vita specie estinte
Si chiama de-estinzione ed è la disciplina che si occupa di studiare la possibilità di creare un organismo che appartiene a una specie estinta o di un organismo che assomiglia molto a una specie estinta. I primi a provarci furono negli anni Trenta i fratelli Lutz e Heinz Heck con l’uro (Bos primigenius), l’antenato selvatico del bue domestico attuale, il cui ultimo esemplare morì nel 1627 in Polonia. Gli Heck decisero di usare una serie di incroci mirati per cercare di ricostruire, dalle mucche attuali, una razza bovina che si avvicinasse il più possibile all’antenato. Fu un fallimento. E non fu l’ultimo anche in tempi molto più recenti. Ma quali sono le specie estinte per cui vale la pena di tentare? Quali sono le condizioni necessarie per sperare che il recupero di una specie estinta abbia successo? Perché è importante provare a riportare in vita una specie estinta? Ci sono dei rischi associati a queste pratiche?
Lo abbiamo chiesto a Giulia Albani Rocchetti, ricercatrice post-doc al Dipartimento di Scienze dell’Università di Roma Tre, che si occupa di conservazione delle specie vegetali a rischio di estinzione. Abbiamo così scoperto che se per le specie animali si tratta di un’impresa ai limiti dell’impossibile perché il DNA della specie estinta è sempre degradato, per le piante il discorso è diverso. Che prima ancora delle tecniche biotecnologiche il segreto sono gli erbari, autentico forziere di potenziali candidati a nuova germinazione. E che le specie riportate in vita non avrebbero vita facile. Per sapere se siamo già riusciti nell’impresa, non vi resta che ascoltare l’intervista.
L’ingresso dello Svalbard Global Seed Vault (immagine: Wikipedia)