A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la capacità di trasformare le sostanze chimiche mediante processi industriali ha rivoluzionato la nostra vita, con innumerevoli benefici in molti settori, dalle scienze dei materiali all’agricoltura, dalla produzione di energia alla farmaceutica. Solo per fare alcuni esempi, l’industria chimica ha consentito di rendere molto più efficiente la produzione tessile, aumentare la resa dei raccolti agricoli grazie a fertilizzanti e pesticidi di sintesi, creare nuovi materiali economici e versatili come le plastiche, sintetizzare su larga scala i principi attivi di molti farmaci.

Negli ultimi decenni, tuttavia, la chimica industriale è stata anche guardata con sospetto. A causa dei rischi per la salute e per l’ambiente associati a numerose sostanze artificiali, si è diffusa l’idea che tutto ciò che non è naturale sia pericoloso, al punto che si parla di chemofobia per indicare il timore o il rifiuto verso la sintesi chimica. Del resto, gli impatti ambientali dei rifiuti di plastica o degli scarti dell’industria tessile, così come gli effetti negativi di fertilizzanti e pesticidi sugli ecosistemi sono ormai ben documentati. Persino i farmaci possono essere fonte di inquinamento, perché i residui che non vengono assimilati dal nostro organismo possono accumularsi nei fiumi e contaminare gli ambienti acquatici. A ben guardare, qualsiasi tecnologia umana porta con sé benefici e rischi, e la chimica industriale non fa eccezione.

Primavera silenziosa

L’ottimismo nei confronti dell’innovazione scientifica e tecnologica che aveva favorito lo sviluppo dell’industria chimica durante la seconda rivoluzione industriale venne messo per la prima volta in discussione di fronte agli orrori della Prima guerra mondiale, chiamata anche «la guerra dei chimici» per l’impiego bellico dei gas tossici. Tuttavia, fu solo all’inizio degli anni Sessanta che le preoccupazioni si estesero anche agli impatti ambientali delle sostanze chimiche di sintesi, a partire dai cosiddetti fitofarmaci, cioè erbicidi, insetticidi e fungicidi (spesso chiamati anche «pesticidi») usati dall’agricoltura moderna per proteggere i raccolti dagli organismi nocivi (insetti, animali, funghi e piante infestanti).

Il primo fitofarmaco a essere impiegato su larga scala fu il DDT che, grazie alla sua potente azione insetticida, venne usato per debellare le zanzare della malaria e per tenere alla larga gli insetti indesiderati dalle coltivazioni. Nel 1962, tuttavia, la biologa statunitense Rachel Carson, in un saggio intitolato Primavera silenziosa, svelò i rischi a lungo termine di questo efficace ma pericoloso insetticida. Carson scoprì infatti che, risalendo le catene alimentari, il DDT può accumularsi nei tessuti animali, causando gravi danni. Negli uccelli, per esempio, il guscio delle uova diventava così sottile da rompersi prima della schiusa, uccidendo l’embrione. Il titolo del saggio evocava il rischio che l’impiego massiccio del DDT potesse portare a una primavera senza più il canto degli uccelli. Ma poiché gli esseri umani sono al vertice di molte catene alimentari, l’accumulo di DDT è pericoloso anche per la nostra salute e per questo il suo impiego è stato vietato in molti Paesi.

Pietro Bassi ha dedicato a Primavera silenziosa di Rachel Carson una lunga recensione che puoi trovare qui.

L’incidente di Seveso

In Italia il dibattito sui rischi dell’industria chimica si accese in seguito a un incidente avvenuto il 10 luglio 1976 in una fabbrica di triclorofenolo (una sostanza usata nella produzione di diserbanti e fungicidi) che liberò sul comune di Seveso, in Brianza, una pericolosa nube tossica. Sebbene non fosse stato diramato alcun allarme, nei giorni seguenti le piante ingiallirono e si verificò un’anomala moria di piccoli animali. Quando diversi abitanti di Seveso cominciarono a manifestare irritazioni cutanee e alcuni bambini svilupparono una malattia della pelle chiamata cloracne, si diffuse il sospetto che fosse accaduto qualcosa di molto più grave di quanto non si voleva ammettere. Dovette trascorrere un’intera settimana dall’incidente prima che gli abitanti fossero informati del fatto che dalla fabbrica era fuoriuscita diossina, una delle sostanze più tossiche conosciute. Non restò che evacuare la popolazione e in seguito i quartieri più contaminati dovettero essere abbandonati, gli edifici abbattuti e le macerie seppellite.

La vicenda scosse l’opinione pubblica e accelerò l’approvazione di una normativa europea per prevenire gli incidenti industriali e riconoscere il diritto della cittadinanza a essere informata sui rischi a cui è esposta. Nel 1982 la Comunità Europea emanò quindi la Direttiva Seveso, imponendo l’adozione di misure più stringenti per regolare le produzioni industriali a rischio rilevante, con particolare attenzione alle fabbriche di sostanze chimiche pericolose.

Sul disastro ambientale di Seveso sono stati realizzati diversi podcast, come questo (gratuito), questo (per Audible) e questo (per il Post).

L’inquinamento chimico

Negli ultimi decenni le preoccupazioni per l’inquinamento chimico, dovuto sia alla dispersione di sostanze naturali che ad alte concentrazioni diventano nocive per gli organismi (come i metalli pesanti), sia di composti chimici artificiali non presenti in natura (come le plastiche), non hanno fatto che aumentare. Non si tratta di timori infondati poiché negli ultimi 50 anni abbiamo prodotto e immesso nell’ambiente almeno 80 mila nuove sostanze chimiche artificiali, spesso ignorando quali effetti potessero avere sugli ecosistemi e sulla salute umana. Dal 1950 a oggi la produzione di sostanze chimiche è aumentata di 50 volte e si prevede che triplicherà ancora entro il 2050.

In Italia una delle zone più a rischio è la Pianura Padana, dove si concentrano grandi città, industrie, produzioni agricole e allevamenti intensivi. Nel delta del fiume Po, che ospita habitat importanti come le zone umide, in cui vivono decine di specie di uccelli, si riscontrano elevati livelli di fitofarmaci e di altri agenti inquinanti. Risalendo le reti alimentari, gli inquinanti chimici possono inoltre accumularsi nei tessuti degli organismi che si trovano al vertice, come gli uccelli predatori.

Tra le sostanze più pericolose spiccano gli inquinanti organici persistenti, che includono fitofarmaci, diossine e diversi composti tossici presenti nei lubrificanti, nei solventi o in alcune produzioni industriali. Possono contaminare l’ambiente per tempi indefiniti, risalire le catene alimentari e raggiungere persino le regioni più remote trasportati dai venti e dalle correnti marine. Alcuni di questi inquinanti sono anche interferenti endocrini, cioè sostanze che il corpo umano scambia per ormoni. Legandosi ai recettori ormonali, interferiscono con il nostro sistema endocrino favorendo obesità, diabete, disturbi dell’apparato riproduttivo e alterazioni nello sviluppo cerebrale.

Un esempio di inquinanti organici persistenti è fornito dai PFAS, una classe di migliaia di sostanze artificiali impiegate per fabbricare materiali antiaderenti, schiume antincendio, abiti impermeabili, farmaci e cosmetici. Alcuni PFAS hanno effetti tossici e cancerogeni e sono così persistenti da essere soprannominati «inquinanti eterni».

Ai PFAS (e alla storia dell’amianto) abbiamo dedicato l’undicesima puntata del nostro podcast Voci in Agenda, che puoi trovare qui.

Regolamentare l’industria

In molti Paesi la crescente consapevolezza dei rischi per la salute e per l’ambiente causati dall’inquinamento chimico ha favorito l’adozione di normative per limitare la dispersione nell’ambiente degli agenti inquinanti. Grazie a leggi più severe, per esempio, negli ultimi decenni la qualità dell’aria in Europa è migliorata, sebbene lo smog sia ancora un grave problema in molte città.

Nel 2004 è inoltre entrata in vigore la convenzione di Stoccolma che vieta o limita l’impiego degli inquinanti organici persistenti. La convenzione riguarda però solo una quarantina di sostanze chimiche artificiali: una minima parte rispetto alle decine di migliaia introdotte sul mercato e di cui spesso si ignorano i possibili rischi. Come se non bastasse, rimuovere le sostanze pericolose dopo che sono state disperse in natura si rivela spesso impossibile. I policlorobifenili (o PCB), per esempio, una classe di inquinanti vietati già a partire dagli anni Settanta, si trovano ancora oggi in molti ecosistemi, persino in regioni sperdute come l’Artico, dove continuano a contaminare il sangue delle popolazioni Inuit e di molte specie animali come orche e orsi polari.

Per prevenire l’inquinamento chimico anziché essere costretti a rimediare a posteriori, nel 2007 l’Unione Europea ha approvato il regolamento REACH. Oltre a migliorare le conoscenze sui rischi delle sostanze chimiche già esistenti, il regolamento obbliga i produttori a verificare, prima dell’entrata in commercio, che le nuove sostanze non siano pericolose o, in alternativa, a indicare come si possono usare senza rischi eccessivi. Tuttavia, spesso è difficile prevedere come le nuove sostanze si comporteranno nell’ambiente, dove possono interagire con altri composti o generare pericolosi fenomeni cumulativi, come si pensa avvenga nel caso dei tanti pesticidi impiegati in agricoltura, i cui impatti negativi potrebbero sommarsi dando origine al cosiddetto «effetto cocktail».

Come possiamo difenderci

Se è vero che per limitare l’inquinamento chimico servirebbero anzitutto norme più stringenti, anche i nostri comportamenti individuali possono contribuire a proteggere noi stessi e l’ambiente. Ecco quel che possiamo fare per ridurre l’esposizione agli inquinanti chimici:

Preferire alimenti biologici, coltivati senza fitofarmaci e fertilizzanti artificiali.
Evitare imballaggi di plastica monouso, in particolare per alimenti e bevande, perché molte plastiche possono rilasciare sostanze chimiche pericolose.
Indossare i guanti e tenere le finestre aperte quando si fanno le pulizie domestiche, evitando detergenti troppo aggressivi.
A casa o in classe, arieggiare le stanze almeno due volte al giorno per ridurre la concentrazione degli inquinanti presenti nell’aria. Spesso è nei luoghi chiusi che respiriamo la maggior parte delle sostanze nocive: si parla in questo caso di inquinamento indoor.
Limitare l’impiego di deodoranti per ambienti, incensi e candele profumate che possono liberare nell’aria sostanze irritanti.
Non fumare: nel fumo di sigaretta si trovano circa 4.000 sostanze chimiche, alcune molto tossiche: dalla nicotina ai metalli pesanti, fino ai residui dei pesticidi usati per coltivare il tabacco.
Differenziare con cura i rifiuti pericolosi, come batterie, farmaci scaduti, oli esausti, vernici e altri prodotti chimici, portandoli negli appositi centri di raccolta dove possono essere smaltiti senza inquinare terreni e falde acquifere.

Alcuni consigli di ascolto su altri incidenti dell’industria chimica italiana

Sull’incidente della SLOI di Trento Andrea Brunello realizzato uno spettacolo teatrale disponibile in podcast (gratuito)
Sull’incidente all’Ipca di Ciriè, Rita Cantalino e Alessandro Coltré hanno realizzato una puntata del podcast Molecole (gratuito)
Sull’inquinamento del fiume Lambro, Irene Frassini e Marialaura Iazzetti hanno realizzato una puntata del podcast Milano racconta (gratuito)
Sull’inquinamento dell’Eternit a Casale MonferratoEnrico Bergianti ha realizzato una puntata per il nostro podcast Voci in Agenda (gratuito)