Secondo gli scienziati il clima terrestre oggi sta rapidamente cambiando; questo fenomeno deve preoccuparci, per varie ragioni.
In particolare, anche in una società altamente tecnologica come la nostra, abbiamo pur sempre bisogno di alimentarci; il cibo ce lo fornisce l’agricoltura, che dipende in modo decisivo proprio dalla benevolenza del clima.
Durante la storia dell’umanità, il destino di intere civiltà è stato condizionato dal clima e dalla sua evoluzione nel tempo.
Per poter valutare la rilevanza e le implicazioni dei cambiamenti climatici osservati oggi nel mondo, è bene aver chiaro che cos’è il clima e da quali fattori dipende.
Le differenze tra clima e meteo
- Il tempo atmosferico o meteorologico, spesso detto più semplicemente meteo, descrive le condizioni dell’atmosfera in un dato istante di tempo.
- Il clima è una media del meteo osservato per lunghi periodi di tempo; i climatologi di solito calcolano la media su un intervallo di 30 anni.
Questo significa che per identificare cambiamenti climatici si devono studiare dati meteorologici raccolti nell’arco di decenni. Non bastano, per esempio, un inverno particolarmente caldo o un’estate particolarmente fredda per far concludere che il clima sta cambiando.
Il meteo e il clima si differenziano anche per la scala geografica dei fenomeni da cui dipendono:
- il meteo è determinato da perturbazioni locali e transitorie della troposfera, lo strato dell’atmosfera più vicino al suolo;
- il clima invece è fortemente influenzato da fenomeni globali e permanenti, che riflettono il bilancio energetico dell’intero pianeta.
Il riscaldamento solare
La principale fonte di energia per il pianeta Terra è la radiazione che arriva dal Sole. La radiazione solare attraversa l’atmosfera e riscalda il suolo e la superficie del mare che, a loro volta, riemettono energia in forma di raggi infrarossi e cedono così calore all’aria.
Per ragioni geometriche il riscaldamento solare varia con la latitudine:
- in corrispondenza dell'equatore (agli equinozi) e dei tropici (ai solstizi) i raggi del Sole incidono perpendicolarmente sulla superficie terrestre e l’energia solare arriva molto concentrata: qui, perciò, si hanno i climi più caldi;
- vicino ai poli, invece, i raggi del Sole arrivano molto inclinati e l’energia solare si distribuisce su un’area maggiore: qui, perciò, si hanno i climi più freddi.
Per gli stessi motivi, siccome l’asse di rotazione terrestre è inclinato rispetto al piano dell’orbita di rivoluzione intorno al Sole, il ciclo delle stagioni fa sì che a ogni latitudine il clima sia più caldo in estate e più freddo d’inverno.
A ogni latitudine, inoltre, il clima è più freddo in montagna che al livello del mare: salendo di quota, infatti, la pressione atmosferica diminuisce, perciò l’aria si espande e, come conseguenza, si raffredda.
L’albedo
Non tutta la luce solare che investe il nostro pianeta, però, lo riscalda. Infatti, una frazione della radiazione solare chiamata albedo («bianchezza» in latino) viene riflessa nello spazio e quindi non è assorbita dalla superficie terrestre.
Un corpo nero che assorbe tutta la radiazione incidente ha il valore minimo di albedo, pari a 0, mentre uno specchio ideale, perfettamente riflettente, ha albedo massima pari a 1.
L’albedo delle nubi può arrivare fino a 0,7: questo significa che riflettono nello spazio anche più di due terzi della luce in arrivo dal Sole. L’albedo della sabbia dei deserti invece è intorno a 0,4 mentre quello di una foresta è inferiore a 0,2.
Il ciclo dell’acqua
Nel Sistema solare la Terra è l’unico pianeta ad avere in superficie acqua allo stato liquido, con oceani che coprono ben due terzi del globo.
L’energia della luce solare alimenta un ciclo dell’acqua che sposta continuamente questa sostanza e le fa cambiare stato di aggregazione: l’acqua degli oceani evapora, poi condensa nelle nubi e quindi ricade al suolo sotto forma di precipitazioni (pioggia, neve e grandine).
L’umidità dell’aria, legata alla concentrazione del vapore acqueo nell’atmosfera, è un fattore molto importante nel determinare il clima.
Il sistema climatico
I diversi climi sulla Terra sono il risultato del modo in cui il calore e l’umidità dell’aria sono ridistribuiti nelle diverse parti del globo attraverso l’interazione tra le cinque componenti del sistema climatico:
- l’atmosfera, con l’aria, il vento, le nubi e le precipitazioni;
- l’idrosfera, con l’acqua dei mari e degli oceani;
- la criosfera, con il ghiaccio delle calotte polari e del permafrost;
- la litosfera, con le rocce dello strato solido più esterno del pianeta;
- la biosfera, con tutti gli esseri viventi tra cui piante e animali.
Le celle convettive globali
Nella troposfera il calore riemesso dalla superficie terrestre è trasportato con il meccanismo della convezione:
- l’aria calda e umida è meno densa e tende a salire in quota;
- arrivata in quota, dove la temperatura è più bassa, l’aria si raffredda e l’umidità condensa a formare le nubi;
- quando l’aria diventa fredda e secca, è più densa e ridiscende verso il suolo.
Questa circolazione in celle convettive produce i venti che al suolo soffiano dagli anticicloni, le zone di alta pressione, verso i cicloni, le zone di bassa pressione in cui si concentrano le precipitazioni.
Su scala globale la convezione, insieme al ciclo dell’acqua e alla rotazione terrestre, genera tre grandi anelli di celle convettive, simmetrici nei due emisferi del pianeta, a cui sono associati venti costanti che ridistribuiscono il calore e l’umidità.
Le celle convettive globali danno origine a grandi «fasce climatiche» a cui sono associati i biomi terrestri, cioè i principali habitat di terraferma nel nostro pianeta. I deserti, per esempio, si concentrano intorno ai 30° di latitudine.
Il ruolo degli oceani
Gli oceani hanno una forte influenza sul clima, per due ragioni:
- determinano l’umidità dell’aria tramite l’evaporazione dell’acqua, che è maggiore dove l’oceano è più caldo;
- ridistribuiscono in tutto il globo l’energia ricevuta dal Sole con le correnti oceaniche.
Le correnti oceaniche sono grandi «nastri trasportatori» del calore: spostano acqua calda dai tropici verso i poli e acqua fredda in verso opposto; così regolano il clima, compensando il fatto che la radiazione solare è più intensa all’equatore e più debole ai poli.
Se non ci fossero le correnti oceaniche, ai tropici farebbe molto più caldo e vicino ai poli molto più freddo: gran parte del pianeta non sarebbe abitabile.
I fattori che possono perturbare il sistema climatico
Il sistema climatico è soggetto a perturbazioni (o forzanti) esterne che possono influenzare il clima. Esaminiamo per esempio alcune possibili perturbazioni del bilancio energetico terrestre.
- Le variazioni nella quantità di energia ricevuta dal Sole. Il grafico seguente mostra l’irradianza solare, ovvero l’energia per unità di tempo e superficie che arriva dal Sole. Nell’ultimo secolo la quantità di energia ricevuta dal Sole è cambiata in modo trascurabile. Anche le oscillazioni associate al ciclo solare che si ripete ogni 11 anni (curva a tratto sottile) sono inferiori allo 0,1% del valore medio dell’irradianza solare, chiamato costante solare. Sulla scala dei millenni, invece, possono verificarsi oscillazioni più significative, in particolare a causa delle variazioni dell’orbita della Terra attorno al Sole.
- Le variazioni dell’albedo. Il ghiaccio, per esempio, ha un’albedo di circa 0,4 mentre l’albedo dell’oceano è minore di 0,1. Perciò, quando la banchisa artica fonde, l’energia solare assorbita nelle regioni polari aumenta del 50% (perché la frazione di radiazione assorbita sale da 0,6 a 0,9).
- Le eruzioni vulcaniche (fenomeni endogeni, legati cioè al calore emesso dall’interno della Terra). Queste disperdono nella stratosfera grandi quantità di polveri e in casi estremi possono schermare, per periodi più o meno lunghi, una parte significativa della radiazione in arrivo dal Sole.
- Le attività umane. In particolare, il cambiamento della composizione dell’atmosfera, dovuto a emissioni di gas come l’anidride carbonica e il metano, può modificare il clima attraverso l’aumento dell’entità dell’effetto serra.
Gli effetti di retroazione
Il sistema climatico è caratterizzato da molti meccanismi di retroazione, o feedback. A seconda delle circostanze, questi possono smorzare i cambiamenti (retroazione negativa) e avere quindi un effetto stabilizzante, oppure amplificare i cambiamenti (retroazione positiva) e destabilizzare ancora di più il sistema.
Per esempio, quando l’atmosfera si riscalda, è in grado di contenere più vapore acqueo e possono formarsi più nubi. Questo fenomeno può avere due effetti opposti tra loro:
- le nubi hanno un’albedo maggiore rispetto al suolo, perciò riflettono più radiazione solare verso lo spazio; questo raffredda l’atmosfera (feedback negativo);
- le nubi, d’altra parte, intrappolano come una coperta il calore emesso dalla superficie terrestre; questo provoca un ulteriore riscaldamento dell’atmosfera (feedback positivo).
Quale tra i due effetti prevarrà? La risposta dipende dalla quota a cui si formano le nubi e dalle loro proprietà ottiche:
- nelle nubi alte e fredde (cirri) prevale l’effetto di blocco della radiazione termica terrestre e quindi la retroazione positiva che provoca riscaldamento;
- nelle nubi basse (strati e stratocumuli) è prevalente invece l’aumento dell’albedo e quindi la retroazione negativa che porta raffreddamento.
Non sappiamo, però, quale tipo di nubi si formerà con maggiore probabilità in un’atmosfera soggetta al riscaldamento globale.
Questo esempio illustra il fatto che il sistema climatico è intrinsecamente molto complesso. Di conseguenza, le previsioni degli scienziati riguardo all’evoluzione futura del clima sono inevitabilmente affette da importanti incertezze.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
Numerose osservazioni indicano che l’atmosfera terrestre e gli oceani si stanno riscaldando. Per capire come mai questo fenomeno preoccupa tanto gli scienziati è bene partire da ciò che sappiamo dei cambiamenti climatici del passato investigati dalla paleoclimatologia.
Per ricostruire l’evoluzione del clima nel tempo, i paleoclimatologi incrociano tra loro i dati derivanti da una grande varietà di ricerche scientifiche come, per esempio, lo studio dei pollini fossili, degli anelli di accrescimento degli alberi, dell’erosione e delle morene prodotte dai ghiacciai, dei sedimenti sui fondali oceanici e del «ghiaccio fossile» che si trova in profondità nelle calotte polari.
I cambiamenti climatici del passato
Da quando esiste il genere umano (comparso più di 2 milioni di anni fa, quando in Africa dagli australopitechi si sono evoluti i primi Homo habilis) il clima sulla Terra è cambiato molte volte.
Nel Quaternario – il periodo geologico più recente, iniziato circa 2,6 milioni di anni fa – si sono susseguite molte decine di ere glaciali, ciascuna formata da una fase fredda, la glaciazione, seguita da una fase più calda, detta periodo interglaciale.
Il grafico che segue, basato sullo studio dei sedimenti prelevati al fondo degli oceani, ricostruisce le oscillazioni della temperatura media globale durante le ere glaciali [1].
I valori assoluti sono stime soggette a notevoli incertezze, ma sicuramente in ogni era glaciale la temperatura è variata di parecchi gradi Celsius.
Nell’ultimo milione di anni le glaciazioni si sono ripetute a intervalli di circa 100 000 anni. Attenzione alla scala orizzontale del grafico: quelle che a prima vista sembrano rapide variazioni della temperatura media hanno richiesto in realtà migliaia o decine di migliaia di anni. Si è trattato quindi di fenomeni lenti e graduali rispetto alla scala dei tempi della vita umana.
Molte informazioni sul clima del passato ci arrivano da uno straordinario «archivio naturale»: il ghiaccio delle calotte polari, che è via via più antico a mano a mano che si scende in profondità.
In Antartide i ricercatori hanno trivellato fino a migliaia di metri di profondità e hanno potuto così estrarre campioni cilindrici («carote») da strati di ghiaccio originati da neve caduta centinaia di migliaia di anni fa.
Quando quella neve si è compattata, parte dell’aria presente tra i fiocchi è rimasta intrappolata nel ghiaccio: con il carotaggio, così, oggi si possono recuperare anche bolle di «aria fossile» che forniscono informazioni sulla composizione dell’atmosfera del lontano passato.
L’analisi quantitativa dei diversi isotopi dell’idrogeno presenti permette di stimare in modo indiretto la temperatura all’epoca in cui il ghiaccio si è formato. Dalle bolle d’aria invece si può ricavare una misura diretta della concentrazione dei diversi gas nell’atmosfera dell’epoca.
Il grafico che segue mostra i dati ottenuti in questo modo per un periodo di tempo di oltre 400 000 anni, che copre le ultime quattro ere glaciali [2].
L’andamento della temperatura (grafico in alto) è in ottimo accordo con la porzione corrispondente della figura precedente, basata su dati relativi ai sedimenti oceanici.
Qui in più si può notare una chiara correlazione, attraverso i millenni, tra le variazioni della temperatura e quelle della concentrazione di CO2 atmosferica (grafico in basso). Da questi dati non si può però dedurre un rapporto causale tra le due grandezze: in altre parole, potrebbe essere la temperatura a influenzare la concentrazione di CO2, oppure viceversa.
La figura mostra una repentina impennata nella curva della concentrazione di CO2 all'approssimarsi dei tempi odierni. Come vedremo quando tratteremo dell'effetto serra, negli ultimi decenni la concentrazione di CO2 atmosferica è «esplosa» raggiungendo valori senza precedenti, ben al di fuori della scala del grafico qui sopra.
Dalle ere glaciali all’Antropocene
Durante le glaciazioni l’emisfero nord terrestre aveva l’aspetto mostrato nella figura seguente.
La calotta polare artica si estendeva su tutta l’Europa settentrionale e l’arco delle Alpi era ricoperto da giganteschi ghiacciai.
A causa del congelamento di parte dell’acqua degli oceani, il livello del mare era molto inferiore a quello attuale. Per esempio, l’Adriatico era prosciugato a nord di Ancona e la Sicilia si estendeva fin quasi alla costa settentrionale africana.
La fine dell’ultima glaciazione, circa 12 000 anni fa, segna il passaggio dal Pleistocene all’Olocene, l’epoca geologica che segna l’inizio del periodo interglaciale in cui viviamo oggi.
Nell’Olocene la nostra specie è rimasta l’unica superstite nel genere umano, dopo l’estinzione degli Homo floresiensis, circa 50 000 anni fa, e degli Homo neanderthalensis, circa 35 000 anni fa.
L’Olocene ha visto la diffusione di Homo sapiens in tutto il globo, il passaggio dal nomadismo basato sulla caccia alla vita stanziale basata sull’agricoltura e la nascita di varie civiltà nei diversi continenti.
Più volte la storia delle società umane ha risentito di fluttuazioni locali del clima, ma globalmente le condizioni climatiche sono rimaste quasi costanti per millenni.
Lo sviluppo tecnologico dell’umanità, che per millenni è stato lento e graduale, ha poi avuto un’accelerazione impetuosa negli ultimi due secoli.
A partire dalla Rivoluzione industriale dell’Ottocento le nostre attività hanno iniziato ad avere un impatto globale sull’atmosfera e sugli oceani, in particolare con l’emissione dei gas prodotti dalla combustione del carbone, del gas naturale e dei derivati del petrolio.
Secondo molti studiosi la metà del Novecento segna il passaggio dall’Olocene all'Antropocene, la nuova epoca in cui l'umanità ha invaso tutti gli ecosistemi influenzando perfino la geologia del pianeta: nei sedimenti del secolo scorso, infatti, si rinvengono tracce indelebili dei radionuclidi dispersi in tutto il globo dalle esplosioni delle bombe atomiche e termonucleari.
Nell’Antropocene anche il clima ha iniziato a cambiare in modo marcato, con un’evoluzione rapida e preoccupante che, secondo la grande maggioranza degli scienziati, è conseguenza delle attività umane.
L’aumento della temperatura media globale
Da più di un secolo i meteorologi raccolgono quotidianamente dati sulle condizioni dell’atmosfera in tutto il mondo. Oggi, perciò, abbiamo informazioni accurate sull’evoluzione del clima, attraverso la media dei dati meteo registrati nell’arco di molti decenni.
Il grafico seguente, realizzato dall’agenzia spaziale degli Stati Uniti (la NASA), si basa su dati raccolti in più di 20 000 stazioni meteorologiche distribuite in tutto il mondo.
Ogni punto è il valore della temperatura media globale relativo a un anno. Le barre verticali rappresentano l’errore stimato sulle misure. La curva rossa è una media su 5 anni, aggiunta per accompagnare l’occhio smussando le variazioni da un anno all’altro.
Il grafico mostra che negli ultimi 50 anni, dal 1970 al 2020, la temperatura della superficie terrestre si è innalzata di circa 1 °C.
Un riscaldamento globale di 1 °C potrebbe sembrare poca cosa, ma abbiamo visto che nella storia naturale del clima questo tipo di variazione normalmente richiede migliaia di anni.
Ciò che preoccupa i climatologi è la rapidità del fenomeno, il fatto che l’aumento di temperatura sia avvenuto in pochi decenni ― un battito di ciglia nella storia geologica del pianeta ― e non mostri alcun segno di volersi arrestare.
Il riscaldamento è maggiore nell’Artico
Il planisfero che segue mostra la distribuzione geografica dei dati raccolti dalla NASA; i valori medi della temperatura nell’ultimo decennio sono confrontati con quelli misurati nel periodo 1951-1980.
Sugli oceani l’aumento della temperatura generalmente è minore di 1 °C, mentre è maggiore su gran parte delle masse continentali.
Il dato più eclatante però è il riscaldamento delle regioni artiche, dove la temperatura media è aumentata anche di 4 °C.
Probabilmente questo fenomeno è dovuto a una tra le retroazioni che caratterizzano il sistema climatico, quella legata all’albedo, cioè al potere riflettente delle superfici:
- il ghiaccio riflette molta più radiazione solare rispetto all’acqua dell’oceano o alle rocce;
- quando fa più caldo, il ghiaccio artico fonde e lascia esposte l’acqua dell’oceano o le rocce sottostanti;
- l’albedo così si riduce e la superficie terrestre assorbe una frazione maggiore dell’energia solare;
- si ha quindi un feedback positivo: quando la temperatura sale, il riscaldamento viene favorito e la temperatura sale ancora di più.
Una conseguenza eclatante del riscaldamento dell’Artico è proprio l’aumento della fusione delle calotte polari.
La figura seguente mostra che cosa sta accadendo in Groenlandia.
Soltanto 30 anni fa la fusione estiva della calotta superficiale era limitata ad alcune zone costiere, mentre oggi l’area in cui d’estate i ghiacci fondono si estende su più di un milione di kilometri quadrati (oltre 3 volte la superficie dell’Italia).
In autunno poi la calotta congela di nuovo, ma intanto una grande massa di acqua da fusione defluisce fino alla costa e si riversa nell’Oceano Atlantico.
Il ritiro dei ghiacciai
Un effetto evidente del riscaldamento globale è il ritiro dei ghiacciai, fenomeno che è in corso da decenni in tutto il mondo.
Il confronto tra le due fotografie qui sotto, per esempio, permette di rendersi conto di come è cambiato in soli 30 anni il ghiacciaio del Lys, nel massiccio del Monte Rosa. L’arretramento medio in questo periodo è stato di decine di metri ogni anno.
Le linee rosse evidenziano i fronti delle lingue glaciali, che oggi sono confinate al di sopra dei 3000 metri di altitudine.
Gli studiosi temono che nei prossimi decenni quasi tutti i ghiacciai delle Alpi scompariranno, con la sola eccezione di quelli situati sopra i 4000 metri di quota.
Se ciò accadrà, si perderà un prezioso serbatoio di acqua dolce per quella metà della popolazione italiana che vive nella Pianura Padana.
L’innalzamento del livello del mare
Un’altra conseguenza del riscaldamento globale - per ora non evidente a occhio nudo, ma confermata da solidi dati scientifici – è l’innalzamento del livello del mare.
In passato il livello del mare si misurava in base ai limiti raggiunti durante l’anno dalle maree nelle località costiere. Oggi lo si può misurare con estrema precisione, grazie ai satelliti artificiali, con tecniche come il LIDAR.
Il grafico mostra che negli ultimi 140 anni il livello medio del mare è aumentato di circa 25 centimetri. Il ritmo dell’aumento attualmente è di 3,5 millimetri all’anno e i dati indicano che sta crescendo.
L’aumento delle temperature fa innalzare il livello del mare per due ragioni: la dilatazione termica dell’acqua, quando si riscalda, e l’aggiunta all’acqua oceanica di quella proveniente dalla fusione dei ghiacciai e delle calotte polari.
Per avere un’idea quantitativa del primo fenomeno, a 10 °C il coefficiente di espansione termica dell’acqua vale 10-4/°C, cioè un decimillesimo per grado Celsius. Perciò, se una colonna d’acqua di base fissata e alta 1500 metri (la profondità media del Mediterraneo) si riscalda di 1 °C, l’altezza della colonna sale di 15 cm.
Al giorno d’oggi la fusione dei ghiacci contribuisce a circa la metà dell’aumento del livello del mare osservato. Come abbiamo visto, però, si tratta di un fenomeno in rapido aumento; la sola calotta glaciale della Groenlandia, se dovesse fondere interamente, farebbe innalzare il livello degli oceani di 7-8 metri.
Al ritmo del trend attuale il livello del mare salirebbe di altri 30 cm entro il 2100, ma molti climatologi temono che i meccanismi di feedback del sistema climatico possano accelerare il fenomeno. Entro la fine del secolo l’innalzamento del livello del mare potrebbe allora raggiungere i 2 metri, un’eventualità che avrebbe conseguenze disastrose per le popolazioni delle zone costiere di tutto il mondo.
Note
[1] Per produrre questo grafico le paleoclimatologhe Lorraine Lisiecki e Maureen Raymo hanno elaborato i dati ottenuti analizzando gli isotopi dell’ossigeno presenti nei gusci calcarei dei foraminiferi (protisti microscopici) in oltre 50 campioni di sedimenti oceanici e ipotizzando una correlazione con le variazioni periodiche dell’orbita terrestre (cicli di Milankovitch). Figura adattata dall’articolo originale del 2005.
[2] Valori desunti dai campioni di ghiaccio estratti con il carotaggio nella base russa Vostok, in Antartide. Figura adattata da Petit et al, Nature 1999.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
L’evoluzione della temperatura media globale e della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera negli ultimi 400 000 anni.
Come sta cambiando il livello del mare. Fonte: CSIRO, Agenzia scientifica nazionale dell’Australia
L’evoluzione della temperatura media globale negli ultimi 140 anni. Fonte: NASA Goddard Institute for Space Studies
Il riscaldamento globale nelle diverse regioni del mondo. Fonte: NASA Goddard Institute for Space Studies
L’espressione effetto serra indica l’accumulo di energia solare che fa aumentare la temperatura in un sistema chiuso. Il nome deriva dal fatto che un esempio di questo fenomeno si ha nelle serre dove coltiviamo le piante quando fa freddo.
Con un meccanismo diverso l’effetto serra si verifica in modo naturale anche nell’atmosfera terrestre, perché questa contiene particolari gas – detti appunto gas-serra – capaci di catturare energia e riscaldare la superficie del pianeta.
L’effetto serra naturale è benefico, perché rende possibile la vita sul nostro pianeta. Se però l’entità del fenomeno aumenta, l’atmosfera si surriscalda e il clima cambia, con possibili conseguenze disastrose per la biosfera.
La spiegazione più probabile del riscaldamento globale che si osserva oggi nel mondo è proprio un aumento dell’effetto serra.
Questo aumento, come vedremo, è antropogenico, cioè provocato dalle attività umane: stiamo infatti riversando nell’atmosfera quantità enormi di gas-serra, che si aggiungono a quelli già presenti e generano effetto serra addizionale.
Per inquadrare il problema è utile esaminare il bilancio energetico della superficie terrestre, che è piuttosto complesso. Come introduzione, consideriamo ciò che accade in un sistema semplice poco lontano da noi, il nostro satellite naturale.
Sulla Luna non c’è clima
Il bilancio energetico della superficie lunare è molto semplice:
- dal Sole arriva radiazione che in media, nell’anno e per ogni metro quadrato di superficie lunare, rilascia una potenza (la quantità di energia solare in arrivo ogni secondo) di 340 watt [1];
- la Luna ha un’albedo che vale circa 0,12: riflette infatti nello spazio 40 W/m2, che è il 12% dei 340 W/m2 che riceve dal Sole; di notte vediamo la Luna proprio grazie a questa luce riflessa;
- i restanti 300 W/m2 della potenza solare sono assorbiti dalla superficie lunare, che si riscalda e li riemette nello spazio come radiazione infrarossa, a frequenza più bassa rispetto alla luce visibile che ha ricevuto.
Sulla Luna si ha una fortissima escursione termica: il suolo lunare esposto alla luce del Sole si riscalda fino a 130 °C, ma quando è in ombra si raffredda rapidamente fino a -170 °C.
Così le diverse parti di una stessa roccia ― o della tuta di un astronauta ― possono in un dato istante avere temperature che differiscono tra loro di 300 °C.
Tutto questo accade perché la Luna non ha un’atmosfera, né masse d’acqua come gli oceani terrestri. Perciò sulla Luna non ci sono fenomeni meteo come quelli terrestri (vento, precipitazioni, correnti) in grado di ridistribuire l’energia solare, e quindi non si può parlare di clima lunare.
Il bilancio energetico della superficie terrestre
La Terra invece ha un’atmosfera, che funge da importante «cuscinetto» tra il momento in cui l’energia solare arriva sul pianeta e quello in cui viene riemessa nello spazio. Insieme alle correnti oceaniche l’atmosfera terrestre determina il clima: con i venti distribuisce il calore in tutto il globo e attenua così anche l’escursione termica tra il dì e la notte.
La presenza dell’atmosfera rende il bilancio energetico terrestre molto più articolato di quello lunare; una versione semplificata è illustrata dalla figura seguente.
A sinistra il disegno mostra la radiazione solare in arrivo. Terra e Luna in media sono alla stessa distanza dal Sole, quindi anche la Terra riceve una potenza solare media annuale di 340 W/m2.
Di questo flusso di energia le nubi e il pulviscolo atmosferico riflettono nello spazio 75 W/m2, poi la superficie del pianeta riflette altri 25 W/m2. La Terra ha quindi un’albedo di circa 0,3: riflette 100 W/m2 dei 340 W/m2 che riceve dal Sole.
I restanti 240 W/m2 riscaldano il pianeta: un terzo (80 W/m2) è assorbito direttamente dall’atmosfera, mentre gli altri due terzi (160 W/m2) vanno a riscaldare la superficie terrestre (e sono assorbiti per lo più dall’acqua degli oceani).
In alto a destra il disegno mostra che anche la radiazione che lascia il pianeta ammonta a 240 W/m2. In condizioni normali, infatti, il bilancio energetico terrestre è in equilibrio: in ogni dato intervallo di tempo, tutta l’energia solare assorbita viene riemessa nello spazio.
Va notato che in questo bilancio sia la superficie terrestre sia l’atmosfera sono in equilibrio termico [2]:
- la superficie riceve 480 W/m2 (160 W/m2 dal Sole e 320 W/m2 dall’atmosfera) ed emette 480 W/m2 verso l’atmosfera;
- l’atmosfera riceve 560 W/m2 (80 W/m2 dal Sole e 480 W/m2 dalla superficie terrestre) ed emette 560 W/m2 (320 W/m2 verso la superficie e 240 W/m2 verso lo spazio esterno).
I due grandi flussi di energia sulla destra del disegno sono la chiave per capire il clima terrestre e i suoi cambiamenti.
La temperatura del pianeta è tale che la sua superficie emette energia in forma di radiazione infrarossa, irraggiandola verso l’alto.
Questa radiazione che noi non vediamo (ha frequenza molto minore rispetto alla luce visibile) non attraversa liberamente l’atmosfera: infatti l’aria contiene i cosiddetti gas-serra, che «catturano» la radiazione infrarossa e la riemettono in tutte le direzioni, quindi anche verso la superficie terrestre.
La radiazione di ritorno emessa dai gas-serra riscalda ulteriormente la superficie terrestre, che così emette altra radiazione infrarossa verso l’alto, per poi vedersela rispedire di nuovo in gran parte verso il basso dall’atmosfera. Questo «ping pong radiativo», che impedisce al pianeta di raffreddarsi troppo, è l’effetto serra.
L’atmosfera terrestre dunque è un serbatoio di energia solare: la imprigiona e l’accumula, come una coperta protettiva intorno alla Terra, prima di riemetterla nello spazio.
C’è un dato che merita di essere sottolineato: la potenza della radiazione di ritorno (320 W/m2) è due volte più grande di quella solare che riscalda direttamente la superficie del pianeta (160 W/m2)! Ciò fa capire quanto l’effetto serra sia determinante per il nostro clima.
I gas-serra
I principali gas-serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica o diossido di carbonio (CO2) e il metano (CH4). Altri gas-serra di rilievo sono il protossido di azoto (N2O), l’ozono (O3) e composti come i CFC (clorofluorocarburi).
Le molecole di questi gas, quando sono investite dai raggi infrarossi, «risuonano» un po’ come la cassa armonica di una chitarra quando si pizzica una corda. Assorbono così l’energia della radiazione, entrano in uno stato di vibrazione elettromagnetica e poi tornano al loro stato normale emettendo altra radiazione infrarossa in tutte le direzioni.
In questo modo i gas-serra intrappolano il calore emesso dal pianeta, impedendogli di lasciare l’atmosfera e disperdersi nello spazio.
Esistono anche gas-serra, come il monossido di carbonio (CO), che non producono un effetto serra significativo, perché sono molto reattivi e così rimangono nell’atmosfera per poco tempo.
L’anidride carbonica e il metano invece possono restare nell’aria per decenni o per secoli e il vapore acqueo è continuamente rifornito all'atmosfera dal ciclo naturale dell'acqua.
L’effetto serra e la vita
Senza effetto serra non ci sarebbe vita sulla Terra.
Si può calcolare infatti che, se l’effetto serra non esistesse, la temperatura media della superficie terrestre sarebbe -18 °C, come in un congelatore: il nostro pianeta sarebbe un deserto di ghiaccio.
Grazie all’effetto serra naturale, invece, la temperatura media è +14 °C e la presenza di acqua liquida rende possibili le reazioni biochimiche caratteristiche degli organismi viventi.
L’aria è fatta per quasi quattro quinti (78%) di azoto e per più di un quinto (21%) di ossigeno, con poco meno dell’1% di argon. Questi tre gas non sono gas-serra: sono trasparenti al passaggio della radiazione infrarossa.
Dobbiamo perciò la vita alle «impurezze» dell’atmosfera: i gas-serra, pur essendo presenti nell’aria soltanto in tracce, hanno come abbiamo visto un impatto molto importante sul bilancio energetico terrestre.
Ciò significa anche, però, che l’effetto serra diventa più intenso, con conseguenze importanti sul clima, se la concentrazione dei gas-serra nell’aria aumenta; ed è proprio quello che sta accadendo oggi.
La curva di Keeling
Nel 1958 il geochimico statunitense Charles David Keeling installò un accurato strumento di sua costruzione nell’osservatorio di Mauna Loa alle isole Hawaii, in mezzo all’Oceano Pacifico, e iniziò a misurare la concentrazione di anidride carbonica nell’aria.
Keeling continuò a seguire le misurazioni per quasi cinquant’anni; dopo la sua morte nel 2005 l’attività prosegue ancora oggi a cura del figlio Ralph, climatologo.
I dati aggiornati quotidianamente si possono trovare online e formano la curva di Keeling, uno tra i risultati più belli e importanti nella storia della ricerca scientifica.
La curva di Keeling è importante perché fotografa in tempo reale un fenomeno probabilmente decisivo per il cambiamento climatico in corso sulla Terra.
Il forte aumento della concentrazione di CO2 nell’aria, cresciuta di ben un terzo negli ultimi 60 anni, produce infatti certamente un aumento dell’effetto serra: è quindi una probabile causa del surriscaldamento globale osservato oggi nell’atmosfera.
La curva di Keeling è anche un risultato sperimentale di grande bellezza, perché misura il «respiro» della biosfera: le sue oscillazioni regolari, infatti, riflettono il metabolismo delle foreste dell’emisfero boreale.
In primavera la concentrazione della CO2 inizia a diminuire: la vegetazione sta mettendo le foglie e inizia a fare la fotosintesi, che ha l’anidride carbonica come reagente.
D’estate la CO2 diminuisce ancora, poi risale in autunno e in inverno quando le foglie cadono; quindi il ciclo ricomincia.
Nell’emisfero australe la sequenza delle stagioni è opposta ma l’effetto sulla curva globale è trascurabile, perché ci sono meno terre emerse e molta meno vegetazione.
Mai prima così tanta CO2 nell’aria
Le oscillazioni stagionali della curva di Keeling sono interessanti, ma ciò che conta per il clima è il valore medio annuale della concentrazione di CO2 nell’aria, che come abbiamo visto sta rapidamente aumentando nel tempo.
Per capire quanto sia straordinario questo aumento, è bene osservare attentamente il grafico seguente: mostra la concentrazione di CO2 misurata nell’«aria fossile» imprigionata nei ghiacci profondi della calotta antartica.
Le trivellazioni effettuate nell'ambito del progetto di ricerca europeo EPICA hanno raggiunto strati di ghiaccio formatosi 800 000 anni fa e hanno evidenziato che mai, da allora fino alla Rivoluzione industriale dell’Ottocento, nell’aria ci sono state più di 300 parti per milione di CO2.
La parte finale della curva, all’estrema destra del grafico, mostra che cosa è accaduto negli ultimi 150 anni (gli ultimi 60 sono misurati dalla curva di Keeling): la concentrazione di CO2 è schizzata verso l’alto, in un tempo brevissimo rispetto alla «normale» scala dei tempi delle oscillazioni associate alle ere glaciali.
Oggi l’atmosfera contiene più di 400 parti per milione di CO2; in altre parole, l’anidride carbonica rappresenta lo 0,04% dell’aria.
Mai prima così tanto metano nell’aria
Nel caso del metano la concentrazione nell’aria è addirittura più che triplicata rispetto al valore medio degli ultimi 800 000 anni. Come mostrano i dati della figura seguente, l’aumento oggi continua a ritmi sostenuti: +10% negli ultimi 30 anni.
Nell’aria oggi ci sono meno di 2 parti per milione di metano (0,0002%), quindi la sua concentrazione è duecento volte minore rispetto a quella dell’anidride carbonica.
Come gas-serra però il metano è 25 volte più efficiente rispetto alla CO2, perciò il suo ruolo nell’incremento dell’effetto serra sta diventando significativo.
E il vapore acqueo?
Il vapore acqueo è il principale gas-serra, responsabile all’incirca del 50% dell’effetto serra naturale nell’atmosfera terrestre.
Dalla termodinamica sappiamo che l’aria, quando si riscalda, può ospitare una quantità maggiore di vapore acqueo prima di saturarsi: per ogni aumento di temperatura di 1 °C la concentrazione del vapore acqueo nell’atmosfera aumenta del 7% (lo prevede l’equazione di Clausius–Clapeyron).
L’effetto serra è quindi soggetto a un pericoloso feedback positivo: se aumenta, fa salire la temperatura; ciò fa aumentare la concentrazione del vapore acqueo, che produce un effetto serra ancora maggiore.
L’effetto serra aumenta: colpa delle nostre emissioni
Nel valutare il bilancio energetico terrestre abbiamo supposto che esso fosse in pareggio, con flussi netti uguali in entrata e in uscita.
Attualmente, in realtà, non è così: le evidenze del riscaldamento globale indicano che la potenza emessa dal pianeta oggi è minore di quella solare che lo riscalda.
Secondo i risultati degli studi quantitativi più recenti, il ritmo osservato di aumento della temperatura media globale corrisponde a uno squilibrio nei flussi di energia dell’ordine di 2 W/m2. La Terra cioè assorbe 240 W/m2 di energia solare ma riemette nello spazio soltanto 238 W/m2.
In altre parole, per spiegare il riscaldamento globale in atto basta supporre che la radiazione di ritorno dovuta all’effetto serra sia aumentata di 2 W/m2 (meno dell’1% del suo valore-base, 320 W/m2).
Questo forzante radiativo, capace di provocare importanti cambiamenti del clima, è esattamente ciò che ci si deve aspettare come conseguenza dell’aumento della concentrazione dei gas-serra nell’atmosfera.
L’incremento dell’effetto serra è dovuto soprattutto all’anidride carbonica che emettiamo nell’aria:
- la maggior parte delle nostre emissioni - oltre tre quarti - proviene dall’uso dei combustibili fossili che bruciamo nelle centrali termoelettriche per produrre energia, negli impianti di condizionamento dell’aria e nei mezzi di trasporto con motore termico; la combustione del carbone, del gas metano o dei derivati del petrolio, infatti, libera CO2 nell’aria;
- altra CO2 è un prodotto delle reazioni chimiche sviluppate nei processi industriali, in particolare durante la produzione del cemento;
- la deforestazione contribuisce alle emissioni quando si distrugge la vegetazione con incendi; le piante rimosse, inoltre, smettono di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera; il caso più drammatico è quello della foresta pluviale dell’Amazzonia.
Nel complesso oggi rilasciamo nell’aria circa 40 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno, ossia circa 1300 tonnellate di CO2 al secondo. Per dare un’idea del significato di questi numeri [3]:
- è come se 10 miliardi di auto a benzina – più di una per abitante del pianeta, bambini compresi – ogni anno facessero un giro di 40 000 km intorno al pianeta;
- oppure è come se ogni secondo, giorno e notte, liberassimo nell’atmosfera l’equivalente di 200 grandi mongolfiere piene di anidride carbonica.
Stiamo alterando il ciclo del carbonio
Ogni persona in media emette, attraverso l’aria espirata, 1 kg di CO2 al giorno: è prodotta dalla respirazione cellulare, il processo di combustione con cui le nostre cellule si procurano l’energia necessaria per vivere.
Dunque l’umanità, 8 miliardi di persone, ogni anno emette circa 3 miliardi di tonnellate di CO2: è quasi un decimo del totale delle emissioni della nostra civiltà industriale.
E stiamo parlando soltanto di noi: se si contassero tutti gli altri animali viventi sulla Terra, la quantità di CO2 emessa sarebbe ben superiore a quella dovuta alle attività umane.
Dove sta allora il problema? Perché preoccuparsi tanto delle emissioni antropogeniche?
Il fatto è che tutto il carbonio emesso dagli animali proviene dal loro cibo, cioè dalle piante, che l’hanno prodotto pochi mesi o anni prima con la fotosintesi, usando come reagente anidride carbonica che hanno estratto dall’aria.
Le emissioni legate alla respirazione fanno dunque parte di un ciclo del carbonio che ricicla continuamente la CO2, senza alterare la sua concentrazione nell’atmosfera.
Il problema costituito dall’impiego dei combustibili fossili è riassunto nell’aggettivo fossili: estraiamo il loro carbonio dal sottosuolo, dov’era imprigionato da decine o centinaia di milioni di anni, e lo riversiamo nell’aria.
Con le emissioni prodotte bruciando i combustibili fossili, perciò, stiamo modificando in modo significativo il naturale ciclo del carbonio che determina il bilancio di CO2 nell’atmosfera; lo dimostrano i dati della curva di Keeling.
Un confronto appropriato per le nostre emissioni è quello con le esalazioni prodotte dai vulcani, che pure liberano nell’aria carbonio imprigionato nel sottosuolo. Secondo le stime dei geologi ogni anno le zone vulcaniche emettono in media 300 milioni di tonnellate di CO2: è dunque meno dell’1% di quanto stiamo emettendo noi.
Le emissioni di metano
Anche nel caso del metano appare chiaro che l’aumento della sua concentrazione nell’atmosfera è antropogenico.
Grandi quantità di gas naturale (costituito per lo più da CH4) sono rilasciate infatti nell’aria quando si estrae il petrolio. Inoltre le reti di distribuzione che trasportano il gas fino alle nostre case hanno perdite non trascurabili.
Un’altra fonte importante di metano sono gli allevamenti di bovini e ovini; nel loro apparato digerente infatti vivono in simbiosi batteri metanogeni, che li aiutano a digerire la cellulosa.
Oggi nel mondo i ruminanti sono più di 1 miliardo e si stima che da loro provenga quasi il 10% delle emissioni antropogeniche di gas-serra (per confronto, i mezzi di trasporto sono responsabili del 15% circa del totale).
Le discariche di rifiuti danno un ulteriore contributo al rilascio di metano nell’atmosfera.
Un caso molto preoccupante è quello del permafrost, il suolo ghiacciato delle regioni artiche, che imprigiona enormi quantità di metano.
Con il pronunciato riscaldamento in corso vicino al polo nord, il suolo d’estate fonde e il permafrost rilascia metano nell’atmosfera, alimentando ancora di più l’effetto serra.
Questo è un altro esempio di feedback positivo, cioè di circolo vizioso che si autoalimenta e rischia perciò di far accelerare il cambiamento climatico.
Cerchiamo di non finire come Venere
Venere è il «pianeta gemello» della Terra: ha quasi le stesse dimensioni e orbita non lontano da noi, un po’ più vicino al Sole.
Nonostante il nome romantico, però, Venere è un inferno avvolto da nubi perenni e con condizioni ambientali terribili: la superficie ha una temperatura media di 460 °C, è il luogo più caldo del Sistema solare al di fuori del Sole.
Questo è il risultato di un effetto serra estremamente intenso, dovuto al fatto che l’atmosfera venusiana è fatta per più del 95% di anidride carbonica.
L’esempio di Venere deve servirci da ammonimento: non possiamo lasciar aumentare l’effetto serra, perché i meccanismi di retroazione del sistema climatico potrebbero innescare una spirale di riscaldamento incontrollabile.
Ecco perché la riduzione radicale delle nostre emissioni di gas-serra deve essere la priorità assoluta nelle strategie per contrastare il cambiamento climatico.
Note
[1] La Terra e la Luna distano in media dal Sole 1 unità astronomica, pari a 150 milioni di km. A questa distanza l’irradianza della nostra stella - cioè la potenza della radiazione che investe l’unità di area perpendicolare ai raggi solari – è 1360 kW/m2, detta costante solare. Terra e Luna ricevono quindi una potenza pari alla costante solare per πR 2, dove R è il raggio del corpo celeste. Questa potenza si distribuisce sull’intera superficie sferica, che ha area 4πR 2, dunque la densità di potenza media in arrivo è un quarto della costante solare: 340 kW/m2.
[2] Il bilancio energetico terrestre è tratto dall’articolo del 2009 di Trenberth, Fasullo e Kiehl. Per semplicità abbiamo inglobato nella radiazione infrarossa emessa dal pianeta anche gli effetti delle correnti termiche e l’energia trasferita all’atmosfera per evaporazione e traspirazione, trascurando il ruolo radiativo delle nubi e la radiazione trasmessa direttamente allo spazio esterno attraverso la cosiddetta finestra atmosferica. Abbiamo inoltre arrotondato i valori numerici così da semplificare i calcoli dei bilanci parziali per la superficie terrestre e l’atmosfera.
[3] Un’auto a benzina emette circa 100 g di CO2 per ogni km percorso e l’equatore è lungo 40 000 km. Quindi 10 miliardi di auto che fanno il giro dell’equatore emettono (1010 auto) x (4 x 104 km/auto) x (102 g di CO2/km) = 4 x 1016 g di CO2 = 40 miliardi di tonnellate di CO2.
Una mongolfiera ha un volume di circa 3000 m3. La CO2 alla pressione atmosferica e a 0 °C ha una densità di circa 2 g/L, cioè 2 kg/m3. Quindi la CO2 contenuta in una mongolfiera avrebbe una massa di 3000 m3 x 2 kg/m3 = 6000 kg = 6 tonnellate e le nostre emissioni (circa 1300 tonnellate di CO2/s) equivalgono a svuotare in atmosfera circa 200 mongolfiere di CO2 ogni secondo.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
L'aumento della concentrazione d’anidride carbonica nell’atmosfera negli ultimi 60 anni. Fonte: Mauna Loa Observatory.
La concentrazione odierna dell’anidride carbonica nell’atmosfera è senza precedenti. Fonte: European Project for Ice Coring in Antarctica
Non si può sapere con certezza come cambierà il clima in conseguenza del riscaldamento globale provocato dall’aumento dell’effetto serra.
Il sistema climatico infatti è regolato da fenomeni che interagiscono tra loro in modo complicato e con esiti difficili da prevedere in dettaglio, soprattutto a causa dei numerosi effetti di retroazione, negativi e positivi.
Come si cerca di prevedere il clima del futuro
Per studiare l’evoluzione del clima, i ricercatori formulano modelli matematici del sistema climatico. Si tratta di sistemi di equazioni differenziali che – a seconda della loro complessità – possono descrivere le variazioni concomitanti di un gran numero di parametri: la composizione, la temperatura e l’umidità dell’aria, la temperatura e la salinità degli oceani, la direzione e la velocità dei venti e delle correnti oceaniche, la formazione delle nubi alle diverse quote nella troposfera e la relativa albedo.
Risolvendo queste equazioni al computer si può simulare l’evoluzione del clima a partire da date condizioni iniziali, per esempio quelle attuali.
I modelli teorici vengono «tarati» preventivamente verificando che siano in grado di riprodurre i cambiamenti del clima del passato, per cui si dispone di dati osservativi con cui confrontare i risultati delle simulazioni.
Quando poi si vuole prevedere l’evoluzione futura del clima a partire dalle condizioni odierne, nei modelli bisogna fare ipotesi su come certe variabili potrebbero cambiare nei prossimi decenni. Ogni ipotesi produce allora un diverso scenario; il confronto tra i risultati ottenuti nei vari scenari dà un’idea della gamma dei possibili cambiamenti climatici.
Centinaia di gruppi di ricercatori nel mondo producono ogni anno migliaia di resoconti di questo tipo e li sottopongono al vaglio critico di altri scienziati esperti del campo (è il metodo chiamato peer review o «revisione tra pari»).
In seguito entra in campo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, ossia «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico»), un ente costituito nel 1988 dalle Nazioni Unite, a cui oggi partecipano ben 195 nazioni.
L’IPCC raccoglie, esamina e valuta le più recenti informazioni prodotte dai climatologi di tutto il mondo e pubblica periodicamente rapporti che riassumono i risultati, associando a ciascuno di essi un grado di probabilità. In questo modo aiuta i governi a stimare l’impatto delle scelte politiche che si possono adottare per mitigare l’effetto dei cambiamenti climatici.
Vediamo qualche esempio di questa «media» delle varie previsioni, che rappresenta oggi il consenso della comunità scientifica riguardo al clima che ci aspetta in futuro. I dati che seguono sono stati pubblicati dall’IPCC nell’agosto 2021.
I diversi scenari per le emissioni di gas-serra
Un’ipotesi-chiave per i modelli climatologici è quella sui livelli delle future emissioni di gas-serra: come cambierà la concentrazione di CO2 nell’atmosfera tra 10, 20 o 50 anni?
Nella figura che segue, il grafico in alto mostra le emissioni di CO2 ipotizzate da oggi al 2100 in cinque scenari corrispondenti a diverse «traiettorie socio-economiche» dell’umanità (SSP, Shared Socioeconomic Pathway):
- la curva più in alto corrisponde all’ipotesi (pessimistica) che nei prossimi decenni le emissioni continuino ad aumentare, fino a triplicare rispetto a oggi, e inizino poi a diminuire soltanto intorno all’anno 2080;
- la curva più in basso corrisponde invece all’ipotesi (molto ottimistica) che già nei prossimi anni le emissioni calino drasticamente, fino ad arrivare dopo il 2050 a una situazione in cui le emissioni diventano negative, cioè si riesce a rimuovere CO2 dall’atmosfera;
- le altre tre curve mostrano ipotesi intermedie notevolmente diverse tra loro: un aumento continuo ma più graduale delle emissioni (curva rossa), un aumento iniziale con inversione di rotta intorno al 2050 (curva gialla) e una diminuzione continua ma più graduale (curva blu).
Il grafico in basso mostra l’aumento della temperatura media globale (rispetto al suo valore medio nel periodo 1850-1900) previsto in corrispondenza dei cinque diversi scenari:
- nello scenario più pessimistico la previsione è di un aumento continuo, che raggiunge quasi 5 °C nell’anno 2100 e non accenna a diminuire;
- nello scenario più ottimistico il riscaldamento globale frenerà e la temperatura media, dopo un aumento di circa 1,5 °C, inizierà a diminuire intorno al 2050;
- gli scenari intermedi prevedono un ampio ventaglio di possibilità: l’aumento della temperatura può rimanere limitato a meno di 2° C oppure crescere senza sosta fino a 4 °C nel 2100.
Più emissioni = più riscaldamento
I ricercatori concordano sul fatto che il riscaldamento globale in corso è dovuto all’accresciuta concentrazione di gas-serra nell’atmosfera, con l’anidride carbonica come responsabile principale.
È urgente dunque ridurre le nostre emissioni di CO2: se continueremo ad aggiungerne all’aria, come stiamo facendo oggi, tutte le previsioni indicano che il pianeta si riscalderà sempre più.
C’è consenso anche sul fatto che, qualunque sia l’entità del riscaldamento globale, le terre emerse si riscalderanno più degli oceani e le regioni polari si riscalderanno più dei tropici, come si può vedere nei planisferi qui sotto.
Nelle regioni «più rosse» di questi planisferi, secondo i climatologi, ci dobbiamo aspettare due fenomeni principali:
- nell’Artico e in Antartide un aumento significativo della fusione delle calotte glaciali;
- alle altre latitudini periodi di calura più frequenti e siccità più gravi rispetto a oggi.
In un mondo più caldo sicuramente ci saranno alcune zone in cui il clima diventerà più favorevole, come documentato storicamente durante l’optimum climatico romano.
Nella maggior parte del globo, però, anche un aumento di temperatura di soli 2 °C può provocare sconvolgimenti del nostro modo di vivere.
Le precipitazioni aumenteranno
Un’altra previsione su cui i diversi gruppi di ricercatori concordano è che, siccome l’aria più calda può contenere più vapore acqueo, globalmente si avranno maggiori precipitazioni rispetto a oggi.
Si prevedono però importanti differenze tra le diverse aree geografiche:
- le precipitazioni aumenteranno, favorendo un clima più umido, soprattutto alle alte latitudini, nel Pacifico equatoriale e in buona parte delle regioni asiatiche dove soffiano i monsoni;
- le precipitazioni invece diminuiranno, e quindi il clima diventerà più secco, nelle zone tropicali dell’Atlantico e in molte regioni subtropicali, come il bacino del Mediterraneo e gran parte dell’emisfero australe.
Come mostrano i planisferi seguenti, l’entità di questi cambiamenti (sempre rispetto ai valori medi nel periodo 1850-1900) sarà tanto maggiore quanto più crescerà la temperatura media.
Va notato che le variazioni illustrate sono percentuali, non assolute. Ciò significa che regioni come il Sahara o l’Antartide, normalmente molto secche, avranno precipitazioni modeste anche se nei grafici il loro aumento appare molto grande.
Saranno più frequenti gli eventi meteorologici estremi
Con l’aumento dell’effetto serra l’atmosfera accumulerà più energia, perciò produrrà con maggiore frequenza fenomeni meteorologici violenti come le ondate di calore e le ondate di freddo, le inondazioni-lampo dovute a molta pioggia caduta in breve tempo, le tempeste e i tornado o trombe d’aria.
Ci sono già stati numerosi segnali in questo senso, come la tempesta Vaia che nell’autunno 2018 ha sradicato più di 10 milioni di conifere nelle Dolomiti e nelle Prealpi venete, oppure le temperature superiori ai 45 °C misurate in Sicilia nell’agosto 2021. Anche se singoli eventi come questi non si possono attribuire con certezza al riscaldamento globale, secondo le previsioni dei climatologi c’è da attendersi che diventino significativamente più comuni nel prossimo futuro.
Anche gli uragani, cicloni tropicali alimentati dall’evaporazione dell’acqua degli oceani, saranno in media più intensi, con venti ancora più veloci e distruttivi, e potrebbero svilupparsi anche in bacini ristretti come quello del Mediterraneo.
Le siccità prolungate, inoltre, favoriranno la diffusione degli incendi e del loro pericoloso effetto di retroazione: l’eliminazione di un «pozzo» duraturo di CO2 (la vegetazione che assorbe anidride carbonica con la fotosintesi) e la sua trasformazione in un’improvvisa sorgente di CO2 e quindi di ulteriore incremento dell’effetto serra.
Uno studio recente dell’Organizzazione meteorologica mondiale WMO ha trovato che negli ultimi 50 anni gli eventi estremi sono già diventati 5 volte più frequenti, con un aumento di 7 volte dei danni economici associati ai disastri.
Nello stesso periodo, grazie all’introduzione di sistemi d’allerta più efficaci e di servizi di protezione civile, il numero delle persone uccise dai disastri per fortuna è diminuito. Questo miglioramento però riguarda soprattutto le nazioni ricche; più del 90% delle vittime, infatti, vivevano nei Paesi in via di sviluppo.
Anche se piove di più, potrebbe mancare l’acqua
Una conseguenza preoccupante dei cambiamenti del clima è la possibile carenza di acqua potabile in molte aree del mondo.
Con la scomparsa dei ghiacciai delle Alpi, per esempio, i fiumi della Pianura padana potrebbero avere una portata molto ridotta per l’intera estate. Anche se d’inverno nevicherà di più, infatti, le alte temperature farebbero fondere rapidamente tutta la neve in primavera. E con piogge più intense rispetto a oggi, ma concentrate in rapide e violente «bombe d’acqua», non solo si avrebbero più alluvioni ma le precipitazioni potrebbero non aver modo di filtrare nel suolo e rifornire le falde idriche sotterranee che alimentano i nostri acquedotti.
Il livello del mare
A causa del riscaldamento globale nei prossimi decenni il livello del mare continuerà ad aumentare, per l’effetto combinato della dilatazione termica dell’acqua e dell’aggiunta di nuova acqua dolce prodotta dalla fusione dei ghiacci.
Il grafico seguente mostra che, a seconda dello scenario considerato, tra oggi e il 2100 il livello potrebbe salire da 30 a 70 cm, abbastanza per mettere in pericolo non solo gioielli costieri come la laguna di Venezia, ma anche grandi città come Miami in Florida.
Uno studio recente pubblicato su Nature prevede che, anche nello scenario più ottimistico, entro il 2100 metà di tutte le località costiere del mondo verranno allagate almeno una volta all’anno da maree anomale che in passato si verificavano soltanto una volta al secolo.
La linea tratteggiata del grafico però mostra che, se la fusione delle calotte glaciali dovesse accelerare, il ritmo di crescita potrebbe diventare anche molto maggiore, con un aumento del livello del mare di quasi 2 metri entro il 2100.
Un simile aumento del livello delle acque (che per fortuna è ritenuto poco probabile) basterebbe per sommergere New York e l’intera Olanda e per costringere alla migrazione centinaia di milioni di persone che vivono sulle coste asiatiche dell’Oceano Indiano, dal Pakistan alla Thailandia.
Questi profughi climatici si aggiungerebbero a quelli costretti a migrare dalle aree continentali più calde, dove la desertificazione causata dalle siccità renderà impossibile l’agricoltura.
Le altre conseguenze sugli oceani
Le grandi correnti oceaniche, che trasportano calore dai tropici verso i poli e hanno quindi una grande influenza sul clima, potrebbero risentire pesantemente del riscaldamento globale.
Il movimento globale di masse d'acqua negli oceani è chiamato circolazione termoalina perché dipende non solo dalla temperatura, ma anche dalla salinità dell’acqua di mare: come l’acqua più fredda, infatti, anche l’acqua più salata è più densa e perciò tende a scendere in profondità.
La Corrente del Golfo, per esempio, si mantiene perché nel Nord Atlantico l’acqua fredda affonda ed è poi riportata verso sud da un flusso che circola in profondità.
Ma le temperature elevate favoriscono la fusione dei ghiacci della Groenlandia e la conseguente immissione nell’oceano di grandi masse di acqua dolce, riducendo così la salinità e quindi la densità dell’acqua. Ciò potrebbe provocare un’interruzione del meccanismo che oggi mitiga il clima del Nord Europa.
Anche le proprietà chimiche degli oceani stanno cambiando, perché circa un terzo delle nostre emissioni di CO2 è assorbito proprio dall’acqua di mare, dove fa aumentare la concentrazione di acido carbonico.
Così il valore del pH dell’acqua marina superficiale, che è normalmente alcalina, negli ultimi cinquant’anni è già diminuito di un decimo di unità: ciò significa che è in corso una acidificazione degli oceani.
L’acqua più acida discioglie più facilmente il calcare, rendendo la vita più difficile per tutti quegli organismi marini che si proteggono con gusci o conchiglie fatti di carbonato di calcio, come molti molluschi, i coralli e parte dei microrganismi che formano il plancton.
Il grafico mostra che l’acidificazione potrà arrestarsi soltanto se riusciremo ad azzerare le nostre emissioni e a ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Secondo gli altri scenari il fenomeno invece proseguirà e diventerà via via più estremo.
Nel caso delle barriere coralline, che sono gli ambienti oceanici più ricchi di biodiversità, il problema indiretto dell’acidificazione si aggiunge a quello provocato direttamente dal riscaldamento globale.
Se la temperatura dell’acqua aumenta, infatti, i piccoli polipi dei coralli espellono le zooxantelle, microscopiche alghe che vivono in simbiosi nei loro tessuti e che con la fotosintesi li aiutano a nutrirsi; i coralli allora diventano bianchi e molto meno resistenti.
Questo sbiancamento (bleaching in inglese) negli ultimi anni ha fatto morire un terzo dei coralli della Grande barriera corallina australiana, la più grande struttura edificata da organismi viventi sulla Terra.
Gli ecosistemi si adatteranno; e noi?
L’Antropocene, l’epoca geologica in cui viviamo, è caratterizzato dal fatto che le azioni umane riescono a influenzare l’intera biosfera.
Siamo intervenuti su quasi tutti gli habitat terrestri sfruttandoli per le nostre esigenze: cementifichiamo e disboschiamo per costruire megalopoli e grandi allevamenti intensivi, demoliamo montagne per estrarne minerali e creiamo grandi laghi artificiali con le dighe per ricavare energia. Spesso, nel farlo abbiamo anche provocato l’estinzione di molte specie animali e vegetali, oltre ad aver inquinato l’aria, il suolo e gli oceani con i nostri rifiuti.
Ora, senza volerlo, stiamo estendendo la nostra influenza su scala globale attraverso l’alterazione del clima (in un tempo rapidissimo rispetto a quello tipico dei cambiamenti naturali).
Quando ragioniamo sul riscaldamento globale, comprensibilmente, ci concentriamo sulle sue conseguenze per l’umanità. Ma è chiaro che il cambiamento del clima avrà effetti a catena, complessi e spesso imprevedibili, non solo su di noi ma su tutte le componenti degli ecosistemi.
Per esempio, se nei prossimi decenni in estate i ghiacci del polo nord fonderanno completamente, come è probabile secondo le previsioni riportate nel grafico qui sotto, gli orsi polari non riusciranno più a cacciare e finiranno per estinguersi. Nel frattempo però c’è da aspettarsi che nell’Artico compaiano nuove nicchie ecologiche, occupate magari da cetacei o da uccelli marini che in passato non potevano sopravvivere in un mondo ricoperto di ghiaccio.
Qualunque cosa succeda, insomma, gli ecosistemi si adatteranno, trovando nuovi equilibri: qualche specie scomparirà, qualche altra risulterà ben adattata alle nuove condizioni e diventerà dominante.
Il problema quindi non è quello di salvare il pianeta: la natura ha tutte le risorse necessarie per far fronte a condizioni climatiche anche molto diverse dalle attuali.
Lo slogan più azzeccato è non abbiamo un pianeta B : con buona pace di certi visionari, infatti, la probabilità di riuscire a creare condizioni simili a quelle terrestri su un altro corpo celeste, così da potervisi trasferire, è praticamente nulla.
Il tema cruciale allora è capire quali azioni ora possano salvare la nostra specie, perché su un pianeta Terra con il clima alterato dal riscaldamento globale non è affatto scontato che potremo vivere bene.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
La comunità scientifica mondiale oggi non ha più dubbi: è in corso un cambiamento del clima terrestre caratterizzato da un riscaldamento globale dovuto all’aumento dell’effetto serra nell’atmosfera; questo aumento, a sua volta, è provocato dalle emissioni di gas-serra dovute alle attività umane.
I governi di tutto il mondo dichiarano di voler agire con urgenza per scongiurare le possibili conseguenze disastrose dell’emergenza climatica.
Le iniziative sul clima sono parte dell’impegno per il perseguimento di un obiettivo ancora più ambizioso, la sostenibilità dello sviluppo.
Ma che cosa si sta facendo in concreto, e che cosa occorre ancora fare?
I negoziati internazionali
Il problema del cambiamento climatico è, per sua natura, globale, perciò nessuna singola nazione può affrontarlo da sola: sono necessari accordi internazionali.
I negoziati per questi accordi si concentrano su due tipi di azioni: la mitigazione per ridurre l’entità del riscaldamento globale e l’adattamento per far fronte alle sue conseguenze che sono già inevitabili.
Nel 1992 a Rio de Janeiro, in Brasile, quasi tutti gli Stati del mondo hanno concordato di affrontare insieme il problema, creando la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico o UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change).
L’organismo che prende le decisioni è la COP (Conference of the Parties, cioè Conferenza dei partecipanti), che si riunisce ogni anno in una diversa città per valutare i progressi fatti e le nuove iniziative da intraprendere.
Nel 2015 la riunione COP 21 in Francia ha portato all’Accordo di Parigi, che mira a limitare l’aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali, così che resti al di sotto dei 2 °C (e idealmente intorno a 1,5 °C).
Questo trattato internazionale raccomanda di ridurre il più presto possibile le emissioni di gas-serra, però non impone limiti specifici, lasciando ai singoli Stati il compito di stabilirli.
Mitigare il cambiamento climatico = azzerare le emissioni
Se vogliamo sperare di riuscire a frenare il riscaldamento globale, dobbiamo per prima cosa smettere di aggiungere gas-serra all’atmosfera (e poi trovare il modo per rimuovere parte dei gas-serra che essa già contiene).
Tra i gas prodotti dalle nostre attività, quello maggiormente responsabile dell’aumento dell’effetto serra è l’anidride carbonica o CO2.
Il primo traguardo da raggiungere è allora la «neutralità del carbonio», detta in inglese anche net-zero carbon: le nostre emissioni non dovranno superare la quantità di CO2 che viene assorbita dagli oceani e dalle piante.
L’Unione Europea ha deciso di fare da apripista impegnandosi con un Green Deal («Patto verde») che prevede due obiettivi precisi: una riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990 entro il 2030, poi l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.
Se questi obiettivi saranno raggiunti e se il resto del mondo seguirà la stessa strada, nella seconda metà del secolo si raggiungerà un equilibrio tra le emissioni antropogeniche di gas-serra e il loro assorbimento da parte dell’ambiente.
L’effetto serra allora cesserà di aumentare e ci si potrà concentrare sulle azioni dette climate-positive (o carbon-negative): la rimozione di CO2 dall’atmosfera per invertire il riscaldamento globale.
Da dove vengono le emissioni di gas-serra?
Come mostra il grafico seguente, le nostre emissioni di CO2 sono più che raddoppiate negli ultimi 50 anni e il loro aumento non mostra segni di rallentamento: sembra dunque, purtroppo, che ci stiamo avviando verso gli scenari futuri più pessimistici tra quelli esaminati dall’IPCC.
Il bordo superiore del grafico rappresenta il totale delle emissioni; l’area sottostante è suddivisa nei contributi parziali delle singole nazioni o aree geopolitiche.
Per identificare l’evoluzione nel tempo delle emissioni di una singola nazione, nel grafico bisogna osservare come cambia da sinistra verso destra lo spessore verticale della corrispondente area colorata.
Così, per esempio:
- tra il 1990 e il 2020 le emissioni europee sono diminuite del 25% circa;
- questa riduzione locale però ha ben poco effetto sul dato globale, che nello stesso periodo registra un aumento del 50% circa;
- sempre nel periodo 1990-2020 le emissioni degli USA sono rimaste pressoché costanti, mentre sono aumentate di quasi 3 volte quelle dei Paesi asiatici.
A prima vista i dati sembrano indicare che la Cina sia oggi il principale «colpevole» delle emissioni umane di gas-serra: sulla destra del grafico infatti la banda più ampia è quella rossa corrispondente alla Cina.
Ci sono però almeno due considerazioni importanti da fare al riguardo:
- le emissioni degli USA nel 2020 sono state circa la metà di quelle cinesi, ma gli Stati Uniti avevano un quarto degli abitanti della Cina (330 milioni contro 1,4 miliardi): il cittadino statunitense medio, perciò, produce ancora il doppio di emissioni rispetto al suo omologo cinese;
- ogni europeo (nella UE oggi siamo 450 milioni) produceva nel 2020 emissioni simili a quelle del cinese medio; tuttavia noi, come tutti gli occidentali, acquistiamo ogni giorno prodotti made in China e così facendo «appaltiamo» alla Cina una parte delle nostre emissioni: i processi industriali necessari per produrre le merci che importiamo avvengono in Cina, ma la corrispondente «impronta di carbonio» sull’ambiente è responsabilità nostra, tanto quanto dei cinesi.
Ciò detto, rimane vero che l’enorme popolazione della Cina – più di un quinto dell’intera umanità – aspira ancora a migliorare il proprio benessere materiale; se questo avverrà secondo le tradizioni del capitalismo, nei prossimi decenni i consumi della più grande nazione del mondo, e quindi anche le sue emissioni, continueranno ad aumentare.
La chiave sta nell’energia
Come si può sperare allora di ridurre le emissioni globali di gas-serra?
Lo si capisce osservando l’areogramma qui sotto: per quasi tre quarti le nostre emissioni sono dovute al modo in cui produciamo l’energia che serve per il funzionamento delle industrie, per i trasporti e per il condizionamento dell’aria nelle abitazioni e negli uffici.
Se si vuole cercare di mettere un freno al cambiamento climatico, il settore energetico è dunque quello su cui bisogna intervenire in modo prioritario.
Un imperativo per ognuno di noi è il risparmio energetico: l’uso dell’energia ha un forte impatto sull’ambiente, perciò dobbiamo evitare di sprecarla (per esempio, assicurandoci che le nostre case siano ben isolate termicamente e regolando d’inverno i termostati così che la temperatura delle stanze non superi i 20 °C).
Risparmiare l’energia però non sarà sufficiente: il nostro stile di vita ne richiede così tanta che dovremo comunque continuare a produrne quantità enormi.
Serve perciò un cambiamento radicale nel nostro modo di generare l’energia: è la rivoluzione che va sotto il nome di transizione energetica.
La transizione energetica
Fare una transizione energetica oggi significa abbandonare l’uso dei combustibili fossili a favore delle fonti di energia rinnovabili, che non producono emissioni di gas-serra e sono sostenibili, perché non si esauriscono quando le usiamo.
Le principali fonti rinnovabili sono l’energia solare diretta (la luce del Sole convertita in elettricità o calore) e indiretta (l’energia eolica e quella idroelettrica: il vento e il ciclo dell’acqua, infatti, sono prodotti dal riscaldamento solare dell’atmosfera).
Un contributo potrà venire anche dall’energia geotermica e da quella delle maree, se si riuscirà a sviluppare tecniche efficienti per sfruttarle.
La transizione energetica è indispensabile se vogliamo smettere di arricchire l’atmosfera di CO2 e quindi di provocare l’aumento dell’effetto serra. Si tratta però di un’impresa difficile e che richiederà molto tempo, perché l’economia mondiale oggi dipende ancora in modo predominante dai combustibili fossili.
Il caso dell’Italia, a cui si riferiscono i due diagrammi a torta qui sotto, è esemplare: l’energia che usiamo attualmente proviene per quattro quinti dalla combustione di gas, petrolio o carbone.
Le fonti rinnovabili danno un contributo significativo (circa il 30%) alla produzione dell’energia elettrica, ma questa è soltanto un quinto del totale dell’energia che consumiamo.
La prevalenza storica dei combustibili fossili si deve principalmente al fatto che offrono due grandi vantaggi: hanno un’alta densità energetica e sono facili da immagazzinare e trasportare.
Un tempo erano anche molto economici, ma oggi l’energia prodotta da fonti rinnovabili è diventata altrettanto conveniente (anche se è difficile confrontare i costi delle diverse fonti, perché sono «drogati» da sussidi e incentivi di vario tipo).
I combustibili fossili sono un tesoro che abbiamo trovato sottoterra e ha reso possibile l’impetuoso sviluppo della civiltà tecnologica nel Novecento. Non sono però rinnovabili, perché impiegano molti milioni di anni per formarsi. Se continueremo a usarli, perciò, si esauriranno: un’economia basata sui combustibili fossili non è dunque sostenibile.
Le fonti di energia rinnovabili invece sono sostenibili, perché derivano da forze della natura praticamente inesauribili, e sono anche molto abbondanti e ben distribuite sul globo (il che potrà aiutare a sfruttarle in modo equo, disinnescando pericolosi conflitti).
La sola luce che arriva dal Sole deposita ogni giorno sulla superficie terrestre un’energia più di mille volte superiore a quella che tutta l’umanità usa nella giornata: basta quindi riuscire a catturare meno di un millesimo dell’energia solare per soddisfare tutti i nostri bisogni energetici.
Sulla base dei dati appena visti, la transizione energetica richiederà due grandi cambiamenti rispetto all’organizzazione odierna del nostro sistema energetico:
- la sostituzione delle centrali termoelettriche, che bruciano combustibili fossili, con impianti solari o eolici; per esempio, tutte le grandi superfici oggi inutilizzate, come i tetti dei capannoni industriali, andranno ricoperte con pannelli fotovoltaici per diventare produttive dal punto di vista energetico;
- l’elettrificazione delle attività oggi basate sul calore: ciò significa, per esempio, sostituire i veicoli a motore termico con veicoli elettrici e le caldaie degli impianti di riscaldamento con pompe di calore.
Questa rivoluzione del sistema energetico è un’impresa complessa, che richiede massicci investimenti e un ripensamento di molte infrastrutture della nostra società. Tra le altre cose:
- la rete di distribuzione dell’energia elettrica dovrà diventare ancora più globale, elastica e resistente agli sbalzi di produzione nel tempo e nelle diverse aree geografiche;
- servirà un grande sforzo di ricerca e sviluppo nel campo dei sistemi di accumulazione dell’energia elettrica: abbiamo bisogno di nuove batterie che offrano maggiore capacità in volumi minori e che siano più facili da smaltire con il riciclo dei materiali.
Si tratta di una sfida molto impegnativa, ma non la si può eludere se vogliamo mantenere il nostro benessere attuale in modo sostenibile e senza emissioni di gas-serra.
Con la transizione energetica dovremo dunque smettere di estrarre combustibili fossili dal sottosuolo e di bruciarli, per evitare di arricchire ulteriormente l'atmosfera di CO2.
Questa rinuncia è necessaria per non aggravare il riscaldamento globale, ma a ben vedere ha anche una valenza etica: chi ci autorizza infatti a consumare oggi tutto il tesoro sotterraneo del pianeta, cancellando così una risorsa preziosa e limitata di cui le generazioni future potrebbero avere bisogno?
Perché il nucleare non ci può aiutare
Le centrali nucleari odierne sfruttano la fissione dell’uranio, un nucleo atomico pesante e instabile, che libera energia quando decade disgregandosi in nuclei più piccoli. Il processo riscalda il reattore e il calore è poi convertito in energia elettrica, in modo del tutto simile a ciò che avviene nelle centrali termoelettriche.
Una centrale nucleare durante il suo funzionamento non emette gas-serra. Inoltre la densità di energia dell’uranio è straordinariamente grande, molto maggiore rispetto a quella dei combustibili fossili.
A fronte di questi vantaggi, però, le centrali nucleari hanno numerosi punti deboli:
- sono grandi impianti molto costosi da costruire, in particolare perché devono rispettare criteri di sicurezza stringenti per garantire il contenimento delle radiazioni liberate nel reattore;
- in caso di grave incidente possono rendere inabitabili intere regioni; è quello che è successo nel 1986 a Černobyl', in Ucraina, e poi nel 2011 a Fukushima, in Giappone;
- producono in ogni caso scorie radioattive che rimangono dannose per la salute per migliaia di anni e che nessuno ancora sa come trattare o immagazzinare in modo sicuro;
- il combustibile nucleare e le scorie sono pericolosi anche perché li si può usare per costruire ordigni terrificanti; vanno perciò tenuti fuori dalla portata di terroristi e malintenzionati, il che impone ulteriori costose misure di sicurezza.
Il grafico che segue, prodotto dalla World Nuclear Association, illustra l’evoluzione storica dell’energia nucleare da fissione. La diffusione delle centrali si è interrotta dopo il disastro di Černobyl' e da allora il numero dei reattori nel mondo è rimasto pressoché costante.
Attualmente le centrali nucleari producono globalmente il 10% dell’energia elettrica, vale a dire il 2% circa dell’energia totale che usiamo.
Oggi però molti reattori esistenti si avvicinano alla fine della loro vita utile e ci sono poche nuove centrali in costruzione, perciò la curva è destinata a scendere nei prossimi decenni.
Il mancato successo dell’energia nucleare non è dovuto alle proteste degli ambientalisti, ma al fatto che nessuna impresa privata è più disposta a investire le proprie risorse in questo campo, perché il rischio economico e finanziario è percepito come troppo grande.
Le poche nuove centrali nucleari in costruzione sono finanziate dai governi, con fondi pubblici a garanzia di copertura di ogni futura perdita, quindi al di fuori delle regole dell’economia di mercato.
I sostenitori dell’energia nucleare spesso parlano di una «quarta generazione» che permetterà di superare i difetti delle centrali odierne, con «reattori modulari» di piccole dimensioni oppure con reattori che usano come combustibile il torio, un elemento diverso dall’uranio.
Queste nuove tecnologie però sono ancora in fase di studio, rimangono da dimostrare e, ammesso che funzionino, potranno diventare una fonte affidabile di energia soltanto tra decenni.
Lo stesso vale per la fusione nucleare, una tecnica alternativa alla fissione: si basa sulla reazione tra nuclei di idrogeno, che liberano energia quando si fondono a formare nuclei più pesanti di elio, come avviene nelle stelle.
Rispetto alla fissione, la fusione è attraente perché in teoria produce molte meno scorie radioattive, non può provocare incidenti come Černobyl' o Fukushima e non si presta alla proliferazione di armamenti.
La ricerca in questo settore procede da oltre cinquant’anni, ma realizzare la fusione in modo controllato è risultato estremamente difficile e saranno necessari come minimo ancora decenni di studio.
Così, anche nella migliore delle ipotesi, non esiste alcuna possibilità che la fusione nucleare sia sfruttabile come fonte di energia prima della seconda metà di questo secolo.
L’emergenza climatica però incombe già oggi e impone azioni immediate. Ecco perché non possiamo permetterci di aspettare gli eventuali nuovi sviluppi dell’energia nucleare: la transizione energetica deve iniziare basandosi sulle fonti rinnovabili, che già oggi sappiamo sfruttare con tecnologie mature.
L’equivoco dell’idrogeno
Spesso si sente parlare di «economia all’idrogeno» come possibile soluzione ai problemi della sostenibilità e del cambiamento climatico.
L’idrogeno (H2) rilascia energia quando reagisce con l’ossigeno (O2) formando acqua (H2O). I dispositivi chiamati celle a combustibile (fuel cell in inglese) sfruttano questa proprietà dell’idrogeno per produrre una corrente elettrica; possono quindi alimentare i motori elettrici, producendo come «scarto» soltanto acqua.
Per evitare fraintendimenti, però, bisogna tenere presenti due dati di fatto:
- l’idrogeno puro non esiste sulla Terra (sebbene sia l’elemento più comune nel resto dell’universo); per poterlo usare, perciò, bisogna prima estrarlo da composti come l’acqua;
- l’idrogeno dunque non è una fonte di energia: è invece un vettore, cioè un modo per trasportare l’energia prodotta con altre fonti.
L’idrogeno si può produrre attraverso l’elettrolisi, facendo passare nell’acqua una corrente elettrica che la separa nei suoi due costituenti. Per farlo, bisogna fornire (come minimo) la stessa quantità di energia che sarà poi rilasciata quando si usa l’idrogeno.
Dunque l’idrogeno non fornisce energia: serve soltanto per immagazzinarla e trasportarla altrove, dove si avrà bisogno di usarla.
Dal punto di vista degli effetti sul clima, allora, tutto dipende da come si produce l’energia usata per ottenere l’idrogeno:
- si parla di idrogeno verde quando l’energia proviene da fonti rinnovabili; in tal caso l’uso dell’idrogeno è effettivamente a zero emissioni;
- l’idrogeno blu invece è ottenuto usando combustibili fossili, in particolare il metano; in questo caso le emissioni di CO2 sono simili (o addirittura maggiori, secondo alcuni studi) a quelle che si produrrebbero bruciando direttamente il gas.
Un discorso del tutto analogo vale, per esempio, per le batterie con cui alimentiamo i veicoli elettrici: aiutano a combattere il cambiamento del clima soltanto se le produciamo e ricarichiamo usando fonti di energia rinnovabili.
Soltanto l’idrogeno verde può aiutare a frenare il riscaldamento globale. Chi propone di adottare l’idrogeno blu, invece, sta cercando una scusa per continuare a usare i combustibili fossili (e a produrre più effetto serra) sotto mentite spoglie.
Va notato inoltre che siamo ben lontani dal disporre di una rete di distribuzione che possa consentire l’uso dell’idrogeno su larga scala. E creare una rete del genere è tutt’altro che banale: l’idrogeno brucia subito a contatto con l’aria, perciò ogni perdita può avere effetti disastrosi.
Catturare la CO2: una soluzione tecnologica parziale
Una sigla spesso citata nei dibattiti sul clima è CCS, che sta per carbon capture and storage, cioè «cattura e sequestro/stoccaggio del carbonio».
L’idea è quella di filtrare i fumi degli impianti che emettono anidride carbonica così da catturare la CO2, per poi liquefarla e iniettarla sottoterra, in giacimenti di petrolio o di gas già svuotati, confidando che vi resti poi imprigionata a tempo indefinito.
Secondo i sostenitori del CSS questa tecnologia oggi è già matura e permette di evitare fino al 90% delle emissioni a un costo accettabile.
Nel 2019 gli impianti CSS nel mondo hanno catturato 30 milioni di tonnellate di CO2, meno di un millesimo delle nostre emissioni annuali: per ora si tratta quindi di un contributo modesto alla lotta contro il cambiamento climatico (equivale a piantare ogni anno 1 miliardo di alberi, pari a 1/400 della foresta amazzonica).
Siccome la transizione energetica non può avvenire dall’oggi al domani, dovremo usare ancora per decenni, in misura decrescente, i combustibili fossili. Una diffusione della tecnologia CSS potrà dunque essere utile durante questa fase, e anche in seguito per attività come la produzione del cemento, dove non esiste un modo alternativo per abbattere le emissioni.
Idealmente si potrebbero anche applicare metodi simili al CCS per rimuovere CO2 direttamente dall’atmosfera, così da ridurre la concentrazione dei gas-serra e rimediare alle nostre emissioni del passato. Sebbene esistano alcuni progetti-pilota, però, siamo purtroppo lontani dal giorno in cui un’applicazione del genere sarà disponibile su larga scala.
In ogni caso lo sviluppo di sistemi CCS non va usato come alibi per continuare a usare i combustibili fossili come se niente fosse, rinviando così la transizione energetica: quest’ultima rimane la strada maestra da seguire con urgenza, se si vuole affrontare seriamente l’emergenza climatica.
Le misure di adattamento
Se anche riusciremo ad azzerare le emissioni di gas-serra, le conseguenze del riscaldamento globale già innescato dureranno ancora a lungo, per via dell’inerzia intrinseca del sistema climatico.
Basti pensare al fatto che gli oceani, che hanno una massa 10 000 volte maggiore rispetto all’atmosfera, assorbono il calore e lo ridistribuiscono molto più lentamente; l’atmosfera terrestre si rimescola in pochi anni, ma gli oceani possono impiegare secoli.
L’atmosfera stessa ci dà una chiara indicazione se si considera che nel 2020, a causa della pandemia da coronavirus, il rallentamento delle attività umane ha provocato una diminuzione nelle emissioni stimata a -7% (e già «recuperata», purtroppo, nel 2021). Di questa riduzione però non si vede traccia nella curva di Keeling, che continua a misurare una concentrazione globale di CO2 in aumento.
L’inerzia del clima è tale che, secondo alcuni studiosi, i gas-serra già immessi dall’umanità nell'aria avranno l’effetto di ritardare di decine di migliaia di anni la prossima glaciazione.
Tutto ciò significa che, oltre alle azioni di mitigazione, bisogna prevedere azioni per adattarsi alle conseguenze ormai inevitabili del cambiamento climatico.
Alcuni esempi di misure di adattamento sono:
- usare in modo più efficiente le nostre risorse idriche, che sono scarse e preziose;
- sviluppare nuove colture più resistenti alla siccità;
- predisporre opere di difesa contro le inondazioni e l’innalzamento del livello del mare;
- piantare foreste con specie arboree meno vulnerabili alle tempeste e agli incendi;
- creare «corridoi» terrestri per le specie animali che avranno bisogno di migrare.
Le misure di adattamento sono complementari a quelle di mitigazione, ma non possono in alcun modo sostituirle: la riduzione delle emissioni di gas-serra, in particolare attraverso la transizione energetica, rimane l’imperativo prioritario per disinnescare il pericoloso cambiamento del clima.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
La diffusione dell’energia nucleare si è bloccata dopo l’incidente di Černobyl’ del 1986.
L’energia usata in Italia nel 2018 (1 EJ = 1 esajoule = 1018 J = 1 miliardo di miliardi di joule) e le fonti energetiche adoperate per produrla: per l’80% circa si tratta di combustibili fossili. L’energia elettrica è soltanto il 20% del totale dell’energia usata. Fonte: International Energy Agency (IEA).
Uno schema del metodo CCS per catturare e stoccare l’anidride carbonica
L’evoluzione nel tempo delle emissioni di CO2 delle diverse parti del mondo. Il grafico include soltanto le emissioni dovute all’uso di combustibili fossili e alla produzione del cemento; qui dunque mancano, per esempio, le emissioni provocate dalla deforestazione Fonte: Our world in data/Global Carbon Project.
Le emissioni di CO2 dovute alle diverse attività umane (dati relativi al 2016 elaborati nel 2020 da Hannah Richie per Climate Watch, the World Resources Institute).
Il 9 agosto 2021 è stato presentato il 6° Rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite). Questo documento raccoglie e valuta le conoscenze scientifiche sul clima della Terra emerse negli ultimi anni e propone modelli e scenari per interpretare il clima del futuro. Questo rapporto costituisce la base essenziale della Conferenza delle Parti di Glasgow, in programma dal 30 ottobre al 12 novembre.
Annalisa Cherchi e Susanna Corti, ricercatrici all’istituto di scienze dell'atmosfera e del clima di Bologna (ISAC-CNR) sono state coinvolte in prima persona nella sua realizzazione. In questo video dialogano sul contenuto del rapporto e sulla differenza tra un modello climatico e uno scenario. Le due ricercatrici, inoltre, raccontano come è nato il rapporto e quale impegno ha comportato.
Il prossimo novembre la città scozzese di Glasgow ospiterà la COP26, un vertice sul clima molto atteso. Avrebbe dovuto svolgersi un anno fa, ma la pandemia ha costretto a rinviare i negoziati internazionali per ridurre le emissioni di gas serra. Come spesso accade, si parla di «ultima chiamata» per evitare gli scenari peggiori del riscaldamento globale. Ma le conferenze sul clima hanno una lunga storia di successi parziali e aspettative deluse: ripercorrerla può essere molto utile per comprendere la posta in gioco a Glasgow e quel che accadrà nei prossimi anni.
L’ambiente entra nell’agenda politica
Nel corso degli anni Sessanta diversi problemi ambientali come l’inquinamento, la scomparsa delle specie o l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali sono diventati oggetto di una discussione pubblica sempre più ampia e articolata, riuscendo gradualmente a imporsi all’attenzione dei mass media e a condizionare l’agenda politica delle nazioni industrializzate.
Nel 1972 i tempi erano già maturi per organizzare la prima conferenza mondiale sull’ambiente umano, che si svolse a Stoccolma sotto egida delle Nazioni Unite. Ai lavori parteciparono i delegati di oltre cento governi, nella crescente consapevolezza che i problemi ambientali hanno una natura globale e perciò possono essere affrontati solo con l’impegno della comunità internazionale.
Da allora le iniziative per cercare soluzioni condivise alla crisi ecologica si sono moltiplicate, di pari passo con l’aggravarsi dei problemi ambientali, dalla perdita di biodiversità ai rischi di uno sviluppo giudicato insostenibile, fino agli impatti del riscaldamento globale.
La convenzione sui cambiamenti climatici
Un momento cruciale per i negoziati sull’ambiente fu la Conferenza di Rio de Janeiro, in Brasile, passata alla storia anche come il Summit della Terra, che nel 1992 riunì i rappresentanti di quasi tutte le nazioni del mondo. Al termine dei lavori furono sottoscritte due importanti convenzioni sulla biodiversità e sui cambiamenti climatici, alimentando la convinzione che la cooperazione internazionale avrebbe permesso di trovare rimedi efficaci al degrado ambientale.
Dal 1994, in particolare, i Paesi firmatari della Convezione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si incontrano con cadenza annuale durante le cosiddette Conferenze delle Parti (o COP, dall’acronimo del termine inglese Conferences of the Parties). Quest’anno Glasgow, in Scozia, ospiterà la 26esima Conferenza delle Parti, o COP26, con l’obiettivo di riuscire a ridurre le emissioni di gas serra a livello globale.
Se da un lato la regolarità di questi vertici, a cui partecipano i governi di tutto il mondo, testimonia l’elevata attenzione per i cambiamenti climatici, dall’altro molte aspettative sono andate deluse perché, a conti fatti, finora gli accordi internazionali non sono riusciti a mitigare il riscaldamento del pianeta.
In effetti, la storia delle conferenze sul clima è costellata da un alternarsi di successi e fallimenti. Nel 2005, per esempio, gli sforzi negoziali furono premiati con l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, un importante trattato che per la prima volta impegnava tutti i Paesi a economia avanzata a ridurre i gas serra. Purtroppo, però, molti degli impegni assunti all’epoca sono stati in seguito disattesi, lasciando che le emissioni continuassero ad aumentare.
Perché è così difficile invertire la rotta?
Eppure in qualche occasione gli accordi internazionali sull’ambiente hanno portato anche a risultati concreti. Nel 1987, per esempio, il Protocollo di Montereal riuscì nell’intento di mettere al bando i clorofluorocarburi (o CFC), una classe di composti artificiali di largo impiego come refrigeranti dei frigoriferi o come propellenti spray, consentendo di porre un freno all’assottigliamento della fascia stratosferica di ozono che protegge gli organismi viventi dalla radiazione solare ultravioletta.
Il riscaldamento globale, tuttavia, è un problema assai più complesso da risolvere perché i gas serra, a differenza dei CFC, sono composti naturali, e quindi non possono essere eliminati vietandone semplicemente la produzione. Inoltre, l’industria ha potuto trovare alternative ai CFC senza dover rinunciare ai frigoriferi e agli spray; ridurre in modo drastico le emissioni di gas serra impone invece di mettere in discussione l’intero modello economico delle società industriali, fortemente dipendente dai combustibili fossili.
Infine, raggiungere un accordo condiviso è complicato dal fatto che non tutti i Paesi contribuiscono in uguale misura al riscaldamento globale. Se da una parte le responsabilità storiche ricadono sulle nazioni che per prime hanno raggiunto l’industrializzazione (Stati Uniti, Europa, Giappone, Russia), oggi la rapida crescita economica di Paesi emergenti e densamente popolati come Cina e India ha modificato la classifica dei principali emettitori, al punto che dal 2015 il primato spetta alla Cina.
D’altro canto, questo primato è anche conseguenza del fatto che molte produzioni inquinanti sono state delocalizzate in Cina e in altri Paesi asiatici, oggi diventati la «fabbrica del mondo». Proprio alla difficoltà di garantire un’equa ripartizione degli impegni per ridurre le emissioni, capace di tenere conto anche delle diverse responsabilità storiche, si può imputare il fallimento della Conferenza di Copenhagen (COP15), che nel 2009 segnò una drastica battuta d’arresto nei negoziati sul clima.
L’accordo di Parigi
Nonostante le difficoltà, nel dicembre 2015, al termine dei negoziati della Conferenza sul clima di Parigi (COP21) è stato possibile raggiungere un nuovo accordo che, per la prima volta, impegna tutte le nazioni, e non solo quelle industrializzate, a fissare degli obiettivi di riduzione delle emissioni. L’accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016 con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale «ben al di sotto» di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e possibilmente entro la soglia di sicurezza di 1,5°C.
Secondo il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), tuttavia, gli impegni assunti finora dai Paesi firmatari non sono abbastanza ambiziosi: perfino se fossero rispettati, infatti, la temperatura media globale salirebbe di circa 3°C entro fine secolo, più del doppio rispetto alla soglia di sicurezza. Gli esperti dell’UNEP hanno calcolato che per limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C sarebbe necessario tagliare le emissioni globali di oltre il 7,5% ogni anno, altrimenti supereremo la soglia di sicurezza già entro questo decennio.
Occorre notare che parliamo all’incirca della stessa riduzione delle emissioni causata nel 2020 dalle restrizioni imposte per contenere la pandemia di COVID-19, che hanno colpito soprattutto i trasporti e la produzione industriale. Questo evidenzia l’enormità della sfida posta dalla crisi climatica, dato che per scongiurare gli scenari peggiori del riscaldamento globale dovremo conseguire un’analoga riduzione delle emissioni per ogni anno a venire, ma grazie alle politiche climatiche e non per colpa di una pandemia. Con la ripresa economica, infatti, le emissioni di gas serra sono già tornate ad aumentare. Del resto, l’80% dell’energia consumata nel mondo continua a essere fornita dalla combustione di gas, petrolio e carbone, cosicché l’unico modo per conseguire un calo duraturo e non soltanto temporaneo dei gas serra è accelerare la transizione già in corso verso le fonti rinnovabili.
Le aspettative della COP26 di Glasgow
La conferenza sul clima di Glasgow, che si terrà dal 30 ottobre al 12 novembre 2021, ha il compito di rendere operativi gli accordi di Parigi e tracciare la strada per decarbonizzare l’economia mondiale. Il vertice si sarebbe dovuto tenere l’anno scorso, ma di fronte al dilagare della pandemia è stato necessario posticiparlo, facendone un appuntamento ancora più atteso. Più il tempo passa, infatti, più si affievoliscono le possibilità di riuscire a contenere l’aumento delle temperature globali entro la soglia di sicurezza di 1,5°C.
Nello specifico, a Glasgow i governi dovranno presentare impegni di riduzione delle emissioni molto più ambiziosi di quelli assunti finora per riuscire a raggiungere l’obiettivo delle emissioni nette zero entro il 2050 e rispettare così l’accordo di Parigi. Si tratta in sostanza di conseguire la cosiddetta «neutralità climatica», cioè un livello di emissioni antropiche che possa essere compensato dall’assorbimento naturale dei gas serra da parte degli ecosistemi terrestri (e, in futuro, forse anche con l’aiuto di tecnologie in grado di rimuovere una parte del CO2 immesso nell’atmosfera, su cui però al momento non possiamo contare perché si trovano ancora in fase sperimentale).
Al di là degli impegni solenni e dei traguardi a lungo termine, tuttavia, sarà cruciale che i governi presentino un piano dettagliato per spiegare come intendono ridurre subito le emissioni, con obiettivi a breve termine credibili e verificabili. Come ha sottolineato l’attivista Greta Thunberg di Fridays For Future durante i lavori della Pre-COP26 che si è svolta a Milano, le giovani generazioni sono stanche del «bla bla bla» dei governi e si attendono iniziative urgenti e concrete. Il successo o il fallimento delle misure di mitigazione del riscaldamento globale dipenderà dai negoziati sul clima che si terranno a Glasgow e dalla pressione dell’opinione pubblica affinché i leader del mondo adottino finalmente misure efficaci per ridurre i gas serra, l’unica via d’uscita dalla crisi climatica.