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Si può sottrarre anidride carbonica all’atmosfera?

Le tecnologie allo studio per il sequestro della CO2 atmosferica sono diverse, ma tutte hanno ancora costi economici e ambientali non sostenibili

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L’elefante nella stanza delle politiche per la mitigazione del riscaldamento globale si chiama CCS, un acronimo che va prendendo sempre più piede e sta per Carbon Capture and Storage, “cattura e sequestro del carbonio”. L’idea di fondo dei progetti CCS è che, anche qualora l’umanità riuscisse ad azzerare le proprie emissioni entro le scadenze stabilite dagli accordi internazionali, la temperatura media del pianeta continuerebbe a crescere per inerzia, a causa dei gas serra che nel corso della storia si sono accumulati nell’atmosfera fino a raggiungere la concentrazione attuale di oltre 428 parti per milione. Non basta smettere di inquinare l’aria, insomma: c’è anche bisogno di ripulirla dai rifiuti del passato, sottraendo parte dei gas serra accumulati in atmosfera. Ed è proprio nello spazio che si apre tra queste due necessità inderogabili che si inseriscono i progetti CCS.

Per l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il gruppo intergovernativo di esperti sul clima delle Nazioni Unite, i progetti CCS sono ormai necessari a fare in modo che la temperatura media terrestre non cresca oltre 2° C rispetto i livelli preindustriali, e anche l’International Energy Agency (IEA) li include in pianta stabile nei propri scenari di decarbonizzazione al 2050. Secondo il rapporto indipendente The State of Carbon Dioxide Removal 2022, lo sviluppo di tecnologie CCS è oggi prioritario per il rispetto degli Accordi sul clima di Parigi: più passa il tempo senza che si facciano progressi concreti nella riduzione delle emissioni, più la cattura del diossido di carbonio (CO2) accumulato in atmosfera diventa un’opzione obbligata. Una soluzione apparentemente irresistibile, su cui i governi in cerca di soluzioni veloci alla crisi climatica ripongono una fiducia crescente.

Eppure, molti dei progetti CCS oggi in via di sviluppo vengono largamente impiegati per scopi quanto meno discutibili, come i meccanismi di compensazione delle emissioni e l’intensificazione dei processi di estrazione del petrolio. Per orientarsi tra le molteplici applicazioni e gli svariati acronimi che costellano il mondo delle CCS bisogna tornare agli anni Settanta, quando cominciò a circolare l’idea che fosse possibile escogitare un metodo, più o meno high tech, per prelevare dall’aria la CO2 e ridurne così la concentrazione atmosferica fino alla soglia di sicurezza di 350, o preferibilmente 280, parti per milione.

Le promesse delle emissioni negative

Nel recente saggio Sotto un cielo bianco (Neri Pozza, 2022), la giornalista scientifica Elizabeth Kolbert racconta del suo incontro con l’ingegnere Klaus Lackner, ideatore circa mezzo secolo fa del concetto di “emissioni negative” nonché fondatore del Center for Negative Carbon Emissions dell’Arizona State University. Lackner intuì che, estraendo grosse quantità di CO2 dall’atmosfera, fosse possibile ottenere delle emissioni negative in grado di bilanciare quelle positive e di prelevare i depositi di emissioni storiche.

Non si tratta di un’ipotesi fantascientifica, anzi: ingegneri e scienziati usano regolarmente sistemi di filtraggio della CO2 da flussi di gas per consentire la respirazione nei locali a tenuta stagna di sottomarini e stazioni spaziali. L’obiettivo dei progetti CCS è in sostanza quello di salire di scala per assorbire in maniera efficiente il diossido di carbonio dall’atmosfera, cosa che oggi si tenta di fare con diversi approcci.

Tecniche biologiche, tecnologiche e geochimiche

Come raccontano le scienziate del clima Annalisa Cherchi e Susanna Corti nel saggio Clima 2050 (Zanichelli, 2022), la cattura e lo stoccaggio del carbonio atmosferico può basarsi su processi biologici, tecnologici o geochimici. Il sequestro biologico sfrutta i “pozzi” di carbonio naturali aumentandone l’estensione o la capacità di cattura, come nel caso dell’imboschimento attraverso le cosiddette BECCS (bioenergie con cattura e sequestro del carbonio). Uno studio pubblicato qualche anno fa sulla rivista Science, tanto citato quanto criticato, stimava che piantando mille miliardi di alberi sarebbe possibile rimuovere dall’atmosfera fino a duecento miliardi di tonnellate di carbonio nell’arco di qualche decennio.

I sistemi di sequestro tecnologico ricorrono invece a imponenti apparecchiature meccaniche per rimuovere il diossido di carbonio direttamente dall’aria (DAC, Direct Air Capture) o dai gas di scarico dei processi industriali, liquefarlo e immagazzinarlo in depositi sotterranei. Il sequestro geochimico, infine, si fonda sull’approccio contrario: anziché iniettare CO2 a grandi profondità, con la tecnica della “meteorizzazione arricchita” si propone di portare in superficie la roccia basaltica in modo che reagisca con la CO2, oppure di cospargere gli oceani di polvere d’olivina per aumentare la loro capacità di assorbire CO2, riducendone al contempo l’acidità.

Secondo Kolbert, l’inclusione dei progetti di cattura e sequestro del carbonio negli scenari di decarbonizzazione dell’IPCC rende bene l’idea di quanto l’umanità faccia ormai affidamento su questo genere di soluzioni. Già oggi tutti gli scenari climatici per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C rispetto i livelli preindustriali contemplano il ricorso alle emissioni negative, così come la quasi totalità degli scenari con soglia di riscaldamento a 2° C. Tuttavia, ognuna di queste tecniche di sottrazione del carbonio atmosferico – biologiche, tecnologiche o geochimiche – presenta vantaggi e svantaggi, e allo stato attuale è ancora prematuro ipotizzare quale approccio possa contribuire realisticamente all’assorbimento efficace (ed efficiente) delle emissioni.

Pregi e difetti delle BECCS

I modelli utilizzati dall’IPCC sembrano prediligere l’approccio del sequestro biologico, poiché le BECCS offrono contemporaneamente la possibilità di generare elettricità da biomassa rinnovabile ed emissioni negative nel caso in cui il carbonio liberato dalla loro combustione venga catturato dagli scarichi delle centrali. Il primo progetto pilota basato sull’approccio delle BECCS è entrato in funzione nel 2019 in Regno Unito, in una centrale elettrica che produce energia bruciando pellet di legno e filtra la CO2 di scarto.

Sul sequestro del carbonio attraverso l’imboschimento e la coltivazione d’alberi si basa anche il mercato di compensazione delle emissioni (ETS), che sulla carta dovrebbe permettere alle aziende inquinanti di mitigare la propria impronta di carbonio acquistando dei crediti da progetti virtuosi con emissioni negative. A quanto pare, però, il mercato delle compensazioni è quasi monopolio di un unico ente certificatore, la Verra, accusata da un primo studio del 2020 e da un secondo del 2022 di aver emesso certificati di tutela delle foreste esistenti del tutto privi di valore reale. Già nel 2019 un’inchiesta di ProPublica gettava luce sulla “scomoda verità” del sistema di compensazione del carbonio e sull’opacità dei meccanismi di regolazione.

Con le BECCS c’è poi il rischio che, all’aumentare del prezzo del carbonio nel mercato delle emissioni, il carbon farming possa diventare più redditizio delle attività agricole tradizionali, cosa che sta già avvenendo in Paesi che, come la Nuova Zelanda, hanno liberalizzato più di altri il sistema delle quote di emissione. Le BECCS richiedono un grande consumo di suolo, e gli addetti ai lavori non escludono che si possano innescare dinamiche speculative sulla destinazione d’uso dei terreni agricoli soprattutto nel Sud del mondo. Non c’è poi alcuna garanzia che il carbonio sequestrato possa essere immagazzinato in depositi sicuri e permanenti, ma questo è un problema che riguarda tutte le tecniche di stoccaggio.

Usi e abusi delle DAC

A differenza delle BECCS, il sequestro tecnologico non pone rischi di land grabbing e conversione speculativa di vaste zone agricole in serbatoi di carbonio. Viste in azione, le tecnologie DAC per la cattura diretta di CO2 ricordano delle grosse pompe di calore: aspirano il diossido di carbonio dall’aria e l’incanalano verso dei filtri che, una volta saturi, vengono riscaldati a 100° C per rilasciare il CO2 concentrato.

Questo incontra poi molteplici destini. Può essere scambiato nel mercato di compensazione del carbonio o utilizzato in molteplici processi industriali, come nella produzione di bevande gassate, di combustibili sintetici o di ortaggi da serra in “concimazione arricchita” (in questo caso si parlerà di CCU, cattura e utilizzo del carbonio). In alternativa, la CO2 catturata può essere reiniettata direttamente nei giacimenti di petrolio per intensificarne l’estrazione in un processo noto come “recupero avanzato del petrolio” (qui l’acronimo è CCUS, cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio). Infine, può essere sequestrato in maniera permanente in depositi geologici senza alcun impiego intermedio (CCS, cattura e stoccaggio del carbonio).

Un recente rapporto dell’Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA) ha sollevato non poche perplessità sull’impiego, le performance e la sicurezza dello stoccaggio del carbonio per mezzo delle tecnologie CCUS. Pare che molti dei maggiori progetti privati di questo tipo stiano deludendo le aspettative: l’impianto La Barge, ad esempio, di proprietà dell’industria fossile Exxon Mobil, ha mostrato una capacità di cattura del 36% inferiore rispetto alle attese, mentre l’impianto Gorgon della Chevron addirittura del 50% in meno rispetto ai piani.

In assenza di regolamenti vincolanti e di un quadro normativo di controlli efficaci, solo un quarto del diossido di carbonio prelevato da questi impianti viene direttamente immagazzinato sottoterra, mentre gli altri tre quarti vengono pompati nei giacimenti di petrolio per intensificarne l’estrazione. Motivo per cui gli autori del rapporto dell’IEEFA si domandano apertamente se questo impiego delle DAC possa rappresentare davvero una delle soluzioni al riscaldamento globale, o se dietro la confusione terminologica di sigle e acronimi non vi sia piuttosto il greenwashing dell’industria dei combustibili fossili che punta a estendere i propri profitti.

I costi della rimozione del carbonio

Per quanto critico sullo stato attuale delle CCS, il rapporto dell’IEEFA non manca di mettere sulla bilancia pregi e difetti reali del sequestro tecnologico del CO2. Ad oggi, catturare diossido di carbonio dall’atmosfera richiede processi molto più costosi ed energivori che sequestrarlo da una fonte di emissione come gli scarichi di una centrale elettrica alimentata a gas o le ciminiere di un cementificio, essendo la CO2 diluita agli altri gas atmosferici. Fintantoché l’energia che alimenta le macchine per il sequestro del carbonio viene prodotta bruciando combustibili fossili, la quantità di carbonio da catturare non farà che aumentare.

Al momento l’azienda svizzera Climeworks è proprietaria dell’impianto di rimozione del carbonio più avanzato ed efficiente al mondo, attivo ormai da qualche anno in Islanda: per compensare le emissioni delle aziende che ne fanno richiesta trasformando la CO2 in roccia, addebita circa 1.000 dollari a tonnellata. Crescendo di scala, l’azienda punta ottimisticamente di arrivare a un prezzo minimo di 100 dollari a tonnellata, ma anche a quella cifra un contributo consistente all’abbattimento delle emissioni sarebbe proibitivo – si pensi che, globalmente, nel 2022 sono stati emessi circa 37 miliardi di tonnellate di CO2, esclusi gli altri gas a effetto serra.

Allo stato attuale delle CCS tutto lascia immaginare che sia molto più semplice ed economico ridurre le emissioni piuttosto che tentare di assorbirle una volta emesse. L’abbattimento delle emissioni rimane l’obiettivo primario delle politiche di mitigazione, e solo le emissioni storiche o inevitabili dovrebbero rientrare nei programmi di sequestro di CO2. L’ambito di applicazione ideale delle CCS è forse quello dei cosiddetti settori hard to abate, cioè in cui rinunciare ai combustibili fossili è più difficile, come il trasporto aereo o la produzione di cemento e acciaio, le cui emissioni andrebbero comunque ridotte il più possibile.

In futuro, macchine di piccole dimensioni per la cattura diretta del CO2 potrebbero essere installate sui tetti delle case, visto che per funzionare hanno bisogno soltanto di elettricità e calore: il fatto che possano essere accese e spente senza difficoltà le rende del tutto compatibili con la variabilità e la sovrapproduzione di energia elettrica da fonte solare ed eolica, da sempre considerati punti deboli delle rinnovabili intermittenti. Le prospettive non mancano, ma la strada da fare per un impiego davvero credibile delle CCS nei programmi di decarbonizzazione è ancora tutta in salita.

Foto in apertura di Ralf Vetterle da Pixabay
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Manifestazione contro il cambiamento climatico (immagine: Callum Shaw via unplash)

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Emissioni totali di CO2 e loro cambiamento annuale dal 1900 al 2021 (immagine: IEA)

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Proiezione dal 2020 al 2030 del CO2 che dovrebbe essere catturato da sistemi DAC (Mt/anno): in blu i progetti avanzati, in verde i progetti in sviluppo iniziale, in giallo la quota di diossido di carbonio da sequestrare in uno scenario Net Zero (immagine: IEA)

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Rimozione di CO2 (Gt/anno) nel 2020 e in tre scenari compatibili con gli Accordi di Parigi. Oltre all’abbattimento delle emissioni, la cattura e lo stoccaggio di CO2 rientra in tutti e tre gli scenari qui evidenziati (immagine: University of Oxford’s Smith School of Enterprise and the Environment)

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I sistemi BECCS sfruttano le biomasse per sottrarre carbonio all’atmosfera e stoccarlo in depositi geologici sotterranei (immagine: sciencedirect.com)

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Nei sistemi CCUS il CO2 catturato viene reiniettato direttamente nei giacimenti di petrolio per intensificarne l’estrazione in un processo noto come “recupero avanzato del petrolio” (immagine: ieefa.org)