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L’acqua potabile

Anche se quella del rubinetto è buona e sicura, l’Italia è agli ultimi posti in UE per l’accesso sostenibile all’acqua. Cosa accade alla nostra rete idrica?

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“Nulla è mai esistito di più grandioso in tutto il mondo”. Con queste parole entusiastiche Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) descriveva nella sua Storia Naturale il progresso portato dagli acquedotti. A ragione: gli enormi archi, le gallerie aperte nei monti e le condutture, lunghe anche decine e decine di chilometri, facevano sì che la migliore acqua disponibile – quella delle sorgenti montane – fosse trasportata senza interruzioni al milione di persone che abitavano l’antica Roma. Si trattava di una tecnologia, secondo il sovrintendente degli acquedotti Giulio Frontino (40-104 dC), che superava in straordinarietà tutte le proverbiali sette meraviglie dell’antichità.

Dopo una grande parentesi in cui gli acquedotti caddero in disuso - costringendo gli europei a cercare nuovamente l’acqua di qualità sottoterra, a partire dal XIX secolo l’idea di trasportare acqua potabile direttamente agli edifici divenne nuovamente possibile. E simbolo di progresso.

Il ritorno degli acquedotti seguì le numerose epidemie del secolo – il colera in primis – che avevano fatto crescere la consapevolezza dell’importanza sanitaria dell’acqua “sana” e fu reso possibile dai progressi dell’ingegneria (il primo sistema di trattamento delle acque fu messo a punto in Scozia a inizio 1800 da Robert Thom). Di riflesso, gli ordinamenti giuridici cominciarono gradualmente a introdurre la necessità di garantire ai cittadini acqua di qualità: la prima norma di tutela di una fonte idrica è del 1876 (Rivers Polluction Prevention Act); la prima legge italiana che obbliga i Comuni a dotarsi di acqua “potabile, riconosciuta pura e di buona qualità” è invece del 1888 (legge Crispi-Pagliani).

Un Paese connesso all’acqua

Oggi l’ultimo censimento ISTAT (2020) ha fotografato un’Italia connessa quasi totalmente agli acquedotti: il 99,9% degli italiani vive in un Comune dotato di tali infrastrutture, seppur la loro gestione appaia piuttosto frammentata (esistono più di 1.600 enti gestori). Più di un terzo dell’acqua che finisce nei nostri rubinetti viene prelevata da fonti di montagna (35,8% delle fonti); quasi la metà dell’acqua (48,9%) viene invece da un pozzo in pianura. Decisamente minori sono le percentuali delle captazioni di acqua di superficie (il 10,1% dei prelievi è fatto in un bacino e il 5% da un fiume), mentre l’uso di acqua di mare – estremamente costosa in quanto va trattata con dissalatori assai energivori – è irrisorio.

La potabilizzazione

L’acqua è uno dei prodotti alimentari più regolamentati e monitorati. Essendo prelevata da fonti che possiedono una diversa qualità originaria – l’acqua di una sorgente montana è infatti ben diversa da quella di un fiume verso la sua foce – ogni sistema acquedottistico adotta un distinto set di tecnologie per produrre acqua salubre e pulita, a norma di legge.

I trattamenti in uso vanno dalla filtrazione con sabbia e ghiaia, ai carboni attivi, fino alla chiariflocculazione, necessaria per gran parte delle acque superficiali. Il processo a cui viene sottoposta tutta l’acqua prelevata, tranne sparute eccezioni di straordinaria qualità della risorsa, è quello della disinfezione (con cloro, ozono o altri sistemi) con cui si scongiura la presenza di microrganismi patogeni. L’acqua è resa così “adatta al consumo umano”.

E allora perché fatichiamo a raggiungere un accesso sostenibile all’acqua?

L’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) produce ogni anno un documento che descrive quanto l’Italia riesce ad avvicinarsi ai 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, la cosiddetta Agenda 2030. L’ultimo rapporto assegna un peggioramento al nostro Paese nella realizzazione dell’Obiettivo 6 (Acqua pulita e igiene). Siamo quart’ultimi tra i Paesi UE. Il motivo è legato essenzialmente a tre fattori:

  • l’inefficienza della rete idrica;
  • le irregolarità del servizio;
  • la sfiducia nella qualità dell’acqua erogata.

Tubi che perdono

Il tema delle dispersione dell’acqua degli acquedotti prende spesso spazio sui media ed è cruciale in un mondo in cui la disponibilità di acqua è sempre minore e in cui molte città italiane sono costrette d’estate ad adottare misure di razionamento idrico. Una certa inefficienza è ritenuta fisiologica: l’AWWA (American water work association) ritiene che un 10% di dispersione sia accettabile, perché portare il dato sotto questa soglia implicherebbe costi superiori ai benefici. Gli ultimi dati ISTAT (2020) però fotografano in Italia una realtà ben diversa: si stima che non arrivi a destinazione 42,2% della risorsa immessa in rete. È un dato altissimo, il maggiore misurato negli ultimi 20 anni. Questo spiega perché molti fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza siano dedicati all’efficientamento delle reti idriche, anche se, secondo il rapporto ASviS, le misure nel loro complesso non sono sufficienti. Inoltre quasi il 10% delle famiglie italiane nel 2022 ha lamentato irregolarità nella distribuzione dell’acqua.

Rubinetti sempre aperti

Un’altra criticità è relativa all’efficienza deriva dall’enorme consumo di acqua potabile fatto dagli italiani, il più alto d’Europa. Se infatti la media UE di consumo di acqua potabile – secondo Eurispes – è di 123 litri al giorno per abitante, un italiano ne utilizza invece mediamente 215 litri ogni giorno (un dato al netto delle perdite di rete, che fanno alzare il dato medio a 373 litri per abitante al giorno). Secondo Giulio Conte, fondatore dell’Istituto Ambiente Italia, tutta questa acqua potabile che arriva nelle case è usata soprattutto per l’igiene personale e per lo sciacquone del WC (60%); il bucato incide con un altro 12% e analoga percentuale della risorsa viene usata per cucinare.

Rubinetto o non rubinetto? Questo è il problema

Un tema molto importante nel nostro Paese è quello della fiducia nella bontà dell’acqua di rubinetto. Un enorme percentuale di italiani – quasi un terzo delle famiglie (29,4%, ISTAT 2022) – infatti non beve la cosiddetta “acqua del sindaco”. Il dato va accoppiato a un altro: gli italiani sono tra i maggiori consumatori mondiali di acqua minerale in bottiglia (i cittadini del Bel Paese sono al secondo posto per consumo pro-capite, al primo ci sono i messicani), un’acqua data in concessione privata, proveniente da sorgenti e falde sotterranee e spesso commercializzata in contenitori di plastica. Secondo una recente indagine i motivi di questo straordinario consumo italiano di acqua in bottiglia sono da ricercarsi nella miglior percezione del gusto dell’acqua minerale, nella sua azione specifica sulla salute e nella sua presunta maggiore sicurezza.

L’acqua in bottiglia però non ha un miglior effetto sulla salute rispetto a quella di rubinetto. La convinzione è un retaggio del passato: un tempo infatti le “acque minerali” erano per definizione acque curative – il che è il motivo per cui tradizionalmente sono normate con regole diverse dalle acque potabili destinate invece al largo consumo umano – ma dal 1999 la loro azione favorevole sulla salute non è più richiesta per legge. Anzi, per alcune acque minerali non è consigliato un consumo continuativo.

Anche il tema della sicurezza non ha particolari fondamenti. Posto che sia gli acquedotti che le aziende imbottigliatrici tutelano le zone di captazione dell’acqua definendo aree di protezione e salvaguardia, chi produce acqua minerale naturale è obbligato per legge a comunicare una sola volta all’anno i parametri di qualità dell’acqua e di garantirne il rispetto fino al punto di imbottigliamento. Molto più frequenti invece sono i controlli negli acquedotti, condotti sia internamente dal gestore dell’acquedotto che esternamente dalle locali Aziende sanitarie e agenzie per la protezione ambientale. Il numero di controlli dipende dai volumi messi in rete – e quindi dalle dimensioni della comunità servita – e vanno da alcune decine all’anno in piccole città a qualche migliaio in quelle più grandi. La garanzia della potabilità dell’acqua della rete avviene poi fino al cosiddetto punto di consegna, ovvero dove finiscono i tubi dell’acquedotto e iniziano quelli dell’edificio servito.

È invece molto probabile che nella scelta relativa a cosa bere incida il gusto. In effetti le norme prevedono che l’acqua minerale naturale non possa essere disinfettata da microbi (per il fatto che il loro “microbismo” originario, non patogeno, è ritenuto una caratteristica da preservare) né su di essa si possano condurre altri trattamenti di potabilizzazione. Se ciò da un lato obbliga le aziende imbottigliatrici a grandi precauzioni a livello estrattivo – pena il blocco della produzione – dall’altro incide positivamente sulle sue caratteristiche organolettiche (nessuna acqua in bottiglia saprà mai di cloro).

Una legge per l’acqua sicura

L’acqua di rubinetto, intanto, sta diventando sempre più sicura. Nel febbraio 2023 è stata infatti pubblicata una nuova norma che, recependo una direttiva europea (la 2020/2184), promette di riformare il sistema dell’acqua potabile, in primo luogo sul tema della sicurezza. La nuova legge infatti non solo aggiorna i parametri microbiologici e chimici con nuove sostanze tossiche da tenere sotto controllo quando si analizza l’acqua – così da inglobare le ultime evidenze scientifiche e sostanze emergenti come PFAS e microplastiche – ma chiede anche agli acquedotti di promuovere un approccio preventivo ai rischi. Entro gennaio 2029 gli enti gestori dovranno quindi stilare speciali Piani di Sicurezza Acqua seguendo linee guida elaborate dall’Istituto superiore di sanità, valutando i rischi nelle varie fasi di approvvigionamento, identificando i pericoli potenziali e mettendo in campo ancor più efficienti misure di controllo e di riduzione del rischio.

Un’ulteriore novità della riforma è l’obbligo di garantire la potabilità dell’acqua nei locali non solo fino al punto di consegna, ma fino al punto di utenza (ovvero il rubinetto). In questo caso il responsabile della qualità dell’acqua è il cosiddetto “gestore della distribuzione idrica interna” ovvero il proprietario dei tubi di un edificio.

La nuova legge prevede anche che vengano fornite informazioni più trasparenti ai cittadini sulla qualità delle acque fornite, sui consumi per ogni famiglia (in maniera da incentivare il risparmio idrico) e sul prezzo per litro dell’acqua erogata, così da consentire un confronto con il prezzo dell’acqua in bottiglia. Per far sì che possiamo decidere consapevolmente cosa versare nel bicchiere.

Se vuoi sapere di più dei PFAS, i cosiddetti inquinanti eterni, oggi al centro dell’attenzione di quanti si occupano di sicurezza ambientale, in particolare della qualità delle acque, puoi ascoltare la nostra intervista a Gianluca Liva, giornalista ambientale di Radar Magazine, che è stato insieme a decine di colleghi in giro per l’Europa uno degli autori dell’inchiesta The Forever Pollution Project sui PFAS.

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Acquedotto romano (immagine: Wikipedia)

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Dissalare il mare con impianti a osmosi inversa non è conveniente. Inoltre la qualità dell’acqua dolce prodotta in questo modo è scarsa (immagine: ShutterRoman via Shutterstock)

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Censimento delle acque per uso civile (fonte: ISTAT)

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Il rubinetto è chiamato tecnicamente il punto di utenza, da non confondere con il punto di consegna (immagine: Unplash)

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Quasi un terzo delle famiglie italiane non beve l’acqua dell’acquedotto (immagine: congerdesign from Pixabay)

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Lo stemma del Comune di Modena porta ancora gli emblemi della sfida medioevale della ricerca dell’acqua sotterranea: dietro lo scudo si intravedono due trivelle per lo scavo di pozzi. Il motto cittadino Avia pervia significa proprio rendere accessibile l’inaccessibile (immagine: Wikipedia)

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Complessità e costo delle tecnologie dei sistemi di potabilizzazione delle acque (fonte: Ministero della Salute)

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Il sesto obiettivo dell’Agenda 230 vuole garantire la gestione sostenibile dell’acqua (immagine: ASviS)