Nell’estremo Nord del pianeta le temperature stanno salendo più in fretta del previsto mettendo in allarme i climatologi, che temono possa essere il preludio di una brusca accelerazione del riscaldamento globale. Uno studio pubblicato in agosto sulla rivista scientifica Communications Earth & Environment ha infatti svelato che dal 1979 a oggi le temperature dell’Artico sono aumentate quattro volte più rapidamente rispetto alla media mondiale. Un risultato inatteso anche per gli stessi ricercatori dell’Istituto di meteorologia finlandese che hanno raccolto e analizzato i dati. Sebbene fosse già noto che le regioni attorno al Polo Nord sono più esposte al riscaldamento globale, finora si riteneva che l’Artico si stesse scaldando al doppio della velocità media, non al quadruplo.
L’amplificazione artica
Il riscaldamento del pianeta non è uniforme. Quando si parla di aumento della temperatura globale, si intende in realtà la media delle temperature misurate nelle diverse regioni della Terra. Neppure nell’Artico il riscaldamento è uniforme: secondo l’Istituto di meteorologia finlandese, nel Mare di Barents, che si estende a Nord della Norvegia e della Russia, l’aumento delle temperature avviene addirittura a una velocità di sette volte maggiore rispetto alla media globale. È il luogo della Terra che oggi si scalda più in fretta.
Questo fenomeno è chiamato “amplificazione artica” ed è dovuto a un circolo vizioso tra il ritiro dei ghiacci e il riscaldamento del pianeta. Le superfici ghiacciate riflettono infatti oltre la metà della luce solare, contribuendo a tenere basse le temperature, ma quando cominciano a ritirarsi a causa dei cambiamenti climatici, lasciano spazio alla superficie dell’oceano che, al contrario, essendo più scura, assorbe il 90% del calore. Più diminuisce l’estensione delle calotte polari, meno radiazione viene riflessa dai ghiacci e più aumenta il calore assorbito dall’oceano, che a sua volta accelera la fusione delle superfici ghiacciate, amplificando così il riscaldamento dell’Artico.
Dall’Alaska alla Siberia
Molti effetti della crisi climatica sono già evidenti nell’intera regione artica, cioè l’area situata a nord del Circolo polare artico, che comprende il Mar Glaciale Artico e le terre più settentrionali dell’Europa, dell’Asia e del Nord America. Ogni estate, persino a queste latitudini estreme, divampano giganteschi incendi che liberano in atmosfera milioni di tonnellate di CO2, contribuendo al riscaldamento del pianeta.
In Groenlandia la massa dei ghiacci che fonde nel periodo estivo non è più compensata dall’accumulo di neve e ghiaccio che si forma d’inverno, spezzando così un equilibrio millenario. Neppure gli scenari climatici più pessimistici dell’IPCC, il gruppo intergovernativo di esperti sul clima delle Nazioni Unite, avevano previsto che potesse avvenire qualcosa del genere prima del 2050.
Questo fenomeno è favorito sia dall’aria più calda, sia dall’aumento della temperatura oceanica, che accelera lo scorrimento dei ghiacciai verso il mare e il successivo distacco degli iceberg. Tra il 1992 e il 2018 la calotta della Groenlandia ha perso 3.800 miliardi di tonnellate di ghiaccio, contribuendo a un innalzamento del livello medio dei mari di circa un centimetro. Se la fusione dei ghiacci in Groenlandia continuerà a questo ritmo, farà salire i mari del pianeta di 7-13 centimetri entro la fine del secolo. Potrebbe sembrare poco, ma in realtà si stima che per ogni centimetro in più del livello medio dei mari, altre sei milioni di persone saranno danneggiate dalle inondazioni costiere.
In Canada e in Alaska ha perfino cominciato a scongelarsi il permafrost, uno strato di terreno perennemente ghiacciato che può arrivare fino a cento metri di profondità e dove da millenni sono intrappolate enormi quantità di materia organica ricca di carbonio. Se il permafrost si scioglie, il carbonio può essere trasformato dai microrganismi in gas metano, un potente gas serra che, pur restando meno tempo in atmosfera rispetto al CO2, ha un effetto sul riscaldamento globale ottanta volte superiore.
Come un canarino nella miniera
Persino quando l’ha visto con i suoi stessi occhi, Vladimir Romanovsky, geofisico della University of Alaska Fairbanks, non voleva crederci: il permafrost ha iniziato a scongelarsi 70 anni prima del previsto. La sua spedizione si trovava in uno sperduto avamposto dell’artico canadese, una base radar abbandonata dopo la fine della Guerra fredda a oltre 300 chilometri dal villaggio più vicino. Dove il terreno era rimasto ghiacciato per millenni, ora c’erano stagni e depressioni su cui cresceva una folta vegetazione.
Romanovsky ha raccontato all’agenzia di stampa Reuters che il paesaggio era irriconoscibile: ricordava gli effetti di un bombardamento. La scoperta è stata pubblicata nel 2019 sulla rivista Geophysical Research Letter. «È come un canarino nella miniera di carbone», ha commentato Louise Farquharson, coautrice dello studio, riferendosi agli uccellini che i minatori usavano come segnale d’allarme: se d’improvviso soffocavano e smettevano di cantare, significava che c’era una fuga di gas. Per i climatologi il permafrost rappresenta qualcosa di simile: se infatti dovesse scongelarsi, rilascerebbe in atmosfera enormi quantità di gas serra, accelerando in modo drammatico il riscaldamento globale. Quel che oggi accade all’Artico – come un canarino in una miniera di carbone – potrebbe anticipare le sorti dell’intero pianeta.
Effetto domino
Il rischio peggiore è che possano innescarsi imprevedibili effetti a catena, perché l’Artico agisce come un condizionatore planetario nel regolare il clima dell’emisfero Nord. Già oggi le acque oceaniche più calde favoriscono la fusione dei ghiacci e aumentano di volume per dilatazione termica, alzando il livello medio dei mari e rischiando di rendere inabitabili molte regioni costiere, anche a causa di inondazioni più frequenti e distruttive.
Secondo i modelli climatici più recenti, inoltre, il rapido riscaldamento dell’Artico può modificare le correnti marine e atmosferiche. Per esempio, se l’Artico si scalda più in fretta, si riduce la differenza di temperatura con le regioni temperate e tropicali, e poiché la forza dei venti dipende da questa differenza di temperatura, la circolazione atmosferica rischia di essere stravolta intensificando gli eventi climatici estremi: ondate di calore estive più frequenti, periodi di siccità prolungati, precipitazioni a carattere alluvionale. D’inverno, il cosiddetto vortice polare, che in passato era confinato nelle regioni artiche, è diventato più instabile e si pensa che sia responsabile dei picchi di freddo estremo che negli ultimi anni hanno colpito le regioni settentrionali di Stati Uniti, Europa e Asia.
Ecco perché si dice spesso che quel che accade nell’Artico non resta confinato nell’Artico. E spiega perché di recente molti climatologi abbiano messo da parte ogni prudenza per avvertire che eventi un tempo eccezionali adesso rischiano di ripetersi sempre più spesso, diventando la nuova terribile normalità. Già nel 2019, António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ammoniva che senza azioni urgenti contro la crisi climatica «questi eventi estremi saranno solo la punta dell’iceberg e l’iceberg si sta rapidamente sciogliendo».
Gli effetti sugli ecosistemi
Il rapido incremento delle temperature artiche non solo riduce l’estensione dei ghiacci, ma causa anche il loro assottigliamento, un fenomeno più difficile da osservare ma che preoccupa molto gli scienziati. Il ghiaccio più sottile facilita infatti la fusione dell’estate successiva e mette in pericolo le specie che dipendono dalla presenza della banchisa per cacciare e sopravvivere, come orsi polari, trichechi e narvali. Ma gli effetti a cascata coinvolgono le reti alimentari dell’intero ecosistema, dal fitoplancton ai grandi predatori.
L’alterazione delle condizioni climatiche mette in difficoltà le specie migratorie, scombussolate da estati che cominciano in anticipo e inverni che tardano ad arrivare. L’Artico ospita metà dei volatili marini del mondo e il 15% degli uccelli migratori si riproduce in queste regioni. Alcune popolazioni di caribù della tundra sono già state decimate in pochi anni, mentre le piogge più frequenti privano le renne dei pascoli di licheni, che restano intrappolati sotto un sottile strato di ghiaccio, tanto che alle isole Svalbard le renne sono costrette a spingersi fino alla costa per nutrirsi di alghe. A tutto ciò si aggiunge l’aumento della pressione antropica: le temperature più miti favoriscono i progetti di sfruttamento dell’Artico, con la costruzione di strade, porti, miniere, impianti di estrazione di combustibili fossili e insediamenti umani che si spingono sempre più a Nord, interferendo con la fauna e gli ecosistemi.
La folle corsa all’Artico
Oggi nell’Artico vivono circa quattro milioni di persone che possono vedere con i loro stessi occhi gli effetti dei cambiamenti climatici sul paesaggio. Mentre si costruiscono nuove città, altre sprofondano per l’instabilità del terreno un tempo ghiacciato. Come accade alle cosiddette «foreste ubriache» della taiga artica, in cui gli alberi crescono inclinati in ogni direzione a causa delle depressioni create dallo scioglimento del permafrost, anche strade, edifici e impianti industriali sprofondano per l’aumento delle temperature. Nel maggio del 2020, le fondamenta di un serbatoio della compagnia mineraria russa Norilsk Nickel hanno ceduto di schianto riversando nell’ambiente oltre ventimila tonnellate di gasolio e provocando uno dei peggiori disastri ecologici della Russia. In Siberia intere città sono state costruite confidando nella stabilità del permafrost oggi minacciata dal riscaldamento globale.
Tuttavia, sebbene possa sembrare un paradosso, più i ghiacci si ritirano, più si moltiplicano i tentativi di accaparrarsi le risorse custodite nell’Artico, che rischia di diventare un trafficato crocevia di rotte commerciali e una terra di conquista per l’industria dei combustibili fossili. Oltre al rischio di incidenti che potrebbero coinvolgere le piattaforme di estrazione offshore o le navi che trasportano gas e petrolio, contaminando in modo irreversibile un ambiente fragile e prezioso, la comunità scientifica avverte che, per rispettare gli accordi sul clima ed evitare gli scenari peggiori del riscaldamento globale, è essenziale lasciare sottoterra i giacimenti di gas e petrolio non ancora sfruttati. I modelli climatici indicano che ogni decimo di grado in più nella temperatura media del pianeta può avere profonde ripercussioni sulle nostre possibilità di adattamento alla crisi climatica. Proteggere l’Artico significa proteggere il clima e la sicurezza delle persone in ogni regione del pianeta.
Isole Svalbard (foto: Giancarlo Sturloni)
L’area geografica dell’Artico, o Artide (immagine: Wikipedia)
L’estensione della copertura del ghiaccio artico fra il 1979 e il 2021. Si possono osservare sia le oscillazioni stagionali, sia l’andamento decrescente nel corso degli anni (immagine: statista.com)