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Atlanti del passato

Facciamo un viaggio alla scoperta della paleogeografia, la disciplina che si occupa di ricostruire la geografia della preistoria del nostro pianeta

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Oggi sappiamo che la Terra, in passato, era un luogo diverso. Per esempio sappiamo che una volta i continenti erano uniti in un’unica enorme massa, la Pangea; e sappiamo che ancora prima l’Africa era vicina al Polo Sud, e così via. Possiamo vederlo, come in un film. I movimenti della crosta terrestre infatti sono lentissimi, ma nel corso di milioni di anni hanno stravolto completamente l’aspetto del pianeta. 

A ricostruire questo film, fotogramma per fotogramma, è una branca della geologia che si chiama paleogeografia. Nasce idealmente già nella metà del XIX secolo, quando i geografi Antonio Snider-Pellegrini e Eduard Suess proposero indipendentemente, per la prima volta, che i continenti potevano essersi spostati, in passato – e mostrarono quindi ipotetiche ricostruzioni della Terra passata.

È però dall’inizio del Novecento, con Alfred Wegener, che diffuse e infine conquistò la comunità scientifica con la teoria della deriva dei continenti, che si può parlare davvero di paleogeografia. Nel suo “La formazione dei continenti e degli oceani” del 1915, Wegener includeva già ricostruzioni geografiche delle posizioni dei continenti dal Carbonifero a oggi, non troppo dissimili, nelle linee generali, da quelle attuali.

Conoscere la geografia del passato è fondamentale per comprendere il contesto in cui si è evoluta la vita sulla Terra e in cui sono nate le formazioni geologiche attuali. Oggi possiamo ricostruire, sia pure con diversi gradi di accuratezza, l’aspetto della Terra fino a 500-1000 milioni di anni fa, e in alcuni casi anche oltre. Ma non è solo di interesse accademico: mappe della geografia del passato sono un’ottima guida, per esempio, per identificare giacimenti minerari o petroliferi.

Come è possibile ricostruire l’aspetto del pianeta milioni di anni fa? Giochiamo a un puzzle che si sviluppa nel tempo, oltre che nello spazio, e i cui bordi sono nascosti negli strati delle rocce o nei fondali degli oceani. Non esiste un singolo metodo per risolverlo: è necessario mettere insieme gli indizi più disparati nascosti nelle rocce e tentare di ottenere un quadro coerente. Ed è un lavoro tuttora in corso.

Cari vicini lontani lontani

Il primo e più fondamentale passaggio è ricostruire le posizioni dei continenti – e quindi delle placche tettoniche – in una data epoca. In alcuni casi può bastare osservare le forme stesse dei continenti per avere dei sospetti: la teoria della deriva dei continenti del resto è nata con l’osservazione che le coste atlantiche di Africa e Sudamerica sembrano incastrarsi come pezzi di un puzzle. Ma prima ancora che venisse proposta la deriva dei continenti, gli scienziati avevano osservato fatti difficili da spiegare.

Negli strati geologici, specie identiche di piante o animali si trovavano regolarmente in continenti ora separati da migliaia di chilometri di oceano. Allo stesso modo, piante e animali chiaramente imparentati tra loro si trovano oggi lontani. È per esempio il caso dei marsupiali, presenti in Australia e in Sudamerica, dalle due parti opposte dell’oceano Pacifico, a migliaia di chilometri di distanza.

Per spiegarlo Joseph Dalton Hooker, naturalista e esploratore, aveva ipotizzato nel XIX secolo che i continenti in passato fossero connessi da “ponti” di terra ora sommersi. Oggi sappiamo che questo dipende dal fatto che continenti oggi distanti erano una volta uniti in un’unica massa continentale. La distribuzione di fauna e flora fossile ci dice, quindi, quando e quali continenti erano uniti tra loro. Il tipo di specie inoltre ci può dare dati sulle condizioni climatiche presenti all’epoca e, quindi, dirci se quelle regioni erano ai tropici, o in zone temperate.

Viceversa, i fossili ci possono dire anche quando regioni diverse erano separate, se ritroviamo faune diverse sui due lati di quello che ora è un’unica terra. Per esempio, nel Cretaceo le metà orientali e occidentali del continente nordamericano erano separate da un braccio di mare in due terre emerse: Laramidia a occidente e Appalachia a oriente. Le specie di dinosauri che si trovano a oriente e occidente del nord America sono, quindi, differenti, essendosi evolute separatamente per milioni di anni.

Anche senza fossili, le rocce tengono memoria delle posizioni dei continenti. Formazioni geologiche simili risalenti alla stessa epoca possono venir fatte combaciare l’una con l’altra, fornendo ulteriori punti di appoggio. Alcune rocce inoltre si formano solo in particolari condizioni climatiche: la bauxite o il carbone richiedono condizioni umide e calde. Viceversa, altre rocce possono conservare tracce di erosione da parte di ghiacciai, come le tilliti, indicando che quella regione si trovava a latitudini vicine ai poli. Come per i fossili, se troviamo segni di condizioni climatiche simili in una stessa epoca in zone oggi distanti, possiamo ipotizzare che tali zone fossero vicine o, perlomeno, nella stessa fascia climatica.

Già ai tempi di Wegener, l’insieme di questi indizi aveva permesso di ricostruire almeno grossolanamente le posizioni dei continenti. Per esempio, i giacimenti di carbone del Carbonifero dovevano essersi formati in una zona tropicale; mettendo “in fila” i giacimenti di carbone risalenti a quell’epoca è possibile ricostruire in parte come dovevano essere disposti i continenti vicino all’Equatore.

Bussole fossili e oceani a strisce

Questi dati ci dicono quali erano le posizioni relative dei continenti l’uno rispetto all’altro, e ci dicono qualcosa su dove si trovavano rispetto ai poli. Siamo in grado di recuperare informazioni più precise?

Un punto di riferimento naturale, sul nostro pianeta, è il magnetismo terrestre. Le rocce vulcaniche – e, in minor misura, quelle sedimentarie – infatti mantengono una memoria del campo magnetico in cui si sono solidificate. Siccome il campo magnetico del pianeta è quasi sempre stato orientato in direzione approssimativamente nord-sud, la direzione del magnetismo residuo ci dice a che latitudine si è formata una roccia – come una bussola “congelata”. In questo modo è possibile stabilire la paleolatitudine, nei casi migliori, con un margine di errore intorno a ± 5 gradi. Dipende molto, però, dal tipo di rocce disponibili: in assenza di rocce vulcaniche, l’incertezza può essere molto più ampia.

Ma il magnetismo ci può anche guidare direttamente su dove e come erano disposti alcuni continenti. Per farlo, però, dobbiamo scendere sul fondale degli oceani. Grazie al lavoro di geologhe come Marie Tharp negli anni ‘50 e ‘60 del XX secolo, oggi sappiamo che la crosta oceanica si espande continuamente a partire dal magma delle dorsali. La nuova roccia che si forma, da un lato e dall’altro della dorsale, cristallizza dunque seguendo il campo magnetico terrestre in quel momento, come abbiamo visto. E proprio analizzando i fondali, abbiamo scoperto che il campo magnetico terrestre si è invertito varie volte, cambiando di colpo polarità nord-sud, nel corso di milioni di anni. Le mappe del campo magnetico delle rocce oceaniche mostrano infatti lunghe anomalie, “strisce” magnetizzate in modo alterno, parallele e simmetriche, da un lato e dall’altro della dorsale.

Queste “strisce” magnetiche conservano quindi la storia del campo magnetico terrestre: il loro alternarsi irregolare fornisce un calendario naturale per datare le rocce passate, un po’ con la stessa logica degli anelli degli alberi. Ma ogni striscia ci dice direttamente anche l’ampiezza e la forma dei fondali oceanici nell’epoca in cui si è formata, fino al momento iniziale in cui l’oceano è nato dalla separazione di due continenti. Possiamo quindi, per così dire, proiettare il film al contrario: usando come guida il magnetismo oceanico, è possibile ricostruire passo passo il moto delle placche all’inverso, fino al momento in cui erano a contatto. È per questo che il magnetismo oceanico ha fornito la conferma definitiva della teoria della tettonica a placche.

Un limite inevitabile di questo metodo è la giovane età dei fondali oceanici. I fondali più antichi risalgono al Giurassico, 175 milioni di anni fa circa. Tutta la crosta oceanica più antica è stata sepolta sotto i continenti e riciclata nel mantello terrestre dalla subduzione.

Questa animazione del NOAA mostra il movimento dei continenti lungo la Dorsale Medio-Atlantica negli ultimi 200 milioni di anni.

Il problema della longitudine

I navigatori, secoli fa, potevano benissimo conoscere la loro latitudine osservando la posizione del Sole e delle stelle. Era però assai difficile conoscere precisamente la longitudine, che in mare aperto si può conoscere solo misurando accuratamente l’orario in cui sorgono e tramontano gli astri. Il problema venne risolto solo nel XVIII secolo, con l’avvento di orologi sufficientemente precisi. La paleogeografia ha un problema del tutto analogo. I metodi di cui abbiamo parlato finora ci forniscono indicazioni preziose sulla posizione dei continenti gli uni rispetto agli altri, e sulla latitudine a cui si trovavano. Non ci dicono però nulla sul loro spostamento complessivo lungo la direzione est-ovest. Quello della paleolongitudine è quindi il problema più difficile, e spesso ancora aperto, nella ricostruzione del moto dei continenti.

Uno dei metodi più usati per risolvere la longitudine è usare come riferimento gli hot spots, punti caldi profondi nel mantello terrestre a cui corrispondono, in superficie, coni vulcanici. Un esempio contemporaneo lo dà l’arcipelago delle Hawaii, le cui isole vulcaniche disposte in fila indiana mostrano il movimento della crosta oceanica del Pacifico in direzione est al di sopra di uno stesso punto caldo per 28 milioni di anni circa. Gli hot spots forniscono quindi un sistema di coordinate naturale, che lascia tracce vulcaniche nel cuore delle placche, e quindi ci dice la traiettoria del loro movimento. Il problema è che neanche gli hot spots sono fissi: sul lungo periodo diventa quindi molto difficile districare il moto delle placche tettoniche da quello degli hot spots.

In alternativa si può ricorrere, di nuovo, al magnetismo. È vero che il magnetismo “fossile” di per sé ci dà solo la latitudine rispetto al polo magnetico. Ma osservando come ruota nel tempo il campo magnetico in cui si sono cristallizzate le rocce (un fenomeno noto come apparent polar wander, o “vagabondaggio polare apparente”), è possibile dedurre il moto del continente rispetto al polo magnetico. Per poter avere un quadro coerente, però, è necessario sia confrontare il moto dei continenti rispetto al campo magnetico in diverse località, sia conoscere con precisione la sequenza del rovesciamento dei poli magnetici. Inoltre l’asse terrestre, e con esso il polo magnetico, a volte si sposta davvero (true polar wander, “vagabondaggio polare reale”), complicando l’analisi dei movimenti.

Dalle placche alla geografia

I dati di cui abbiamo parlato in precedenza possono essere integrati in un modello coerente. Oggi si usano anche modelli al calcolatore per verificare i modelli dei moti delle placche simulando anche il comportamento del mantello terrestre sottostante. Questo permette di verificare che i movimenti siano fisicamente e geologicamente ragionevoli.

Ricostruito il girovagare delle placche tettoniche abbiamo solo un punto di partenza. Per sapere davvero che aspetto aveva la Terra in un momento del passato bisogna anche conoscere il livello dei mari, la posizione delle catene montuose o di arcipelaghi, dei fiumi, e in generale delle altre caratteristiche geografiche. Qui ci guidano il tipo di fossili e rocce. Se troviamo fossili tipici di un mare poco profondo, possiamo inferire che una regione del continente fosse sommersa e inferire quindi, in ultima analisi, dove fosse la linea di costa. I fossili ci possono dire se una zona era umida o arida, se il clima era temperato o tropicale. Depositi fluviali ci dicono inoltre dove passavano antichi fiumi; sedimenti di calcare possono indicare bassi fondali; vasti campi di arenarie possono essere la traccia di un antico deserto; rocce metamorfiche suggeriscono la posizione di antiche catene montuose.

Non tutto lascia tracce, però. Tra le incognite principali spesso c’è l’elevazione del terreno nel passato. Possiamo sapere che in una certa zona c’era una catena montuosa ma, essendo stata spianata dall’erosione, è estremamente difficile sapere quanto fosse alta in passato. Le incertezze, in più o in meno, possono raggiungere i 1000 metri. In alcuni casi, resti fossili eccezionalmente preservati possono essere preziosi. Per esempio, misurando la densità degli stomi nelle foglie fossili si possono ottenere informazioni sull’altitudine a cui le piante crescevano.

A che punto siamo

Oggi esistono ricostruzioni della geografia della Terra che arrivano a 1 o addirittura, in alcuni casi, a 2 miliardi di anni fa e oltre. Man mano che si torna indietro nel tempo, però, è sempre più difficile ricostruire accuratamente la posizione delle placche tettoniche. In generale, le ricostruzioni oggi disponibili sono probabilmente piuttosto accurate dalla formazione della Pangea, 250-300 milioni di anni fa, a oggi. Prima di questo periodo, le rocce che possono fare da guida sono sempre meno e indizi fondamentali come il magnetismo della crosta oceanica svaniscono. Il paleomagnetismo diventa difficile da utilizzare accuratamente, perché sappiamo poco di come si sia invertito il campo magnetico oltre 200 milioni di anni fa. Senza queste informazioni, il magnetismo ci dice sì la latitudine: ma relativa, non assoluta. Ovvero, non sapendo come era orientato il campo magnetico, non è possibile sapere se una certa roccia si sia cristallizzata nell’emisfero nord o sud. Prima del Cambriano, 550-600 milioni di anni fa, non si erano ancora evolute forme di vita macroscopiche diffuse e, quindi, non ci sono quasi fossili a farci da guida.

Nel Precambriano, quindi, le ricostruzioni sono molto meno accurate. Questo non significa brancolare nel buio completo; per esempio, i geologi ormai concordano sul fatto che tra 1200 e 700 milioni di anni fa i continenti fossero uniti in un supercontinente noto come Rodinia. Sul suo aspetto e sulla sua storia però c’è ancora molta ricerca in corso. È un argomento con risvolti concreti: molti giacimenti minerari preziosi, come ad esempio di nickel, oro, rame o ferro, si sono formati nel Precambriano, e comprendere la geologia del passato remoto può essere fondamentale per scoprirne di nuovi.

Infine, spesso si vedono online o nei libri ricostruzioni del possibile aspetto della Terra nel futuro. Previsioni affascinanti, ma che vanno prese con molte pinze. È possibile estrapolare con una certa sicurezza il moto dei continenti nel futuro al massimo per 10-20 milioni di anni. Al di là di questo si entra nel campo delle ipotesi, perché non è possibile prevedere con precisione i moti del mantello terrestre. Ma poco importa: la paleogeografia ci regala comunque il fascino di centinaia di milioni di anni di una Terra viva, in continua trasformazione.

I movimenti della crosta terrestre sono un motore per l’evoluzione della vita sul nostro pianeta e la fonte delle nostre risorse minerarie. Su Aula di Scienze ne abbiamo parlato in questo Speciale dedicato alla tettonica delle placche.

Ringraziamo il Dr. Sabin Zahirovic (Università di Sydney) per aver fornito informazioni e riferimenti essenziali alla stesura di questo articolo.

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Ricostruzione paleogeografica del 1858 di Antonio Snider-Pellegrini (immagine: Wikipedia)

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La distribuzione di fossili sui diversi continenti: è uno degli indizi che fa pensare a Wegener che nel passato i continenti fossero uniti

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Schema della formazione delle anomalie magnetiche oceaniche (immagine: Wikipedia)

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Età della crosta oceanica (immagine: NOAA)