Ricordate quando nel 2019 abbiamo festeggiato i trent’anni della Rete? E se vi dicessimo che, in realtà, il compleanno di Internet è stato il primo gennaio 2023, e le candeline sono state quaranta? Ma possiamo anche scommettere che il prossimo 30 aprile avremo un deja vu, e leggeremo che siamo online dal 1993.
Chi ha ragione? Una risposta potrebbe essere: tutti e nessuno. È complicato stabilire quando sia nata la Rete perché non è stata inventata da un giorno all’altro e non esiste un solo inventore. Ci sono voluti diversi decenni di evoluzione e il lavoro di moltissime persone per creare una tecnologia che oggi diamo per scontata. Inoltre, quella cosa che noi oggi chiamiamo genericamente Rete o Internet è in realtà composta da diverse parti, che non sono arrivate tutte nello stesso momento. Proviamo a fare ordine ripercorrendo le tappe principali della sua storia.
Condividere le risorse
Siamo nel 1957. Da dieci anni il mondo è diviso tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che ha appena lanciato in orbita lo Sputnik, il primo satellite artificiale. Per gli americani è uno shock, perché temono di perdere la supremazia tecnologica nella Guerra Fredda. La NASA, cioè l’Agenzia Spaziale Americana, nasce l’anno successivo proprio per colmare la distanza coi sovietici.
Sempre per ordine del presidente Dwight D. Eisenhower nasce anche un’altra agenzia: l’ARPA (Advanced Research Projects Agency), che nel 1972 è ribattezzata DARPA (la D sta per Defense). Il suo scopo è finanziare ricerche innovative, in grado di trasformare prima il settore militare e poi quello civile.
Internet è solo una delle numerose invenzioni prodotte da queste ricerche, ma il suo sviluppo non sarà lineare. Per raggiungere i sovietici gli Stati Uniti hanno bisogno che i loro computer siano sfruttati al meglio. Ma a quel tempo sono grandi come una stanza, e per farli funzionare serve personale estremamente specializzato. E non sono molti, perché solo il governo, i militari, e le grandi industrie possono permettersene uno.
Chi vuole usare questi computer deve mettersi in coda, scrivere i suoi programmi su schede perforate e inviarli (fisicamente) ai tecnici del computer. Per ottimizzare i tempi, questi preparano la macchina per elaborare una lunga lista di calcoli richiesti dai tanti ricercatori, in modo che passi automaticamente da un compito a quello successivo senza bisogno di altri interventi.
Questo sistema, detto batch processing, è però inadeguato all’enorme domanda di calcolo da parte degli utenti, che devono pazientemente aspettare il proprio turno senza avere la possibilità di interagire direttamente con la macchina. E c’è comunque bisogno di tempo per preparare la lista di compiti da eseguire in automatico, durante il quale il prezioso cervellone rimane inutilizzato.
Assieme al batch processing comincia allora a emergere il time sharing, dove il tempo di calcolo è distribuito ciclicamente in piccoli intervalli tra gli utenti che ne hanno bisogno: in questo modo la macchina può essere usata contemporaneamente per scopi diversi, eliminando i tempi morti. Questo è possibile grazie ai terminali, cioè interfacce per comunicare col computer vero e proprio, che permettono a ogni utente di interagire direttamente con la macchina senza dover per forza passare dai tecnici.
Le prime reti di computer nascono proprio da questa necessità di condividere in modo più efficiente le risorse computazionali. I terminali, infatti, possono anche essere collegati a grande distanza, usando linee telefoniche e apparecchi chiamati modem. Il passo successivo è immaginare che tutte queste macchine possano “parlare” con qualunque altra, in modo ogni utente possa inviare e ricevere i dati attraverso qualunque dispositivo connesso.
Stabilire delle regole
Nel 1962, all’ARPA, lo psicologo e informatico Joseph Carl Robnett Licklider comincia a immaginare una rete di questo tipo, e la chiama scherzosamente "Intergalactic network".
Per farla funzionare bisognava prima creare delle regole condivise: una delle più importanti è stabilire il modo in cui i dati devono viaggiare. Perché la rete fosse efficiente, non era possibile che ogni computer fosse direttamente collegato a un altro chiudendo un circuito, come succede quando facciamo una chiamata col telefono fisso. In quel caso affittiamo quel pezzo di rete per la durata della chiamata, e nessun altro la può utilizzare (ecco perché una telefonata intercontinentale costava tanto).
Un modo più furbo è quello di inviare sulle linee telefoniche i dati scomposti in pacchetti assieme alle istruzioni per ricomporli e all’indirizzo di destinazione. Ogni pacchetto può così viaggiare lungo il percorso migliore disponibile, che non deve essere predeterminato come nel caso del telefono. Grazie a questa tecnologia nascerà ARPANET, la rete sviluppata da ARPA, che inizialmente collega tra loro le macchine di quattro università americane: la University of California a Los Angeles (UCLA), lo Stanford Research Institute, la University of California, Santa Barbara (UCSB) e la University of Utah.
I nodi di quella rete crescono molto velocemente, e in breve spuntano reti simili. In Francia, nel 1971, nasce Cyclades; in Inghilterra c’è il Network dei National Physical Laboratory; negli Stati Uniti arrivano reti commerciali come Telenet. Ognuna di queste reti funzionava col sistema packet switching, ma usava modi diversi per gestire il traffico dei dati, quindi era piuttosto complicato far parlare le diverse reti tra loro. Tutto cambiò grazie allo sviluppo da parte di ARPA del TCP/IP, cioè un insieme di regole (protocolli) che governano come e dove devono viaggiare i pacchetti di dati attraverso i nodi della rete.
Il primo gennaio 1983 ARPANET adotta questo standard e tutte le altre reti cominciano a fare lo stesso, diventando finalmente compatibili tra loro. Eccoci al nostro primo anniversario: il passaggio al TCP/IP quarant’anni fa è considerato il compleanno “ufficiale” di Internet, perché è in quel momento che si forma la “rete di reti” globale a cui siamo abituati. La parola stessa nasce come contrazione Inter-network.
Internet e Web non sono sinonimi
Nel 1990 ARPANET viene dismessa. Internet sta continuando a svilupparsi autonomamente soprattutto grazie alle compagnie commerciali, e questa rete sperimentale aveva in gran parte esaurito il suo ruolo. Una parte della sue funzioni, come quella di costruire attraverso gli Stati Uniti gli “assi portanti” per un internet in espansione, passarono alla National Science Foundation.
Nel frattempo, al Cern di Ginevra uno scienziato di nome Tim Berners Lee ha avuto un’idea rivoluzionaria: il World Wide Web (o web). Internet è l’infrastruttura che permette alle macchine di tutto il mondo di parlare tra di loro, ed è composta da cavi, processori e circuiti. Il Web è invece il modo che oggi usiamo per recuperare le informazioni attraverso Internet. Si basa sull’ipertesto, vale a dire su testi digitali che contengono collegamenti (link) ad altri testi, o anche a immagini e suoni (in questo caso si parla di ipermedia). Il concetto di ipertesto esisteva dagli anni ‘60 ed era già usato all’interno dello stesso documento digitale (per esempio per “saltare” da un punto all’altro), ma Tim Berners Lee proponeva di organizzare tutta l’informazione accessibile da Internet in questo modo.
Prima del WWW, esistevano già la mail e le chat. Esistevano anche community online che si scambiavano messaggi e file usando bacheche elettroniche chiamate BBS. Ma per navigare da un punto all’altro della Rete bisognava scrivere comandi precisi sul proprio computer o terminale.
Col WWW nacquero invece le pagine web (ecco come si presentava la prima), poi organizzate in siti. Ogni pagina web è collegata a molte altre con una “ragnatela” virtuale (web, appunto) agganciata ai link, che identificano ogni contenuto in modo univoco. Anche il World Wide Web si regge su un protocollo: l’HTTP, cioè Hypertext Transfer Protocol. Non è un caso se vediamo quella sigla davanti a ogni indirizzo: per accedere a un sito bisogna mettersi in comunicazione con i server che custodiscono gli ipertesti che lo compongono e l’HTTP non è altro che l’insieme di regole che permette a chiunque di visualizzare sul proprio schermo una pagina web.
Il linguaggio con cui sono scritte le pagine si chiama invece HTML (HyperText Markup Language) e permette di formattare l’ipertesto secondo regole condivise, in modo che sia interpretabile da ogni computer connesso. Inizialmente è molto sintetico (mancano le immagini per esempio), ma viene subito integrato da enti pubblici e ditte private.
Tim Berners Lee descrive per la prima volta il WWW il 12 marzo 1989, quindi nel 2019 abbiamo celebrato, nello specifico, i primi 30 anni del Web. Anche se usiamo Internet e Web in maniera intercambiabile sono in realtà cose diverse.
C’è un’ultima tappa da toccare in questa storia (molto condensata) della Rete, ed è il momento in cui comincia a diventare accessibile per tutti, non solo alle aziende, ai governi e ai ricercatori. Arrivati agli anni Novanta i computer non sono più grandi come un magazzino: nel decennio precedente sono arrivati i personal computer, e ora anche i cittadini possono collegarsi.
Nel 1990 le persone online nel mondo sono in tutto appena 2,6 milioni, ma arrivati al 1995 sono oltre 44 milioni. Dieci anni dopo si raggiunge il miliardo. Una delle ragioni che hanno favorito questa esplosione è, di nuovo, Tim Berners Lee. Nel 1993 convince il Cern che il World Wide Web deve essere di tutti, e il 30 aprile il software viene pubblicato ufficialmente nel pubblico dominio. Da quel momento chiunque potè usare il web, o contribuire al suo sviluppo, senza dover sborsare un centesimo. Siamo arrivati all’ultimo dei compleanni ricordati all’inizio: 30 anni fa nacque la rete nel senso che il web divenne una specie di bene comune. Il resto, come si dice, è storia.
Foto in evidenza: Pexels da Pixabay