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Quando il caldo estremo mette a rischio la nostra vita

Le ondate di calore minacciano l’abitabilità del pianeta, rendendo urgenti azioni di adattamento e mitigazione ai cambiamenti del clima

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Siviglia, Tunisi, Roma, Shanghai: l’estate del 2022 ha fatto registrare temperature record in centinaia di città del mondo, dai Poli all’Equatore. La colpa, lo sappiamo con certezza, è della crisi climatica che favorisce ondate di calore sempre più frequenti, intense e prolungate, perciò più distruttive per le società e più letali per gli esseri umani. Le stime degli scienziati ancora oscillano, ma già oggi si calcola che globalmente muoiano tra le 150mila e le 350mila persone all’anno per via del caldo estremo, il quale rappresenta un rischio crescente e ormai indiscutibile per la nostra salute.

L’eccesso di calore compromette infatti la capacità del corpo di regolare la temperatura interna e può quindi provocare una cascata di effetti dannosi, dalla più tenue ipertermia fino al micidiale colpo di calore. All’aumento delle temperature medie si correla una maggiore incidenza delle malattie croniche e neurodegenerative, dei parti non fisiologici, delle reazioni avverse ai farmaci, persino dei disturbi mentali. Il fatto è che l’organismo umano si è adattato nel corso dell’evoluzione a vivere in una nicchia climatica molto ristretta, con temperature medie annuali comprese tra 11° e 15° C, ragione per cui anche un riscaldamento del clima di pochi gradi costituisce una minaccia quanto mai seria.

Il limite di sopportabilità

Stando ai risultati di uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori e pubblicato sulla rivista PNAS, nei prossimi 50 anni la combinazione di ondate di calore e alti tassi di umidità potrebbe rendere del tutto inospitali vaste aree del pianeta in cui vivono al momento tra 1 e 3 miliardi di persone. Secondo gli scienziati del clima, già oggi il 30% della popolazione mondiale è esposto per almeno 20 giorni l’anno a picchi di calore allarmanti per l’organismo umano, ormai pericolosamente vicini al limite massimo di sopportabilità.

Quest’ultimo viene identificato dalla temperatura di “bulbo umido”, ovvero dalla temperatura che è possibile misurare con un termometro avvolto da un panno bagnato. Evaporando per il calore, l’acqua che inzuppa il panno simula l’effetto termoregolatore della sudorazione umana, tra le più efficienti di tutto il regno animale: un meccanismo fisiologico che ci permette di raffreddare il corpo anche in ambienti estremamente caldi. Se la temperatura dell’aria e l’umidità ambientale sono però troppo alti, il sudore non evapora più e il corpo comincia a surriscaldarsi, col rischio via via più reale che venga colto da un colpo di calore.

Fino a qualche anno fa, gli esperti del settore ritenevano che l’organismo umano potesse tollerare al massimo 35° C di bulbo umido – una temperatura raggiungibile con una combinazione di 40° C di calore dell’aria “a secco” e un’umidità del 75%, oppure on 31° di calore e un’umidità al 95% – ma ricerche più recenti hanno decisamente abbassato la soglia massima sopportabile, fino a soli 31,5° C di bulbo umido.

Le aree del pianeta più a rischio

Oggi temperature tanto elevate si rilevano in una fascia del pianeta circoscritta a ridosso dell’Equatore, sebbene in forte espansione verso le zone tropicali e subtropicali, dove vive il 40% della popolazione mondiale. Tra le aree più a rischio spicca il Subcontinente indiano, dove quest’anno si sono registrate le temperature più alte dall’inizio delle rilevazioni e il riscaldamento globale ha reso le ondate di calore 30 volte più probabili rispetto a pochi decenni fa. E tuttavia i cambiamenti climatici in corso sono così anomali e imprevedibili che è difficile stabilire quale Paese possa ritenersi in salvo: neanche paesi ricchi e attrezzati come gli Stati Uniti sembrano esserlo del tutto.

L’1% della popolazione mondiale potrebbe dover presto migrare per via del clima: sarà il 19% nel 2070. Poco più in là, entro la fine del secolo, un terzo dell’umanità rischia di ritrovarsi in ambienti con picchi di calore oltre la soglia massima sopportabile di bulbo umido, davvero troppo caldi per viverci. Com’è facile immaginare, per miliardi di individui la scelta sarà ridotta a due sole possibilità: spostarsi verso climi tollerabili, oppure rimanere e adattarsi in qualche maniera.

Adattamento e mitigazione

Nelle discussioni sul tema si sente spesso ripetere che migrare è la prima forma di adattamento: gli esseri umani lo fanno da sempre, nel corso della storia si sono spostati ogniqualvolta le condizioni dell’ambiente hanno smesso di essere favorevoli. Nel lungo termine, però, la natura globale dei cambiamenti climatici in corso minaccia l’abitabilità di tutto il pianeta, al punto che anche migrare potrebbe divenire un azzardo: dove andare per sentirsi davvero al sicuro? È certo che, per evitare migrazioni climatiche di massa, non c’è nulla di più urgente e risolutivo che un’azione rapida e decisa di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni di gas serra a livello internazionale.

Il più delle volte adattamento e mitigazione vengono messi l’uno contro l’altra, come se fossero approcci alternativi per far fronte ai cambiamenti climatici, quando in realtà gli sforzi per la mitigazione del riscaldamento globale sono essi stessi inquadrabili tra le misure di adattamento. È infatti attenuando gli effetti della crisi climatica grazie alla riduzione delle emissioni che le altre misure di adattamento diventano praticabili ed efficaci. Mitigando possiamo intervenire direttamente sulle cause dei cambiamenti in corso, mentre ogni altra misura di adattamento si limita ad agire sui sintomi della crisi, talvolta aggravandone addirittura i fattori scatenanti.

Un condizionatore ci salverà?

L’esempio più clamoroso in questo senso è rappresentato dai sistemi di climatizzazione dell’aria, perché abbassano la temperatura interna degli edifici riversando calore nell’ambiente esterno, emettono nell’atmosfera gas refrigeranti con effetto serra e sono alimentati con elettricità prodotta in larga parte dalla combustione di fonti fossili. Nonostante peggiorino lo stato del clima, i condizionatori vengono percepiti un po’ ovunque come la misura più immediata ed economica di adattamento al clima che si scalda, tanto che la loro diffusione sta crescendo a un ritmo vertiginoso.

Oggi l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) conta quasi 2 miliardi di condizionatori installati in ogni angolo del mondo, pronti a diventare 5 miliardi e mezzo entro il 2050: sembra incredibile, ma nei prossimi trent’anni verranno venduti globalmente circa dieci condizionatori ogni secondo. Più che la soluzione, i sistemi di climatizzazione dell’aria sono però parte del problema: è stato calcolato che il loro impiego porti a un aumento della temperatura media urbana di 2° C, e che entro la fine del secolo le loro emissioni di gas climalteranti avranno fatto aumentare la temperatura media del pianeta di almeno mezzo grado.

Quella che oggi appare la misura più semplice di adattamento al riscalamento globale rischia perciò di aggravare ulteriormente il problema, motivo per cui i produttori stanno correndo ai ripari puntando tutto sull’efficientamento dei sistemi di climatizzazione. A questo riguardo è stato lanciato da qualche anno anche un concorso internazionale, il Global Cooling Prize, che stimola le aziende del settore a sviluppare condizionatori meno impattanti senza gravare troppo sui costi.

Le oasi comunitarie del freddo

Come per ogni tecnologia, però, esistono dei limiti fisici alla curva dell’efficientamento, pertanto sarà importante escogitare nuove contromisure – non per forza di carattere tecnologico – a un clima che sarà sempre più caldo. L’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha stilato ad esempio un elenco di azioni concrete per proteggere dalle ondate di calore le popolazioni più a rischio: quella di cui si discute da più tempo è la creazione di spazi comunitari dotati di aria condizionata, una sorta di “oasi di freddo” in cui chiunque sia sprovvisto o meno di un condizionatore domestico possa trovare riparo nei giorni e nelle ore più calde dell’estate.

Se l’installazione di condizionatori negli ambienti domestici privatizza il loro impiego e i relativi costi, con evidenti diseguaglianze nelle possibilità di accesso da parte delle fasce economicamente più fragili, le oasi di freddo si fondano invece su un approccio collettivo che mira a valorizzare i beni comuni e gli spazi pubblici. Questo cambio di prospettiva potrebbe fare la differenza soprattutto nelle comunità più svantaggiate, facendo leva sulla socializzazione dei servizi anziché sulle sovvenzioni statali all’installazione delle apparecchiature private, più impattanti in termini di consumi ed emissioni.

Per lo stesso motivo, in molti suggeriscono di spostare il centro d’azione del raffreddamento dalle abitazioni alle città, dove l’elevata densità abitativa si scontra con il cosiddetto “effetto isola di calore”, dovuto soprattutto all’assorbimento di calore da parte del cemento, che rende il microclima urbano mediamente più caldo che altrove. Esistono molte soluzioni per abbattere la temperatura delle città, dalla forestazione urbana alle superfici riflettenti, con margini di miglioramento enormi e ancora tutti da esplorare. C’è così tanto da fare che non si sa bene da dove cominciare, ma è bene muoversi e non perdere tempo, prima che l’estate torni e ci trovi ancora impreparati.

Immagine in homepage: anomalia delle temperature nell’ondata di calore invernale del 25 febbraio 2021 (immagine wikipedia)
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Temperature record del 13 luglio 2022 (immagine: NASA Earth Observatory)

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Mappa interattiva delle temperature massime giornaliere di bulbo umido registrate nel mondo (immagine: Mappa di Jeremy Hinsdale, adattata da Raymond et al., Science Advances, 2020)

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L’aumento del numero di condizionatori nel mondo (immagine: IEA, “The Future of Cooling”, 2018)