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Che cos’è la finanza comportamentale?

Le nostre emozioni e l’ambiente in cui viviamo ci portano a prendere decisioni impulsive e questa disciplina ne studia cause ed effetti

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La finanza comportamentale è una disciplina che studia i comportamenti umani in ambito finanziario. Studia, cioè, le persone vere, che non sono perfettamente razionali, e il vero funzionamento dei mercati, non sempre pienamente efficienti. È un approccio complementare a quello tradizionale, che ipotizza che gli agenti economici siano perfettamente razionali e che i mercati siano efficienti.

Nei libri di finanza tradizionale si ipotizza che ad agire sia un agente economico, detto homo oeconomicus, non una persona reale, cioè l’homo sapiens. Nel prendere una decisione, l’homo oeconomicus non dà spazio alle emozioni, mentre l’homo sapiens è in balia del suo stato emotivo. Per comprendere l’importanza e il ruolo delle emozioni ci serviamo di una storia:

l’asino di Buridano è un asino perfettamente razionale che si trova in mezzo a due mucchi di fieno identici ed equidistanti e non sa quale scegliere perché i due mucchi sono uguali e alla stessa distanza. Dunque, non si muove… e muore di fame.

L’asino si comporta in modo razionale ed è molto efficiente perché non vede vantaggi effettivi in nessuno dei due mucchi. Ma la sua razionalità gli fa dimenticare le sue emozioni e in particolare il senso di fame: ecco, il ruolo delle emozioni è anche quello di non farci morire di fame, di farci prendere una decisione quando la razionalità da sola non è in grado di farlo.

Purtroppo, però, le emozioni possono giocare brutti scherzi in ambito finanziario, portandoci a commettere degli errori. Consideriamo, per esempio, gli investimenti azionari. Quando i mercati vanno bene gli investitori provano emozioni positive, come l’ottimismo, che può anche sfociare in euforia. Questo può portarli a comprare anche se i prezzi sono molto alti e quindi i guadagni bassi. Al contrario, quando i mercati scendono subentrano le emozioni negative, come l’ansia e la paura, che possono sfociare nel panico, come accade in occasioni dei crolli di mercato. In questi casi le emozioni negative portano a vendere, quando razionalmente si dovrebbe invece comprare perché i prezzi sono bassi. Ma la finanza comportamentale, in verità, va ben oltre la gestione delle emozioni.

Si parla in gergo di mercati toro quando la situazione è in crescita perché il toro attacca dal basso verso l’alto, “caricando” il nemico, e quando cammina le corna gli danno un’immagine rivolta verso l’alto.
Al contrario, si parla di mercati orso quando la situazione è in calo perché l’orso attacca la sua preda dall’alto verso il basso e quando cammina a quattro zampe il suo muso punta verso il terreno.

Studiare l’economia con la psicologia

La finanza comportamentale moderna nasce attorno agli anni Settanta, dai lavori pionieristici di Daniel Kahneman e Amos Tversky. I due psicologici israeliani hanno posto le basi dell’approccio comportamentale all’economia e alla finanza, divulgandone i concetti fondamentali: bias, euristiche decisionali ed effetti di framing.

I bias sono predisposizioni a commettere degli errori, più spesso chiamati errori comportamentali, e si suddividono in due grandi classi: cognitivi ed emotivi. I bias cognitivi riguardano il modo di elaborare le informazioni e di ragionare, i bias emotivi sono invece dettati dalle emozioni. Ce ne sono molti, ma i principali e più investigati sono:

  1. l’overconfidence, cioè l’eccessiva sicurezza riguardo le proprie capacità e conoscenze, che porta anche a sottostimare i rischi che si corrono sia nella vita, sia in ambito finanziario;
  2. l’iper-ottimismo, cioè l’eccesso di ottimismo che porta a sovrastimare gli esiti positivi, per esempio i rendimenti che si potranno realizzare investendo in Borsa;
  3. il bias di conferma, che induce a dare eccessiva importanza solo alle informazioni che confermano il nostro punto di vista, e a darne troppo poca, o addirittura a non dare importanza, a quelle che invece vanno contro le nostre idee;
  4. il bias di auto-attribuzione, che porta ad attribuire a noi stessi i meriti di esiti positivi che non dipendono da noi, per esempio ci induce a pensare di essere diventati dei geni della finanza quando invece i rendimenti positivi che abbiamo ottenuto sono merito unico, o quantomeno prevalente, di un mercato al rialzo;
  5. l’errore del giudizio retrospettivo, che ci spinge a credere che gli avvenimenti accaduti fossero prevedibili anche prima che accadessero, mentre lo sono solo a posteriori;
  6. l’illusione del controllo, che ci fa credere di poter governare meccanismi che invece sfuggono al nostro controllo, come l’andamento dell’economia e dei mercati;
  7. il bias dello status quo, che porta a rimanere nella propria zona di comfort, a non agire, a procrastinare anche scelte importanti come, per esempio, quella di iscriversi a un fondo di previdenza complementare quando si è giovani.

Le euristiche decisionali sono invece scorciatoie mentali utilizzate dal nostro cervello per prendere decisioni. Sono “regole del pollice” veloci e frugali che ci aiutano nella vita quotidiana, ma se applicate in ambito finanziario possono portare a commettere errori anche costosi. Tra queste ci sono:

  1. l’euristica dell’affetto, che ci fa prendere decisioni su base affettiva, basandoci sul nostro intuito, prendendo decisioni “di pancia”, anziché ponderarle razionalmente;
  2. l’ancoraggio, che ci spinge ad agganciarci mentalmente a valori che potrebbero non essere rilevanti per la decisione che dobbiamo prendere e come un’àncora ci blocca e spesso ci rende troppo conservativi e legati al passato;
  3. la disponibilità, che ci fa dare più importanza alle informazioni più facilmente reperibili, ancorché non necessariamente più rilevanti;
  4. la rappresentatività, che ci induce a ragionare per analogie e per stereotipi, invece che con un ragionamento razionale.
Per approfondire il tema dei bias e delle euristiche, puoi leggere:

Infine, gli effetti di framingframe in inglese significa cornice – spiegano che inquadrare dati e informazioni in modo diverso tipicamente spinge a decisioni distinte. I due effetti di framing più noti hanno nome simile, ma significato diverso:

1. L’avversione alla perdita certa si basa sull’evidenza riscontrata in molte persone che, a seguito di una perdita subìta, aumentano la propria tolleranza al rischio e a volte arrivano a prendere decisioni per cercare di recuperare la perdita. Su questa evidenza si basa un effetto noto come i soldi della casa, che si riferisce al modo in cui alcuni casinò sfruttano l’avversione alla perdita certa. Per capirlo ricorriamo a un’altra storia.

A Las Vegas spesso i casinò si trovano al piano terra o seminterrato di enormi hotel che ospitano chi è andato in città non solo e non tanto per visitarla, ma per giocare. Spesso, arrivati in camera, si trovano delle fiches offerte come gesto di benvenuto all’ospite. Ovviamente è possibile utilizzarle solo nel casinò dell’hotel, non in altri. Perché tanta generosità? Oltre a un’opera di marketing – un omaggio è sempre gradito dagli ospiti – i gestori sanno che, anche chi è in visita a Las Vegas senza l’intenzione di giocare, avendo a disposizione delle fiches con ogni probabilità le andrà a utilizzare nel casinò dell’albergo: anche se le perderà, non butterà soldi propri ma appunto i soldi della casa, cioè dell’hotel che lo ospita. Quello che però accade in molti casi è che dopo avere iniziato a giocare, e magari vinto qualcosa, quelli che inizialmente erano “soldi della casa” diventano improvvisamente soldi nostri e questo ci coinvolge di più.

Quando poi iniziamo a perdere – perché prima o poi al casinò si perde – scatta l’avversione alla perdita certa che ci porta a continuare a giocare, pur di recuperare le perdite, questa volta utilizzando il nostro denaro. E questo meccanismo fa guadagnare il casinò.

2. L’avversione alle perdite è forse il fenomeno più noto tra quelli studiati in finanza comportamentale. Per capirlo dobbiamo partire da un concetto della finanza tradizionale: l’avversione al rischio, cioè la nostra tendenza a non rischiare quando prendiamo decisioni di investimento. Per questo motivo chiediamo una remunerazione, una sorta di premio per investire il nostro denaro che dia maggiori rendimenti rispetto a investimenti a rischio basso, come i titoli di Stato italiani. Ma nel gergo della finanza, il rischio è bidirezionale: si corre il rischio di perdere, ma anche di guadagnare più del previsto. Guadagnare di più, tuttavia, non è percepito come un rischio dalle persone. Daniel Kahneman, nel 2002 ha vinto il premio Nobel per l’economia proprio per avere chiarito questa differenza e dimostrato sperimentalmente che, in media, una perdita ci pesa psicologicamente circa il doppio di un guadagno di pari ammontare. Anche in questo caso, ricorriamo a una storia:

Immaginiamo di uscire di casa la mattina, andare al lavoro o a scuola e accorgerci di avere perso 50 euro. La cosa indubbiamente ci colpirà negativamente. Ma se al ritorno verso casa, la sera, troviamo 50 euro per strada (non gli stessi che abbiamo perso al mattino!), cosa penseremo? Persi 50, trovati altri 50, siamo in pari giusto? Esatto, ma molte persone pensano anche: «Però… se solo non avessi perso quei 50 euro stamattina!».

Lo stesso avviene quando valutiamo l’andamento di titoli in portafoglio azionario: immaginiamo di avere due titoli, uno ha guadagnato 10 000 euro, l’altro ha perso 10 000 euro. Il portafoglio è in equilibrio da un punto di vista aritmetico, perché è a zero, ma non da un punto di vista psicologico ed emotivo, perché la perdita ci pesa circa il doppio del guadagno dello stesso ammontare.

L’evoluzione della finanza comportamentale

Quanto raccontato finora si riferisce alla finanza comportamentale 1.0, cioè la prima generazione di studi ed evidenze, che si rifà agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Rappresenta la base della finanza comportamentale. Tuttavia, c’è stata una grande evoluzione della finanza comportamentale negli ultimi decenni. A partire da metà anni Novanta si è sviluppata una seconda generazione di studi comportamentali che gravita attorno a un concetto molto semplice e potente:

è difficile cambiare i comportamenti umani perché siamo influenzati da euristiche decisionali talmente radicate nel nostro cervello che difficilmente riusciremo a evitare gli errori a cui ci portano.

Non basta dunque conoscerli per evitarli. Da qui l’idea geniale di alcuni scienziati comportamentali tra cui l’economista Richard H. Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017, e il giurista Cass R. Sunstein. L’idea è la seguente: le nostre azioni, i nostri comportamenti, sono frutto di come siamo noi, ma anche dell’ambiente circostante. Non solo dell’ambiente fisico, ma anche di quello decisionale. Se non riusciamo a cambiare il modo di pensare delle persone, allora per modificare le loro scelte e i loro comportamenti possiamo modificare l’ambiente decisionale. È possibile dunque fare leva, in positivo, sugli errori comportamentali delle persone per indirizzarli (gentilmente!) a fare scelte migliori. Si tratta evidentemente di un approccio paternalistico, ma che lascia in qualche modo la scelta all’individuo, non lo obbliga. Per questo motivo è stato chiamato paternalismo libertario, locuzione poi trasformata in nudge, traducibile in italiano come pungolo, o “spinta gentile”, perché l’idea è quella di spingere le persone ad adottare comportamenti nel loro interesse, che però non adotterebbero da soli.

Cass R. Sunstein e Richard Thaler hanno pubblicato nel 2008 il libro Nudge, tradotto in italiano per Feltrinelli con il titolo La spinta gentile.
Enrico Maria Cervellati è Founder e CEO di EMC3 Solution, società di consulenza, formazione e servizi dedicata all’educazione finanziaria. È anche Professore associato di Finanza Aziendale all’Università degli Studi Link di Roma.