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Che cos’è l’ibernazione?

Perché alcuni animali vanno in letargo e altri invece no? E perché alcuni scienziati stanno cercando di capire se è possibile ibernare un essere umano? Lo abbiamo chiesto al Professor Matteo Cerri, medico e ricercatore dell'Università di Bologna.
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Quando sentiamo la parola ibernazione spesso il pensiero va subito alla fantascienza. Da Alien a Interstellar passando per Futurama, si tratta di uno degli stratagemmi preferiti da scrittori e sceneggiatori per far viaggiare i protagonisti attraverso lo spazio e il tempo. Ma l’ibernazione è una realtà del mondo naturale, e più gli scienziati la studiano più sembra plausibile che questa particolare condizione fisiologica possa essere indotta anche negli esseri umani. Per capire meglio di che cosa si tratta abbiamo intervistato il Professor Matteo Cerri, medico e ricercatore all’Università di Bologna. Lo scienziato è uno dei massimi esperti di ibernazione e nel 2013 ha messo a punto una tecnica che consente di ottenere uno stato simile all’ibernazione naturale in una specie che normalmente non si iberna, cioè il ratto.
Il criceto dorato è una specie ibernante molto studiata che in natura è diffusa in Siria e in Turchia. In questo video è possibile osservare le fasi del risveglio dell’animale:

Che cos’è e a che cosa serve l'ibernazione in natura?

Moltissimi organismi animali, vegetali e persino i batteri, sono capaci di rallentare moltissimo il proprio metabolismo in modo da superare periodi particolarmente difficili. Quando tornano condizioni favorevoli per crescere e riprodursi, questi organismi escono dalla dormienza tornando al normale metabolismo. Nei mammiferi, che normalmente hanno una elevata temperatura corporea, si verifica un tipo particolare di dormienza che chiamiamo ibernazione. In questa condizione la temperatura corporea dell’animale si abbassa notevolmente a causa del rallentamento del metabolismo, e l’organismo può così superare anche lunghi periodi senza alimentarsi. Non tutti i mammiferi si ibernano naturalmente, ma sembra che il meccanismo sia apparso piuttosto precocemente nella loro storia evolutiva. Sembra infatti che tra le specie di mammifero che oggi si ibernano non ci sia una stretta parentela, visto che le specie sono distribuite a macchia di leopardo all’interno dell’albero filogenetico della classe.
Distribuzione delle specie ibernanti tra gli ordini di mammiferi (Immagine: Melvin & Andrews, Trends in Endocrinology and Metabolism, 2009)
Se animali così diversi come gli orsi e i pipistrelli comprendono specie ibernanti, è allora probabile che dipenda da un meccanismo di origine molto antica che è stato successivamente perduto nelle altre specie. Una delle teorie è che l’ibernazione si sia evoluta quando i mammiferi convivevano coi dinosauri. A quel tempo erano costretti a uscire dalle loro tane soprattutto di notte, una condizione che avrebbe favorito l’evoluzione di una forma di ibernazione breve chiamata torpore, che gli animali avrebbero sfruttato durante le ore diurne per non sprecare energie. Dopo la scomparsa dei dinosauri i mammiferi hanno conquistato rapidamente le nicchie ecologiche vacanti, e per molti di essi è risultato vantaggioso smettere di usare la strategia del torpore, in modo da essere più attivi e riprodursi di più senza il rischio di predazione. Solo nei mammiferi che hanno occupato quelle nicchie ecologiche dove il torpore, l’ibernazione o l’estivazione (cioè una forma di ibernazione che si verifica in condizioni caldo-aride) conferiscono un vantaggio si è mantenuto e perfezionato questo carattere.
Per approfondire gli adattamenti degli organismi al freddo puoi leggere il nostro speciale Contro il freddo: ecco le strategie della natura.

Perché l’ibernazione ora interessa anche i medici, oltre ai biologi?

Gli esseri umani non si ibernano naturalmente, eppure la possibilità che questo possa accadere ha sempre acceso la fantasia dei medici. Nel 1900 il British Medial Journal pubblicò una lettera intitolata appunto Human hibernation. L’autore (anonimo) racconta che gli abitanti della città di Pskov, una cittadina nella Russia nordoccidentale, dormivano per metà dell’anno in uno stato simile all’ibernazione chiamato lotska, riuscendo in questo modo a sopravvivere alle carestie invernali. Si tratta certamente di folklore, ma nel 2002 i medici dell’Istituto di Clinica Neurologica a Bologna hanno descritto sulla rivista Neurology il caso di un paziente che entrava spontaneamente e periodicamente in uno stato simile al torpore.
Il grafico mostra l’andamento della temperatura corporea del paziente osservato a Bologna. L’abbassamento della temperatura è sempre preceduto da abbondante sudorazione. (Immagine: Magnifico et al., Neurology 2002)
Se fosse possibile rallentare il metabolismo umano in maniera controllata, si aprirebbero diverse possibilità terapeutiche. Prendiamo il nostro cervello, un organo che consuma enormi quantità di zuccheri e ossigeno: se non arriva sangue a sufficienza, anche per brevi periodi, i danni sono gravissimi. Già oggi alcuni interventi molto invasivi prevedono l’ipotermia terapeutica, cioè l’abbassamento della temperatura corporea anche fino a 14 °C, che ha proprio lo scopo di diminuire il consumo metabolico del cervello permettendogli di superare l’intervento con meno danni. Il problema è che il nostro corpo normalmente non vuole raffreddarsi e cerca sempre di lottare per riportare la temperatura a livelli ottimali, quindi l’efficacia dell’ipotermia terapeutica è molto circoscritta. Se invece potessimo inviare un segnale che prepari il nostro organismo alla dormienza, come succede nei mammiferi ibernanti, in teoria molti interventi chirurgici, compresi i trapianti d’organo, diventerebbero meno pericolosi.
In alcuni casi degli esseri umani sono piombati in una condizione di torpore in risposta a un brusco calo della temperatura corporea. Nel video della BBC è raccontata la storia di Anna Bagenholm, la cui temperatura corporea si è abbassata fino a 13,7 °C:

Ma come si può ibernare un mammifero che naturalmente non è in grado di farlo?

Per indurre l’ibernazione in un animale non ibernante si può partire dal presupposto che i geni  necessari, apparsi molto precocemente nei mammiferi, non siano andati del tutto perduti. L’obiettivo è quindi, prima di tutto, replicare il segnale che innesca l’ibernazione. Dal momento che la chiave è la riduzione del consumo metabolico, alcuni ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di uno specifico ormone che ordini ai mitocondri di tutte le cellule di fermarsi. Non conoscendo l’ormone, si è cercato di fermare la respirazione cellulare per via farmacologica, ma le molecole in grado di fare questo sono tossiche (anche il cianuro funziona così) e tale approccio non ha quindi avuto molta fortuna. Il nostro gruppo di ricerca è invece stato tra i primi a ipotizzare che al comando di tutto ci fosse il cervello, e che il processo cominciasse “spegnendo” per primi i tessuti metabolicamente più attivi come il tessuto adiposo bruno e il fegato, che sono fondamentali nella termoregolazione. Il calo della temperatura corporea risultante abbasserebbe il metabolismo dell’organismo che entrerebbe quindi nello stato di ibernazione. Pensammo che se il nostro organismo modello, cioè il ratto, aveva conservato la capacità di ibernare, allora il processo poteva essere innescato agendo su una specifica regione del sistema nervoso autonomo chiamata Raphe Pallidus: è infatti da questa piccola regione che passano tutte le informazioni che consentono ai mammiferi di mantenere la propria temperatura. Inibendo con un farmaco questa piccola popolazione di neuroni, è stato possibile mettere in moto tutto il meccanismo: la temperatura dei ratti, tenuti in un ambiente simile a quello che in natura favorisce l’ingresso in ibernazione, è scesa fino a 22 °C e gli animali sono piombati in una specie di sonno profondo. Sapevamo che dopo qualche ora l’effetto del farmaco sarebbe cessato e che il sistema nervoso autonomo avrebbe ripreso il controllo, così abbiamo progressivamente aumentato la temperatura ambientale fino a 28 °C, in modo da agevolare il raggiungimento della normale temperatura corporea. Con questo stratagemma abbiamo quindi ottenuto una condizione di animazione sospesa (come a volte viene chiamata) che è molto simile a quella osservata negli animali ibernanti.
Guarda la presentazione di Matteo Cerri al TedMed di Bologna, dove lo scienziato riassume i suoi studi sull'ibernazione:

Quali altre applicazioni potrebbero avere gli studi sull'ibernazione?

Durante l’ibernazione la fisiologia dell’intero organismo cambia: dal sistema immunitario al sistema escretore il corpo si adegua per superare indenne una condizione di metabolismo estremamente rallentato. Anche se dobbiamo ancora comprendere il fenomeno fino in fondo lo studio di questi adattamenti ha una grande rilevanza, sia dal punto di vista pratico che teorico. Per esempio, un enorme animale come l’orso si risveglia dopo mesi di letargo ed è pronto all’azione, senza alcun sintomo di atrofia muscolare. L’ibernazione ha inoltre un effetto radioprotettivo, cioè gli animali diventano meno vulnerabili alle radiazioni perché le loro cellule si riproducono meno e ci sono meno possibilità che il DNA venga danneggiato. La perdita di tono dei muscoli e la massiccia presenza di radiazioni sono invece due dei maggiori ostacoli all’esplorazione spaziale: in previsione di rilanciare le missioni con equipaggio umano, c’è quindi un grande interesse intorno agli studi sull’ibernazione. Un equipaggio in grado di dormire per qualche mese (consumando quindi una frazione delle risorse) e che arriva a destinazione ancora in pieno vigore risolverebbe molti problemi. È stato anche osservato che durante l’ibernazione il rallentamento della proliferazione cellulare blocca la crescita dei tumori, che però riprende non appena l’animale recupera il normale metabolismo. Questo non vuol dire che cureremo i tumori ibernandoli, ma che nella nostra battaglia contro il cancro vale la pena studiare in dettaglio anche questo processo. Infine l’ibernazione potrebbe aiutarci a risolvere alcuni quesiti che interessano tanto gli scienziati quanti i filosofi; per esempio, il problema della coscienza. Secondo la Teoria dell’informazione integrata sviluppata dal neuroscienziato Giulio Tononi (University of University of Wisconsin), la capacità di un animale di essere cosciente dipende dalla complessità della connessioni esistenti tra i neuroni corticali. Il passaggio dalla coscienza alla non-coscienza, per esempio quando ci addormentiamo, è netto: un attimo prima siamo coscienti, un attimo dopo no. Negli animali ibernanti si è però osservato che l’attività corticale non è la stessa che si presenta nel sonno, ma è più simile a quella di uno stato di veglia estremamente rallentato. In teoria lo studio dell’attività corticale durante l’ibernazione ci darebbe quindi la possibilità di osservare la graduale scomparsa della coscienza e, quindi, di definire meglio le caratteristiche di questo stato dal punto di vista neurofisiologico.
Per un'introduzione al problema della coscienza dal punto di vista filosofico puoi leggere l'approfondimento Una persona è la propria coscienza sull'Aula di Lettere Zanichelli.
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