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Il clima e l’evoluzione umana

I cambiamenti geologici avvenuti sul nostro pianeta hanno influito sul clima e sull’evoluzione di tutti i primati, compreso il genere Homo

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Non c’è stata in origine che una sola specie di uomini, che essendosi moltiplicata e diffusa su tutta la Terra, ha subito differenti cambiamenti sotto l’influenza del clima, dell’alimentazione, della maniera di vita, delle malattie epidemiche e anche del mescolamento.

Georges-Louis Leclerc de Buffon (1749)

Il nostro pianeta si è formato un po' prima di 4,5 miliardi di anni fa. Se il suo aspetto geo-morfologico non è rimasto costante, nel tempo anche la composizione dell’atmosfera terrestre ha subito una lenta e costante evoluzione. Soltanto intorno a 1,5 miliardi di anni fa la concentrazione di ossigeno atmosferico diventò sufficientemente elevata da permettere l’avvento degli organismi eucarioti e pluricellulari. Il clima, poi, ha subito nel corso del tempo enormi oscillazioni. Per gran parte della storia del pianeta ha fatto decisamente più caldo di oggi, mentre al contrario ci sono state fasi intensamente fredde, come ad esempio intorno a 440 milioni di anni fa, o per un lungo periodo fra 320 e 250 milioni di anni fa, o come nel Pleistocene, in modo particolare nel corso dell'ultimo milione di anni, con intervalli di circa 100 mila anni o poco più tra una glaciazione e la successiva. Una fase particolarmente caldo-umida è stata invece quella dei dinosauri, compresa fra circa 200 e 65 milioni di anni fa.

Nel corso della Storia Naturale dei primati – il raggruppamento zoologico che ha avuto origine prima di 65 milioni di anni fa e che oggi include lemuri, scimmie e scimmie antropomorfe (fra le quali ci siamo anche noi umani) – un fattore determinante, fra gli altri, è stato proprio il clima.

Se guardiamo con attenzione una curva della variazione delle temperature medie su scala mondiale ce ne accorgiamo facilmente: si vede allora bene che solo fino a 35 milioni di anni fa circa si è avuto un clima davvero propizio per la crescita di rigogliose foreste che coprivano il pianeta e per lo sviluppo di una grande varietà di primati.

Un vecchio schema dell'evoluzione dei primati, decisamente efficace nella sua semplicità e tuttora sufficientemente accurato, descrive bene le radiazioni e le relazioni evolutive dei paleoprimati nel corso di tutta la loro (e nostra) evoluzione.

Combinando i due grafici si capisce bene che c'è stato un periodo-cardine nella Storia Naturale dei primati: un vero e proprio snodo. È infatti proprio intorno a 35 milioni di anni fa che succede praticamente di tutto: si riducono sensibilmente le cosiddette "proscimmie" (fra cui gli antenati degli attuali lemuri e dei tarsi) e si iniziano ad affermare quelli che qualcuno chiama "primati superiori". È interessante notare che in questo periodo il cambiamento climatico fu drammatico, con una brusca caduta delle temperature: fu probabilmente proprio questo il fattore che ha favorito una sorta di cambio della guardia fra i "vecchi" e i "nuovi" primati.

In un'epoca decisamente più recente – anche se ci riferiamo agli ultimi 10 milioni di anni (e non è certo poco) – uno dei fattori che appaiono decisivi per spiegare la comparsa e l’evoluzione dei primi ominidi bipedi, nostri diretti antenati, è stata la frammentazione dell’ambiente forestale. Questa progressiva disgregazione dell'habitat ancestrale dei primati fu dovuta al deterioramento climatico di questo ultimo periodo di storia del pianeta, acceleratosi verso 6 e poi dopo 3 milioni di anni fa.

In Eurasia e in Nord Africa, questo cambiamento del clima comportò la relativamente rapida estinzione di molte scimmie antropomorfe dell'epoca. Diversamente, in Africa orientale (l'area della cosiddetta "Rift Valley")  il fenomeno avvenne con tempi più lenti e modalità tali da consentire l’adattamento dei nostri remoti antenati, invece che estinzioni: è questa infatti l’epoca – identificata anche dai calcoli del cosiddetto "orologio molecolare" (una stima delle divergenze evolutive, basata sulle distanze genetiche fra specie attualmente viventi) – della separazione fra noi e gli scimpanzé, le scimmie antropomorfe che ci sono più simili geneticamente (condividiamo col loro più del 98% del DNA).

Che cos’è l’adattamento?
Per chi studia la Storia Naturale di una qualunque specie vivente la definizione più appropriata di "adattamento" è la seguente: l’insieme delle caratteristiche ereditarie che consentono le relazioni con uno specifico ambiente. Si fa dunque esplicito riferimento a quelle caratteristiche (ereditarie) che rendono gli organismi mirabilmente coerenti con l’ambiente nel quale vivono, come un pesce e un delfino che nuotano nell'acqua, come un insetto e un uccello che volano nell'aria o in alto nel cielo. Si tratta di caratteristiche funzionali alla sopravvivenza, che vengono trasmesse di generazione in generazione e che possono variare all’interno di una popolazione e fra le popolazioni. Sono variazioni genetiche che si esprimono come diversità morfologica e funzionale. La nozione di adattamento è perciò in relazione a quelle di genotipo e di fenotipo, di variazione delle frequenze alleliche, di selezione naturale, di sopravvivenza... in stretto rapporto con il fenomeno dell’evoluzione biologica, chiarito a partire dalla metà dell'Ottocento grazie all'opera di Charles Darwin e di tanti altri naturalisti e ricercatori.

Il risultato è stato che, mentre in Africa occidentale vi sono oggi fitte foreste equatoriali nelle quali sopravvivono le nostre cugine antropomorfe, gorilla e scimpanzé, l'Africa orientale (a parità di latitudine) è il regno delle grandi distese a prateria. Queste, punteggiate da alberi e cespugli isolati o intervallate da foreste a galleria e da aree di boscaglia, costituiscono un bioma ben noto: la savana.

I paleo-climatologi ritengono che l’inaridimento differenziale di questi territori abbia avuto un importante riscontro nella storia dell’evoluzione degli ominidi, in rapporto agli effetti dell’inaridimento: dapprima in termini di frammentazione dell’ambiente e di isolamento delle popolazioni, come di pressione selettiva a favore di nuovi adattamenti. In questo scenario paleo-ambientale in mutamento, le più antiche forme di Australopithecus – fra cui la specie della celebre Lucy – sono datate a partire da circa 4 milioni di anni fa.

Un aspetto particolarmente interessante è che, malgrado l'aspetto ancora scimmiesco, queste creature erano bipedi: scimmie insolitamente ed efficientemente bipedi. Sappiamo che il bipedismo si è affermato quando i nostri antenati erano ancora primati di foresta, anche se frammentata. Ipotizziamo perciò che divennero bipedi in risposta a quei continui passaggi negli spazi aperti tra foresta e foresta, come strategia adattativa di allarme e di difesa dai predatori.

Il bipedismo è stato il cardine intorno al quale ha ruotato il successo adattativo di quel gruppo particolarissimo di scimmie antropomorfe, che rappresenta il tronco e le prime ramificazioni del nostro albero evolutivo. È stato un successo tale da dar luogo a una varietà di ominidi bipedi, tutti nostri parenti stretti (e antenati), nell’Africa subsahariana di alcuni milioni di anni fa come anche in seguito.

Abbiamo detto, infatti, che un ulteriore inaridimento delle regioni dell'Africa orientale è intervenuto a partire da 3 milioni di anni fa. Questa volta non vi sarebbe stata solo una frammentazione dell’ambiente forestale (come avvenuto in precedenza), ma l’inaridimento avrebbe comportato una definitiva estensione delle distese aperte della savana. In questo contesto, il bipedismo (ormai sostanzialmente acquisito) risultò funzionale ai nuovi adattamenti negli spazi aperti e decisamente più difficili (per un primate) della savana, consentendo l'uso delle mani per la produzione dei più antichi strumenti in pietra del Paleolitico.

L’altra scommessa verrà dopo, nel corso degli ultimi 2 milioni di anni, con l'evoluzione del genere Homo. Iniziò così un altro processo chiave dell’evoluzione umana, in qualche modo reso possibile proprio dall’acquisizione della postura eretta e dal bipedismo acquisiti in precedenza: l’encefalizzazione, intesa come aumento progressivo del volume encefalico, ossia del cervello.

Sarà al culmine di questo processo che vedremo comparire la specie umana moderna: noi, Homo sapiens.

Per approfondire
Manzi G. (2013-18). Il grande racconto dell'evoluzione umana. Il Mulino, Bologna.
Manzi G. (2017). Ultime notizie sull'evoluzione umana. Il Mulino, Bologna.
Tuniz C., Manzi G., Caramelli D. (2013). La scienza delle nostre origini. Laterza, Roma-Bari.
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Variazione delle temperature medie nel corso del Cenozoico (a partire da 65 milioni di anni fa) e del Pleistocene (a partire da 2,6 milioni di anni fa). La linea tratteggiata orizzontale indica approssimativamente le condizioni climatiche attuali.

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Il genere Homo si distingue da Australopithecus per denti premolari e molari meno voluminosi, per un cervello sempre più grande e per significative variazioni nei tempi di accrescimento e sviluppo. I dati riportati nel grafico (fenogramma ottenuto con il metodo di cluster analysis N.J.) mostrano chiaramente questa distinzione fondamentale fra gli ominidi bipedi.
Legenda: A. = Australopithecus; P. = Paranthropus; H. = Homo
(immagine: Analisi e grafico di Fabio Di Vincenzo, da G. Manzi – Il grande racconto dell'evoluzione umana (2018))

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Diagramma della radiazione adattativa dei Primati nel corso del Cenozoico (immagine: grafico rielaborato da G.W. Lasker & R.N. Tyzzer – Physical anthropology (1982)).

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Con l'acquisizione del bipedismo, parte dei muscoli glutei si dispongono lateralmente, in rapporto alla forma delle ossa del bacino, e intervengono a bilanciare le oscillazioni del baricentro corporeo. In assenza di questa conformazione, il bipedismo occasionale di uno scimpanzé (a sinistra) risulta poco efficiente (immagine: disegno di Mauricio Antón, da J.L. Arsuaga & I. Martínez – La especie elegida (1998)).

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In questa rappresentazione dell’evoluzione umana della fine degli anni '70 sono contenuti modelli interpretativi vecchi e nuovi che si riferiscono, da un lato, all’idea di un'unica linea evolutiva – successioni lineari (si veda in particolare il caso del genere Homo, con relativi manufatti di riferimento del Paleolitico) – ovvero, dall’altro, all’ipotesi di una principale divaricazione evolutiva successiva a 3 milioni di anni fa.
Legenda: A. = Australopithecus; H. = Homo
(immagine: D. Johanson & M. Edey – Lucy. Le origini dell’umanità (1980)).