A partire dal 2026 tutte le ricerche scientifiche finanziate pubblicamente dal governo statunitense dovranno essere liberamente accessibili al momento della loro pubblicazione sulle riviste scientifiche. Questo significa che una copia dello studio dovrà essere ospitata su un repository pubblico, cioè un archivio digitale dal quale sarà accessibile subito e in maniera permanente.
Per capire il perché di questa riforma del governo USA, che è simile negli obiettivi a quella in corso in Europa, bisogna capire come si pubblica uno studio scientifico.
Che cos’è un “paper”?
Qualunque scienziato, scienziata o gruppo di ricerca deve comunicare i suoi risultati in modo che gli altri scienziati e scienziate possano utilizzarli.
La pubblicazione della ricerca si chiama in gergo paper, e avviene su riviste specializzate. Il personale della rivista esamina le proposte e se reputa la ricerca interessante avvia un processo chiamato peer-review, cioè revisione tra pari. Lo studio sarà inoltrato ad alcuni esperti ed esperte “alla pari” degli autori e delle autrici, cioè con le stesse competenze, che si occuperanno di valutare criticamente il contenuto. Invieranno i loro commenti all’editor, che a propria volta può inoltrarli agli autori e alle autrici. In base a questo feedback si decide se rifiutare il lavoro, accettarlo, o chiedere agli autori e alle autrici delle revisioni. Se le modifiche del caso sono soddisfacenti, la pubblicazione può finalmente uscire sulle pagine della rivista.
A questo punto, tutti i ricercatori e le ricercatrici di quel campo avranno la possibilità di usare il lavoro dei colleghi e delle colleghe per le loro ricerche. Quando succede, gli autori e le autrici della ricerca precedente vedranno il loro lavoro citato in quelli successivi. Essere citati è fondamentale per chi fa ricerca: significa che il tuo lavoro è stato notato. Lo è anche per la rivista, perché più citazioni riceve più è considerata “prestigiosa”. Questo prestigio è “misurato” da un indice chiamato impact factor. Si ottiene contando, per ogni anno, quanti paper hanno citato le pubblicazioni di quella rivista usciti nei due anni precedenti. Questo numero va poi diviso per il numero totale di pubblicazioni della rivista nello stesso periodo. Altri indicatori, sempre basati sulle citazioni, misurano le performance dei singoli autori e autrici.
Questo “filtro” dovrebbe evitare la pubblicazione di ricerche di bassa qualità; tuttavia è bene specificare che la peer-review è un meccanismo imperfetto, come lo è misurare la ricerca solo in termini di citazioni. Di per sé la pubblicazione di uno studio, anche su una rivista prestigiosa (che cioè riceve molte citazioni), non è garanzia assoluta di qualità: i revisori potrebbero non accorgersi di gravi errori o anche di una frode scientifica.
Viceversa, uno studio rifiutato dagli editor delle riviste più importanti, e che viene quindi pubblicato su riviste meno note, non è solo per questo meno valido. Più una rivista è importante, più deve scartare subito molte delle pubblicazioni che riceve, ancora prima di inviarle ai revisori, per scegliere quelle che ritiene (a torto o a ragione) maggiormente innovative. Per fare un esempio eccellente, diverse ricerche che hanno ricevuto il Nobel sono state inizialmente rifiutate da una o più delle riviste a cui l’autore o l’autrice aveva provato di inviarla. Un esempio è la scoperta dei quasicristalli, di cui abbiamo parlato su Aula di Scienze.
Chi paga, che cosa, e perché
Quando compriamo un libro una parte dei soldi raccolti ripaga l’autore o l’autrice che l’ha scritto, il resto va all’editore. Se ci abboniamo a una normale rivista, sappiamo che stiamo pagando anche chi scrive e tutti quelli che ci lavorano. Non funziona così per le pubblicazioni scientifiche.
Gli autori e le autrici non ricevono un compenso per questa attività, ci si aspetta che lo facciano perché fa parte del mestiere. Hanno bisogno di pubblicare per essere citati, e quindi continuare a essere finanziati. Il loro possibile guadagno è in reputazione, non in denaro.
Neanche i revisori anonimi ricevono un compenso: sono stati selezionati perché esperti riconosciuti nel loro campo, e accettare di collaborare è visto come un dovere e un’opportunità per la carriera.
I paper di cui parliamo sono ormai tutti digitali. Alcune riviste esistono ancora anche in cartaceo, ma un ricercatore non potrebbe tenere in ufficio tutti i fascicoli delle ricerche che deve consultare. È molto più pratico accedere alla loro versione digitale da un computer. Il problema è che anche questo il più delle volte ha un costo, ed è elevato. I ricercatori e le ricercatrici possono accedere liberamente solo ai paper sulle riviste a cui è abbonata, a caro prezzo, la sua università o istituzione. Le università più facoltose hanno un accesso virtualmente illimitato, potendosi permettere molti abbonamenti anche costosi, le altre devono fare dei compromessi. Ma a cosa servono questi soldi, se né gli autori, né le autrici, né i revisori sono ricompensati in denaro? Il costo dell’abbonamento è interamente incassato dall’editore, che lo usa per pagare i propri dipendenti e fornitori ed avere un profitto.
Da quando esiste la moderna editoria scientifica (dalla metà del XX secolo) è sempre stato così: le biblioteche universitarie si abbonano alle riviste che servono a chi fa ricerca. Da allora, però, le riviste sono diventate molto più numerose, e i prezzi sono saliti moltissimo nonostante la digitalizzazione abbia eliminato i costi di stampa. Questo è successo soprattutto perché gli editori commerciali, cioè aziende che puntano a massimizzare il profitto, sono diventati sempre più influenti. Nel tempo hanno acquisito, assieme alle loro citazioni, molte riviste stampate dalle società scientifiche (non profit) e hanno costruito un oligopolio dove pochi gruppi editoriali controllano buona parte delle riviste in circolazione e molte delle più prestigiose.
Il rialzo dei prezzi, però, ha riguardato anche alcune delle riviste scientifiche delle società scientifiche rimaste, con la differenza che i profitti sono reinvestiti nelle attività della società. Il risultato è che è sempre più difficile far quadrare i conti. Noi possiamo decidere di non comprare un libro, ma gli scienziati e le scienziate non possono non leggere la letteratura del loro settore, e le loro biblioteche faticano a garantire questo servizio.
Eppure, molte di quelle ricerche sono finanziate coi soldi dei cittadini e delle cittadine, quindi molti pensano che avrebbero diritto ad accedervi gratuitamente, alla pari degli scienziati e delle scienziate.
L’open access
La digitalizzazione dei paper ha dato vita a un modello alternativo di pubblicazione scientifica che non si basa su un abbonamento: per accedere a queste pubblicazioni serve solo una connessione internet perché sono in open access, cioè ad accesso aperto. Il simbolo dell’open access, infatti, è un lucchetto sbloccato.
Il costo delle riviste open access è coperto da varie strategie di finanziamento. A volte proviene direttamente dai fondi di ricerca degli autori che pubblicano, altre volte da fondazioni, bandi appositi, filantropi, o anche pubblicità. Anche le riviste open access possono poi essere sia non profit che for profit (infatti molte sono di proprietà dell’oligopolio di cui sopra). Esistono anche modelli “ibridi”, dove un editore tradizionale può rendere alcuni articoli disponibili in open access, ma a pagamento. Oppure può concedere che una versione dell’articolo sia archiviata dall’autore in un repository pubblico, ma spesso impone un periodo di embargo che può arrivare a un anno.
Un’altra strada per gli autori e le autrici è quella di pubblicare in un repository open access direttamente il pre-print, cioè una bozza dello studio priva di peer review. In questo modo gli autori e le autrici raccolgono direttamente un feedback dai colleghi. Contemporaneamente possono decidere di inviare l’articolo a una rivista, open access o meno, che accetti di finalizzare una pubblicazione di cui è già presente il preprint.
L’open access, come principio, comporta una serie di vantaggi per la società, oltre che per gli scienziati e le scienziate. Pochi mettono in dubbio che per un ricercatore sia meglio avere accesso libero e gratuito alle pubblicazioni scientifiche, ovunque ci si trovi sul pianeta. Lo stesso vale per qualunque cittadino, che per molto di quel lavoro ha pagato con le tasse. Pensiamo, per esempio, alle associazioni di pazienti, ai giornalisti scientifici che raccontano i risultati al pubblico, ai watchdog che vanno a caccia di errori e frodi. Acquistare un singolo paper tra i milioni che escono ogni anno costa in media una trentina di euro per chi non è abbonato tramite un’istituzione.
Il grande problema è fare in modo che l’open access diventi la norma, cioè guidare una transizione che renda l’editoria scientifica più equa e trasparente per tutti. Le riviste open access negli ultimi vent’anni sono cresciute moltissimo, ma questo non ha liberato le biblioteche dal fardello dei costosi abbonamenti, che continuano a essere indispensabili. Perché l’oligopolio ha accumulato nel tempo, attraverso le citazioni, un patrimonio reputazionale di cui gode chi riesce a pubblicare. Pertanto, non è possibile pretendere che tutti i ricercatori in tutto il mondo scelgano per principio solo riviste open access.
Inoltre, nonostante la validità dell’open access, la proliferazione di riviste che lo offrono ha replicato problemi noti anche nelle pubblicazioni tradizionali. Per esempio, alcune riviste dette “predatorie” accettano e pubblicano ogni studio inviato, senza eseguire una vera peer review. In questa maniera l’editore incassa senza fare praticamente nulla, e un autore o un’autrice può vedere pubblicato un lavoro scadente che altrimenti sarebbe molto probabilmente rifiutato.
In cerca di una soluzione
Non esiste una soluzione semplice a questo problema, ma è talmente importante che se ne stanno interessando i governi, che sono tra i principali finanziatori delle ricerche pubblicate. Un esempio è quello citato in apertura: gli Stati Uniti ora hanno imposto che dal 2026 ogni ricerca finanziata con fondi federali sia subito accessibile da un repository. Questo significa che non importa se i ricercatori e le ricercatrici pubblicheranno su una rivista open access o su una tradizionale, una copia del lavoro dovrà comunque essere accessibile da un repository pubblico, in perpetuo, e a partire dal momento della pubblicazione (cioè senza un periodo di embargo).
L’Unione Europea, con lo stesso obiettivo, ha scelto una strada simile. Sintetizzando, le ricerche che ricevono determinati fondi possono essere pubblicate o in un giornale open access, oppure una loro versione deve essere archiviata in un repository.
Queste imposizioni hanno ricevuto diverse critiche, principalmente dagli editori for profit, ma anche da alcuni non profit tradizionali, che temono di dover chiudere perché gli abbonamenti non serviranno. Tra i ricercatori, alcuni temono invece che i prezzi delle riviste open access, alcune già molto care, vadano alle stelle. Altri invece pensano che questo limiti la loro libertà di scelta.
Secondo i promotori invece obblighi così estesi, seppur limitati alla ricerca pubblica, dovrebbero costringere il business delle pubblicazioni scientifiche verso nuove strategie di finanziamento che sostengano l'accesso aperto per tutti senza pesare sulle tasche dei contribuenti.