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Come si pulisce il mare dal petrolio?

Contenimento, raccolta, biorisanamento: ecco le strategie per il clean-up dell’ambiente marino a seguito di sversamenti di idrocarburi

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Secondo i dati raccolti dalla International Tanker Owners Pollution Federation (ITOPF), un’organizzazione senza scopo di lucro promossa dagli armatori di tutto il mondo per monitorare le fuoriuscite marine di petrolio, nel corso del 2023 sono state disperse nell’ambiente circa 2 mila tonnellate di petrolio a causa di sversamenti dalle petroliere adibite al trasporto di greggio. Una parte del petrolio che contamina mari e oceani è inoltre legata a fuoriuscite naturali dai fondali marini, ma, al contrario di quanto si pensava in precedenza, si tratta solo di una piccola percentuale rispetto al totale. Uno studio pubblicato nel 2022 su Science mostra infatti che più del 90% delle chiazze di petrolio “croniche” presenti sulla superficie degli oceani di tutto il mondo ha origini antropiche.

Qualunque sia la loro origine, gli sversamenti di idrocarburi costituiscono un enorme problema ambientale, con ripercussioni sia sulle specie acquatiche, sia sugli esseri umani. Per porvi rimedio, nel tempo sono state messe a punto tecniche di clean-up dell’ambiente marino, mirate a contenere i danni a seguito specialmente di incidenti di grandi proporzioni, come quello verificatosi nel 2010 nel Golfo del Messico. Renata Denaro, ricercatrice presso il CNR-IRSA (Istituto di Ricerca sulle Acque), ci aiuta a fare il punto sulle tecnologie attualmente disponibili e su quelle ancora in fase di studio.

A quattoridici anni di distanza dall’incidente, Enrico Bergianti, giornalista e podcaster, ha ripercorso la vicenda della Deepwater Horizon nel podcast blu, petrolio, prodotto da Zanichelli, disponibile anche su Spotify.

Contenimento e raccolta

L’intervento di risanamento a seguito di uno sversamento di petrolio si basa essenzialmente su contenimento e raccolta. Il contenimento viene realizzato prevalentemente mediante l’uso di barriere galleggianti, che aiutano a evitare la dispersione del petrolio sulla superficie del mare. Per la raccolta vengono invece utilizzati appositi strumenti, come gli skimmers, che sfruttano la viscosità del petrolio per separarlo meccanicamente dall’acqua. Si tratta in sostanza di dischi di metallo, talvolta provvisti di setole idrofobiche, che raccolgono il petrolio (il quale galleggia sulla superficie del mare a causa della sua inferiore densità rispetto a quella dell’acqua) per poi accumularlo in apposite vasche e permetterne lo smaltimento ex situ. Alternativamente, possono essere utilizzate delle panne assorbenti costituite da materiali di diverso tipo, in alcuni casi di origine naturale, come la lana grezza. Spiega Renata Denaro:

L’importante è che si tratti di materiali stabili, ossia non biodegradabili, non tossici ed economici. Oltre ai materiali utilizzati, che hanno certamente la loro importanza, anche le condizioni meteorologiche e chimico-fisiche del sito, insieme alla tipologia di petrolio, sono fattori determinanti per quanto riguarda l’efficacia degli interventi di clean-up.

Inoltre, sia le tecniche di contenimento che quelle di raccolta sono efficaci quanto più tempestivo è l’intervento. Prosegue Denaro:

A seconda delle condizioni meteorologiche e anche della tipologia di petrolio che è stato sversato, quest’ultimo tende in parte ad evaporare e in parte a sprofondare, quindi a distribuirsi nella colonna d’acqua. Per questo motivo, più tempestivo è l’intervento e maggiore è la sua efficacia.

Metodi chimici: ruolo e criticità dei surfattanti

Oltre ai metodi meccanici appena descritti, gli interventi di clean-up possono inoltre prevedere l’uso di mezzi chimici. In questo caso si tratta soprattutto di surfattanti (o tensioattivi) che permettono la “frammentazione” del film di petrolio in gocce più piccole. Ciò facilita la degradazione degli idrocarburi da parte della comunità microbica marina. Spiega Denaro:

Questo intervento tiene conto della capacità di self-cleaning del mare, a cui contribuiscono soprattutto alcune specie batteriche e in proporzione minore anche funghi e alghe.

L’uso dei surfattanti non è però privo di controindicazioni: in primis perché questi agenti rischiano di favorire la dispersione del petrolio, rendendolo maggiormente accessibile agli organismi viventi. Proprio per questo motivo, i disperdenti vengono utilizzati esclusivamente in determinate aree e quando vi è estrema necessità.

Biorisanamento: i batteri mangia-petrolio”

In aggiunta ai metodi meccanici e a quelli chimici appena descritti esistono poi delle strategie biologiche per il clean-up dell’ambiente marino, che complessivamente prendono il nome di biorisanamento, o bioremediation in inglese. Come anticipato, infatti, esistono batteri capaci di degradare gli idrocarburi, ossia le molecole organiche alifatiche o aromatiche, costituite nella loro struttura essenziale da atomi di carbonio e di idrogeno, che compongono il petrolio.

I batteri idrocarburo-degradanti sono noti già da molto tempo. Uno dei pionieri in questo ambito di ricerca fu infatti il biologo marino Claude ZoBell, che già nel 1946, allora ricercatore e docente presso la Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California a La Jolla (Stati Uniti), scrisse e pubblicò una review con la quale passava in rassegna le ricerche scientifiche al tempo disponibili su questo tema. Prosegue Denaro:

Quello che è cambiato nel corso degli anni sono le tecnologie che ci consentono di studiare questo tipo di batteri. Oggi siamo in grado di analizzare un campione di acqua o di sedimenti raccolti in aree contaminate da petrolio e di caratterizzare l’intera comunità batterica che si è sviluppata al suo interno, in modo da poter riconoscere i membri che svolgono un ruolo principale nella degradazione degli idrocarburi.

Proprio grazie a queste tecnologie, negli ultimi 20 anni sono stati identificati batteri marini che hanno la caratteristica di consumare esclusivamente o preferenzialmente idrocarburi come fonte di carbonio e di energia, specialmente se posti nelle condizioni ottimali in termini di temperatura e concentrazione di ossigeno, azoto e fosforo. Spiega ancora l’esperta:

Questi batteri presentano un genoma che è fortemente orientato alla degradazione degli idrocarburi. Producono per esempio specifici enzimi per la distruzione di queste molecole e possono inoltre secernere biosurfattanti, che hanno un’azione tensioattiva sul petrolio simile a quella dei surfattanti di sintesi. In più, recentemente si è visto che questo tipo di batteri è in grado di produrre siderofori, sostanze a basso peso molecolare che consentono loro di catturare il ferro necessario ai processi enzimatici di degradazione degli idrocarburi.

Ma di quali specie batteriche parliamo esattamente? Quelli che potremmo definire “batteri mangia-petrolio” appartengono essenzialmente a cinque generi: Alcanivorax, Oleiphilus, Thalassolituus, Cycloclasticus e Oleispira. I primi tre hanno un’elevata affinità verso gli idrocarburi alifatici. Lo stesso vale per Oleispira, che ha inoltre la caratteristica di essere stato isolato in Antartide e di riuscire a degradare gli idrocarburi anche a basse temperature, una caratteristica importantissima perché a basse temperature aumenta la viscosità del petrolio, che diventa quindi meno accessibile ai batteri.

Infine, a differenza degli altri quattro, i ceppi batterici appartenenti al genere Cicloclasticus hanno un’elevata affinità verso gli idrocarburi aromatici, che sono anche quelli più resistenti alla degradazione. Prosegue Denaro:

Immaginiamo quindi una sorta di ‘consorzio’ microbico con affinità specifiche verso idrocarburi di diverso tipo, che può essere costruito ad hoc a seconda della tipologia di petrolio. Il petrolio è infatti una miscela molto complessa, costituita da idrocarburi di diverso tipo. Conoscendone la specifica composizione è possibile progettare l’utilizzo di un consorzio di batteri più appropriato.

Biostimulation: cosa consente la normativa

Tra l’altro, le ricerche sul campo hanno mostrato che le popolazioni di batteri appartenenti a questi cinque generi crescono naturalmente in caso di contaminazione da idrocarburi. Allo stesso modo, via via che il petrolio viene degradato le loro densità relative tornano a diminuire. Inoltre, punto fondamentale, la loro azione di degradazione non genera intermedi tossici: i prodotti della biodegradazione sono semplicemente anidride carbonica, biomassa (cioè il temporaneo aumento in numero di questi batteri) e acqua. In più, uno dei vantaggi delle tecniche di bioremediation è quello di essere molto sostenibili dal punto di vista dei costi: non richiedono energia e necessitano semplicemente l’uso di biorisorse naturali che si autoproducono.

Ma, all’atto pratico, come vengono sfruttate le caratteristiche di questo tipo di batteri quando si verifica uno sversamento di petrolio in mare? A livello sperimentale sono allo studio ad esempio tecniche che permettono di immobilizzare le cellule batteriche di interesse su supporti solidi, mantenendone comunque la capacità di degradazione degli idrocarburi. Questo consente in teoria di utilizzarli nel sito contaminato prevenendone allo stesso tempo la dispersione incontrollata in mare, e permette anche di contrastare l’effetto di diluizione intrinseco al mezzo liquido, e quindi all’ambiente marino.

Tuttavia, la normativa a riguardo non è ancora chiara né omogenea. In generale, nell’Unione Europea e in altri paesi c’è ancora una certa riluttanza rispetto all’idea di introdurre microrganismi in mare. Spiega Denaro:

La possibilità di aggiungere batteri in mare attualmente è ancora in discussione. Anche se si tratta di batteri autoctoni, isolati dallo stesso sito e aumentati in laboratorio, tecnica che prende il nome di bioaugmentation.

Nonostante non ci siano evidenze del fatto che gli interventi di bioaugmentation possano dare luogo a rischi specifici, non ci sono ancora le condizioni di fornire ai decision maker delle prove esaustive e sostanziali sull’efficacia e sulla sicurezza di questa tecnologia. Per questo motivo è necessario intensificare i progetti che prevedono delle prove in campo. Conclude Renata Denaro:

Abbiamo delle prove effettuate in mesoscala, ossia in speciali vasche che sono collegate con l’ambiente marino e che lo simulano con una certa fedeltà, ma non abbiamo prove in situ, o ne abbiamo pochissimi esempi. La normativa è invece più favorevole verso l’uso di nutrienti (come azoto e fosforo) per stimolare la crescita in situ dei “batteri mangia-petrolio” naturalmente presenti in mare. Quest’ultima strategia prende il nome di biostimulation.

immagine di copertina: sversamento di petrolio a largo della California nel 2021 (crediti: NASA/JPL-Caltech)

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La marea nera sulle spiagge della Galizia dopo l’affondamento della petroliera Prestige, avvenuto il 19 novembre 2002 (immagine: Wikipedia)

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21 aprile 2010: navi della Guardia Costiera degli Stati Uniti impegnate nello spegnimento dell’incendio alla piattaforma Deepwater Horizon (immagine: US Coast Guard)