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La crisi globale della natalità

I dati mostrano l’avanzata della denatalità, i sondaggi provano a spiegarne le ragioni, tra mancanza di welfare e cambiamenti socioculturali

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Nel 2022 l’Italia ha superato ancora una volta il record della denatalità, al ribasso: rispetto all’anno precedente sono nati quasi 7.000 bambini in meno. Ce lo raccontano i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), confermando che le coppie con genitori entrambi italiani fanno sempre meno figli e li fanno sempre più tardi. L’età media delle madri quando nasce il primo è di 31,6 anni, tre in più rispetto al 1995: ogni dieci anni, circa, per le famiglie la decisione di avere un bambino si sposta di un anno più in là.

Perché non si fanno figli?

Gli elementi che frenano le coppie sono tanti e toccano ogni tappa della vita. Si allungano i tempi dedicati alla formazione e, terminati gli studi, è difficile trovare un lavoro stabile e ben pagato che valorizzi le proprie competenze. Le ambizioni di carriera, a quel punto, sono difficili da conciliare con la genitorialità e a risentirne sono quasi sempre le donne: nel 2022 in 44 mila hanno lasciato il lavoro per accudire un figlio, il 17% in più rispetto al 2021, mentre la maggior parte degli uomini che dà le dimissioni lo fa per trasferirsi in un’altra azienda. Come se non bastasse, riuscire a comprare una casa è per tanti un sogno fuori portata, soprattutto per i nuclei con un solo reddito e/o per chi non può appoggiarsi ai genitori per dei risparmi (o come garanti per un mutuo).

Nei periodi di incertezza, inoltre, si tende a posticipare le decisioni importanti come mettere al mondo un figlio. Lo abbiamo visto succedere con la pandemia di Covid-19, quando tante famiglie hanno messo in pausa i loro – come li chiama l’Istat – “progetti riproduttivi”. Secondo i dati, anche sposarsi non rientra più tra le tappe di coppia obbligate: tra i figli di genitori entrambi italiani, quasi un bambino su due nasce fuori dal matrimonio.

Per quanto riguarda l’effetto positivo sulle nascite legato alla popolazione di origine straniera, iniziato nei primi anni Duemila e sul quale si contava per bilanciare i pochi nati da genitori italiani, si è molto attenuato. Anche le coppie in cui uno o entrambi i genitori sono di origine straniera fanno meno figli rispetto al passato, nonostante la presenza straniera continui ad aumentare: nel 2022 quasi il 30% dei nati al Nord e il 23% dei nati nel centro Italia aveva almeno un genitore straniero (meno al Sud e nelle isole, dove era circa il 9%).

Progetti di vita e aspettative della società

Le priorità cambiano anche di molto tra diverse generazioni. Ci viene in aiuto una ricerca Changes Unipol elaborata da Ipsos, che ha chiesto a 1000 italiani nella fascia 16-74 quali iniziative vorrebbero a sostegno della natalità, e quanto fare figli si collocasse nel loro progetto di vita. È emerso che le azioni di supporto più apprezzate sono in primis quelle economiche, come l’assegno universale per ogni figlio a carico (oggi da un minimo di 54,05 € a un massimo di 189,20 € al mese per i minorenni) e il sostegno per le spese legate alla scuola, seguite da flessibilità lavorativa e welfare aziendale, in particolare poter usufruire di un asilo nido dentro l’azienda. Si stima che ci siano circa 220 asili nido aziendali, quasi tutti al Nord, e che un asilo nido su due in Italia abbia bambini in lista di attesa, sia nel pubblico che nel privato.

Chi non ha figli, tuttavia, non necessariamente vuole averli in futuro, dicono i dati Changes Unipol. Non è solo un discorso di età: nella Gen X (nati tra 1965 e 1980) oltre due persone su cinque non li vedono come parte del proprio progetto di vita e tra i Millennial (nati tra il 1980 e il 1996) la pensa così una persona su tre. La maggior parte degli intervistati concorda sul fatto che oggi le coppie abbiano meno interesse a fare figli rispetto a 30 anni fa, e ritiene che a frenarle siano le motivazioni economiche (al Sud in particolare), seguite da quelle socioculturali.

Mentre tanti paesi europei lavorano da decenni sul miglioramento delle politiche sociali, l’Italia continua a soffrire di inerzia istituzionale e si conta tacitamente sul tradizionale familismo del Paese, ovvero il fatto che i compiti di cura ricadono sui membri della famiglia stessa. Un sistema informale, fonte di profonde ineguaglianze di genere e che non può più funzionare nell’Italia di oggi dove le donne lavorano, la natalità cala e il rapporto tra pensionati e lavoratori si fa sempre più critico. In parallelo, in barba ai messaggi “pro famiglia”, si raddoppia l’IVA sui pannolini e i prodotti per l’infanzia.

Tra gli elementi che preoccupano c'è anche il futuro, ad esempio l’incertezza climatica, ma di base fare figli non è più percepito come tappa obbligata per adeguarsi alle richieste della società. Sempre più persone scelgono di dedicarsi alla propria crescita individuale, approfittando delle tante più possibilità a disposizione rispetto al passato, in particolare per le donne. Non per tutte la realizzazione personale passa dal ruolo di madre, ma anche quelle che desiderano una gravidanza sono sempre più portate a posticiparla, in modo da trovare soddisfazione nei traguardi di studio e carriera. Dedicarsi a se stessi come adulti in costante crescita e cambiamento, prima di assumere il nuovo ruolo genitoriale, può decisamente rendere genitori migliori.

Non solo Italia: denatalità come fenomeno globale

La denatalità è una storia che non dovremmo semplificare, e non è una storia solo italiana. Se la strada verso la parità di genere è un elemento cruciale per capirla, va detto che le priorità non sono cambiate solo per la popolazione femminile. Da un sondaggio condotto negli Stati Uniti su quasi 3.900 persone tra i 18 e i 49 anni, è emerso che il 56% di quelle senza figli e non intenzionate ad averne semplicemente non li voleva, senza differenze di genere tra uomini e donne. Tra quelli che avevano motivazioni specifiche, invece, l’indipendenza personale è emersa come primo fattore, seguita da situazione finanziaria e necessità di bilanciare vita privata e professionale.

Un modello globale pubblicato su The Lancet guarda avanti fino al 2100: gli autori si aspettano un picco della popolazione mondiale nel 2064, con 9,7 miliardi di persone, e a seguire una progressiva riduzione a 8,8 miliardi. «È piuttosto significativo; la maggior parte del mondo sta andando in direzione di un declino naturale della popolazione», ha commentato alla BBC Christopher JL Murray, l’autore senior. Secondo il modello la popolazione italiana crollerà da 61 milioni a 28, ma sono più di 20 i Paesi (inclusi Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Spagna e Portogallo) che in questo scenario vedranno gli abitanti dimezzarsi o più. In controtendenza andrà la popolazione dell’Africa sub-sahariana, che ci si aspetta triplichi entro fine secolo. «Avremo sempre più persone di discendenza africana in molti paesi [...] e riconoscere le sfide del razzismo a livello globale sarà ancora più critico», sottolinea Murray.

Prepararsi a (un possibile) futuro, cambiando prospettive

Questi modelli raccontano una società dove la struttura demografica è invertita: a fine secolo il numero di persone sopra gli 80 anni sarà oltre il doppio dei bambini sotto ai cinque anni. Quali lavoratori porteranno avanti i settori chiave dell’industria? Chi pagherà le tasse, per supportare i sistemi sanitari nazionali e la previdenza sociale? Potrebbero verificarsi dei fenomeni inaspettati – lo stesso baby boom, il grande aumento della natalità che si colloca dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non è stato a oggi del tutto compreso – ma sembra chiaro che i Paesi dovrebbero adattarsi e pianificare verso un futuro diverso da quello sperato. O forse si troverà il modo di convincere le persone a fare più figli?

«Persino i governi più ricchi, competenti e impegnati hanno fatto fatica a trovare politiche che producessero aumenti costanti della fertilità. Se queste politiche esistessero, penso che qualcuno le avrebbe scoperte», ha commentato in un’intervista a Vox Trent MacNamara, docente di storia alla Texas A&M University. Non si può dire che i governi non ci abbiano provato, da quelli che hanno aumentato i congedi parentali e migliorato i servizi per l’infanzia, incentivando l’occupazione femminile (in cima alla classifica europea ci sono Svezia, Norvegia, Islanda, Estonia e Portogallo) fino all’Ungheria che nel 2019 ha pagato le famiglie, offrendo 10 milioni di fiorini – l’equivalente di circa 30 mila euro – alle coppie che avessero fatto almeno tre figli.

Non sono mancate iniziative più atipiche, come gli eventi per single organizzati dai governi in Cina e in Corea del Sud, o le campagne informative. Ricordiamo la discussa iniziativa nostrana del “Fertility Day”, nel 2016, con cartoline dal tono paternalistico che accompagnavano un documento non certo privo di criticità. È ancora consultabile online e ci spiega che la società ha “scortato le donne fuori casa, aprendo loro le porte del mondo del lavoro e sospingendole verso ruoli maschili”. Questo estratto sessista dovrebbe fungere da monito per le future politiche di contrasto alla denatalità, in tutti i Paesi: non è accettabile che vengano messe in atto limitando l’autonomia femminile e sovrascrivendo le tante battaglie condotte, come quelle per l’accesso all’educazione, al mercato del lavoro e alla contraccezione, ma anche la tutela della salute riproduttiva femminile, l’accesso all’aborto e la lotta per raggiungere una reale parità di genere.

Non è accettabile pensare di contrastare la denatalità scortando di nuovo le donne dentro casa, ma si può sperare di incoraggiare le famiglie a fare più figli rimuovendo le barriere che limitano, in primis, la realizzazione del singolo come individuo: con case a prezzi accessibili, lavori non sottopagati che lascino tempo per una vita privata ricca e dignitosa, impegno reale per contrastare le sfide globali come i cambiamenti climatici. Forse, allora, si faranno anche più figli.

immagine di copertina: Manfred Antranias Zimmer from Pixabay

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La situazione italiana (immagine: ISTAT)

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Età media per provincia italiana nel 2022 (immagine: pagella politica)

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Le nascite in Italia dal 1861 al 2020 (immagine: pagella politica)