La scienza è una della massime conquista intellettuali figlie della modernità. Grazie al suo sviluppo l’umanità non ha più bisogno di ricorrere al trascendente per spiegare la natura: è sufficiente utilizzare la ragione. Seppure universale, però, il suo metodo affonda le radici nella cultura dell’Europa, dove si è sviluppata quella trasformazione del pensiero che oggi chiamiamo Rivoluzione scientifica.
Nel corso dei secoli, in particolare di quelli più recenti, il metodo e la cultura scientifica si sono diffusi in tutto il mondo, ma la scienza continua a essere principalmente un’attività occidentale, soprattutto ai livelli più alti. Questo avviene soprattutto perché oggi le migliori università e i migliori centri di ricerca al mondo si trovano in Occidente, quell’area del mondo che oltre all’Europa e al Nord America può comprendere anche Giappone, Australia e Nuova Zelanda.
Il dominio dell’Occidente nei ranking delle università
Non esiste un indicatore universale che mostri la distribuzione del sapere scientifico nel mondo, ma possiamo usare alcuni indizi per cercare di capire come stanno le cose. Possiamo iniziare, per esempio, guardando dove si trovano le migliori università del mondo. Partiamo dalla classifica stilata ogni anno da QS World University Rankings 2025, un servizio che assegna un punteggio a oltre 1500 università e lo fa in collaborazione con Elsevier, uno dei più grandi gruppi editoriali del mondo che si occupano di riviste scientifiche. Delle prime 25 al mondo, l’élite assoluta della formazione, ben dieci istituzioni hanno sede negli Stati Uniti, quattro nel Regno Unito e tre in Australia, cui dobbiamo aggiungere il politecnico di Zurigo e una delle università di Parigi. Solo due università cinesi, una di Hong Kong e le due università statali di Singapore insidiano il predominio occidentale. Nessuna traccia di Africa, America Centrale e America Meridionale.
Qui abbiamo preparato una tabella con le prime 25 università del mondo secondo QS e abbiamo aggiunto anche il loro posizionamento in altre due classifiche, la Times Higher Education e la Round University Ranking. Come si può notare, l’élite non cambia di molto. In una classifica può mancare la singola istituzione, ma nessuna delle prime 25 università secondo QS esce dai primi 130 posti delle altre classifiche. Considerando che gli atenei valutati sono tra 1000 e 2000, significa che non usciamo mai dal primo 10-15% della classifica.
Premi Nobel, Africa e Asia
Questa situazione di predominio dell’Occidente allargato sulla produzione scientifica si riflette anche nella distribuzione dei premi Nobel scientifici. Quelli assegnati lo scorso ottobre 2024 lo hanno mostrato in maniera più evidente che in altri anni: dei sette premiati nelle discipline scientifiche non ci muoviamo mai fuori dall’asse Stati Uniti-Gran Bretagna, che sono i due Paesi con il maggior numero di università nella classifica top25 di QS. Paradossalmente, l’unico premiato ad avere una storia biografica leggermente meno occidentale è Demis Hassabis, l’amministratore delegato di Deepmind, l’azienda controllata da Google che tra le altre cose ha prodotto Alphafold, l’algoritmo per la previsione del folding proteico. Ma nonostante Hassabis sia figlio di una donna singaporiana e di un uomo greco-cipriota, la sua formazione universitaria è tutta targata Regno Unito: laurea all’Università di Cambridge e dottorato allo University College di Londra (UCL), due delle università inglesi che appaiono stabilmente nelle prime posizioni delle classifiche.
Certamente un anno di Nobel non può essere indicativo. Perciò siamo andati a vedere la distribuzione di tutti i premi Nobel dall’inizio a oggi, allargando lo sguardo anche oltre le discipline scientifiche. Il risultato è che i primi cinque paesi in classifica hanno portato a casa il 79,8% di tutti i premi.
Questi numeri da soli dovrebbero fare riflettere. Per prima cosa, certificano l’importanza della lunga storia delle istituzioni scientifiche e delle università europee in primis e occidentali in generale. D’altra parte, la Rivoluzione scientifica è partita dall’Europa e non è sorprendente che la tradizione di studi scientifici sia più marcata in questo continente e che proprio qui si concentrino i migliori centri per la formazione di chi fa scienza. Fatta questa doverosa precisazione, comunque, impressiona leggere un articolo come quello firmato da Winston Morgan su The Conversation. Morgan è un tossicologo che lavora all’Università di East London, nel Regno Unito, e l’articolo è apparso in occasione del Black History Month del 2018. Il Black History Month è quell’iniziativa nata in ambito anglosassone per celebrare la storia della diaspora africana. Nel Nord America si celebra fin dagli anni Settanta del Novecento dal 1° febbraio al 1° marzo, mentre nel Regno Unito il mese dedicato alla black history è ottobre.
Nell’articolo, Morgan sottolinea un semplice dato numerico:
Degli oltre 900 premi Nobel, solo 14 (l’1,5%) erano neri e nessuno lo ha vinto nella scienza.
La situazione è migliore se si vanno a contare i premi Nobel asiatici. Scrive sempre Morgan:
Ci sono stati oltre 70 vincitori di premi asiatici, la maggior parte nelle scienze, e dal 2000 quel numero è aumentato in modo significativo.
L’autore sottolinea come questa situazione sia figlia dei crescenti investimenti che alcuni Paesi economicamente in grande crescita hanno fatto nella seconda metà del Novecento e, in particolare, nel nuovo secolo, come Giappone, Cina, Corea, Singapore e Hong Kong.
Un problema complesso
Morgan sottolinea come per vincere un premio Nobel nella scienza, è utile trovarsi in un’istituzione prestigiosa e nella posizione di guidare una ricerca di grandi dimensioni e molto costosa. Condizioni che università con minor disponibilità economica fanno fatica a garantire anche a scienziati e scienziate di grande talento e che potenzialmente possono puntare all’élite delle proprie discipline. Morgan sottolinea che in una certa parte questa situazione è figlia di un circolo vizioso:
La ragione principale per cui non ci sono scienziati neri tra i vincitori dei Nobel è una questione di numeri. Non sono abbastanza le persone nere che scelgono di studiare scienze.
Ma la situazione non è preoccupante solamente in Africa. Un’analisi di qualche anno fa sulla popolazione americana mostra come le banche siano sempre meno inclini a concedere un prestito a studenti e studentesse afrodiscendenti per poter studiare. Risultato: in un Paese in cui la popolazione nera è circa il 12%, tra i laureati STEM rappresenta solamente il 7%. Una situazione che sembra ricalcare quello che avviene per le donne lungo la carriera.
I dati mostrati fin qui riescono in realtà solamente a grattare la superficie della complessa rete di cause per cui alcuni Paesi e alcuni tipi di persone sono più rappresentati di altre nella scienza di oggi. Ci sono cause storiche, motivazioni geopolitiche ed economiche, oltre che effetti di posizionamenti socio-culturali radicati in alcuni gruppi di persone (leggasi: pregiudizi e razzismo): tutti devono essere affrontati con gli strumenti più adeguati in un processo di perequazione che potrebbe durare anni. Cominciare a conoscere lo stato del divario tra Occidente e resto del mondo in termini di accesso e rappresentazione è il primo passo.
nell’immagine di copertina l’Università di Città del Capo (Sudafrica), una delle migliori universtà africane (Wikipedia)