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DNA antico: una finestra sul passato, uno sguardo sul futuro

Guido Alberto Gnecchi-Ruscone ci aiuta a capire come l’ambiente e le grandi epidemie hanno modellato la genetica umana con ricadute sulla nostra salute

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Nell’odierno Kirghizistan, in prossimità del lago salato Ysyk-Köl, c’è un piccolo cimitero che da qualche anno ha attirato l’attenzione di storici, archeologi, epidemiologi e genetisti esperti di DNA antico. Tra le file di tombe di questo cimitero, ci sono moltissime lapidi che condividono due dettagli: la causa della morte (“pestilenza”) e il momento in cui si è verificata (tra il 1338 e il 1339).

Di quale tipo di pestilenza di tratta? È forse la grande epidemia di “peste nera” che ha decimato la popolazione europea tra il 1346–1353? Se così fosse, com’è possibile che le date sulle tombe anticipino di circa una decina di anni quello che fino a oggi gli storici hanno considerato come inizio dell’epidemia? Queste domande rimandano a loro volta a un quesito ancora più generale, che fino a oggi ancora non ha una risposta certa ma solo svariate ipotesi: da dove ha avuto origine l’epidemia di peste del Trecento?

In casi come questo, le ipotesi di storici e archeologi possono trovare un valido alleato nello studio del DNA antico: i campioni di DNA raccolti dalle sepolture del cimitero kirghiso hanno infatti confermato la presenza di tracce di Yersinia pestis, il batterio responsabile della peste. Il sequenziamento del genoma batterico e le analisi filogenetiche hanno inoltre confermato che questo ceppo di Y. pestis è antecedente rispetto a tutti gli altri ceppi precedentemente conosciuti, sia quelli moderni sia quelli antichi rinvenuti da altri reperti del Trecento in altre parti d’Europa.

Questa scoperta, pubblicata nel giugno 2022 sulla rivista Nature, dimostra che questo villaggio del Kirghizistan potrebbe essere stato, se non proprio il punto di inizio, quanto meno un punto di radiazione dell’epidemia del Trecento: un nuovo indizio da cui archeologi, storici e genetisti possono partire per ricostruire il puzzle della "peste nera" in Asia e in Europa.

Per capire come lo studio delle sequenze di DNA antico possa aiutarci a capire le epidemie del passato e le ripercussioni odierne sulla nostra salute, ho intervistato Guido-Alberto Gnecchi-Ruscone, co-autore dello studio pubblicato su Nature e post-doc nel laboratorio di Johannes Krause nel dipartimento di archeogenetica del Max Planck Institute per l’Antropologia Evolutiva di Lipsia: lo stesso istituto in cui lavora da anni anche Svante Pääbo, premiato a inizio ottobre con il Nobel per la Medicina proprio per i suoi studi sul DNA antico e sulla paleogenetica (ne abbiamo parlato in questo articolo dell’Aula di Scienze).

Come si riconosce un campione di DNA antico e come lo si studia?

Chiariamo innanzitutto che cosa intendiamo per «DNA antico». A dispetto di quello che si potrebbe pensare, questo termine non fa necessariamente riferimento a uno specifico intervallo temporale, ma indica piuttosto la presenza di pattern di alterazioni chimiche che sono tipiche della degradazione post-mortem. L’entità di queste modifiche dipende dal tempo trascorso dal momento della morte, ma non solo; anche le condizioni e l’ambiente in cui sono stati preservati i campioni hanno un ruolo fondamentale. Questo è il motivo per cui anche campioni forensi che risalgono ad “appena” poche decine di anni fa possono presentare alcuni di questi pattern e, per studiarli, è necessario prendere le stesse precauzioni riservate a campioni di DNA estratti da fossili antichi.

Questo accade perché, quando un individuo muore e i suoi tessuti iniziano a degradarsi, le molecole di DNA contenute nelle sue cellule vanno incontro ad alterazioni che normalmente non si riscontrano nei tessuti viventi. In particolare, si verificano due eventi:

  • il DNA inizia a rompersi e, con il passare del tempo, i frammenti diventano sempre più corti;
  • i nucleotidi che formano la sequenza di DNA subiscono modifiche chimiche, che convertono una base azotata in un’altra e cambiano la sequenza di quella porzione di DNA; l’evento più comune è la trasformazione di una citosina in uracile, che in casi estremi può raggiungere una frequenza del 40%.

La degradazione e la trasformazione della citosina in uracile rendono più complesso lo studio dei campioni ma, allo stesso tempo, sono un elemento distintivo che permette di autenticare il DNA antico: questo aspetto è fondamentale, perché un altro grosso problema di chi lavora con DNA antico è la frequente contaminazione dei campioni con DNA moderno.

Come si ottengono i campioni di DNA per gli studi di paleo- e archeo-genomica?
Tra tutti i reperti che possono essere rinvenuti negli scavi archeologici e nelle sepolture antiche, quelli che permettono di dare il via a uno studio sul DNA antico sono generalmente i frammenti ossei. Meglio ancora se si tratta di denti o di un particolare osso del cranio (rocca petrosa), che sono le ossa in cui, in genere, il DNA antico si preserva meglio. Bastano pochi milligrammi di ossa polverizzate per estrarre il DNA antico e procedere poi al suo sequenziamento.
Rispetto agli studi sul DNA moderno, le analisi genomiche su DNA antico sono più difficoltose, anche a causa della sua estrema frammentazione. Negli anni sono stati sviluppati diversi metodi per analizzare campioni così delicati: uno di questi è la cosiddetta «cattura mediante sonde», che permette - grazie all’uso di sonde che riconoscono diverse porzioni di DNA - di individuare specifiche sequenze all’interno del genoma. Questo stesso metodo può essere usato per ricercare nei campioni antichi anche sequenze relative ai genomi di batteri o virus: in questo modo si può capire con quali patogeni antichi hanno convissuto i nostri antenati oppure, come nello studio del cimitero kirghiso, si può ricostruire l’albero filogenetico di Y. pestis dal Trecento fino ad oggi.

Quali applicazioni ha lo studio del DNA antico?

Gli studi di Svante Pääbo ci hanno dimostrato che l’analisi del DNA antico può funzionare come una macchina del tempo e metterci tra le mani i dati con cui possiamo ricostruire l’evoluzione di Homo sapiens e di altre specie di ominini oggi estinti. Questi studi macroevolutivi di paleogenetica hanno messo in luce, per esempio, le relazioni di H. sapiens con i Neanderthal e hanno portato alla scoperta dei Denisova, una specie di ominini di cui, prima delle analisi con DNA antico, non si sospettava nemmeno l’esistenza.

Il DNA antico è anche un ottimo strumento di indagine anche per studi microevolutivi, come quelli che mirano a chiarire come le popolazioni umane del passato abbiano risposto, dal punto di vista genetico, a specifiche pressioni ambientali, come un cambio di dieta o la convivenza con patogeni endemici.

A partire da queste due grandi aree di ricerca, ci sono anche altri campi di indagine che si concentrano su specifiche popolazioni: per esempio, gli studi di archeogenetica, mirano a ricostruire la storia delle popolazioni umane non solo dal punto di vista evolutivo ma anche culturale. I risultati degli studi sul DNA antico vengono infatti analizzati insieme ai dati archeologici, antropologici e storici, e in questo modo si può ricostruire la rotta delle migrazioni del passato oppure capire se due popolazioni si sono mescolate tra di loro solo a livello culturale o anche genetico.

Si tratta delle domande a cui la genetica di popolazioni da sempre cerca di dare una risposta; ma oggi sappiamo che, basandoci solo sulle popolazioni attuali, quello che possiamo dedurre sul nostro passato è in realtà molto limitato. Serve qualcosa che apra una finestra sul passato delle popolazioni umane, e questa finestra è lo studio del DNA antico.

In che cosa consiste il progetto HistoGenes?

Tra gli studi di archeogenetica rientra anche HistoGenes, un progetto che riunisce insieme diverse discipline: archeologia, storia, antropologia e genetica. Questo progetto, che è stato finanziato dal Consiglio Europeo per la Ricerca, si propone di ricostruire i cambiamenti demografici e le condizioni di vita delle popolazioni che hanno abitato l’Europa centro-orientale in un periodo cruciale della storia: quello che, in concomitanza con la dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente, ha visto molte popolazioni migrare e mescolarsi tra di loro. Un mescolamento che, oltre a livello culturale e sociale, ha lasciato una traccia anche nell’impronta genetica nei discendenti di quelle popolazioni.

Grazie allo studio del DNA antico, i ricercatori impegnati in HistoGenes - tra cui lo stesso Gnecchi-Ruscone - sperano di delineare un quadro più preciso delle abitudini sociali di queste popolazioni e di entrare finalmente nel cuore di molte domande storiche, archeologiche e antropologiche che, ancora oggi, sono senza risposta: qual era la struttura della loro società? su quali alimenti si basava la loro dieta? qual era il loro stato di salute e quali epidemie o carestie hanno affrontato?

Studiando i reperti di DNA rinvenuti in necropoli e cimiteri antichi, si possono per esempio ricostruire i rapporti di parentela tra gli individui e la struttura sociale di una specifica popolazione. Spiega Gnecchi-Ruscone:

Per esempio, in Europa si è riscontrata un’alta frequenza di popolazioni con una struttura patrilocale, in cui tutti gli individui maschi appaiono imparentati tra di loro per via paterna, mentre le donne (cioè le madri) hanno un profilo genetico che indica chiaramente una provenienza da altre popolazioni.

Scoperte come queste aiutano a confermare quando già ipotizzato da storici o archeologi, ma talvolta aprono un nuovo e inaspettato filone di ricerca. È questo il caso di alcune popolazioni barbariche che la storiografia ha spesso indicato con nomi collettivi, come i Longobardi o i Vichinghi: dal punto di vista genetico queste popolazioni appaiono molto variegate ed è possibile che, dietro il nome tramandato dagli storici, si celino in realtà popolazioni con abitudini culturali, strutture sociali e origini molto diverse. Il DNA antico può fare anche questo: restituire la giusta dignità storica a popolazioni da sempre imprigionate dietro a uno stereotipo.

Grazie al DNA antico, possiamo sbirciare nella struttura sociale non solo dei nostri diretti antenati ma anche in quella di ominini oggi estinti. Di recente, sono stati rinvenuti in Siberia i resti di un piccolo gruppo di Neanderthal: questo ritrovamento sembra confermare che la loro struttura sociale si basava su piccole comunità e, grazie all’analisi del DNA, possiamo ipotizzare che le femmine lasciavano le famiglie di origine per unirsi ad altri gruppi.

Che cosa ci può dire il DNA antico sulle epidemie del passato e sulla capacità della specie umana di adattarsi all’ambiente?

Gli studi di paleo- e archeo-genetica aprono un varco sia verso il nostro passato evolutivo come specie sia verso il passato storico di popolazioni che, in tempi più recenti, si sono diversificate dal punto di vista sociale, culturale e genetico. Questi stessi studi forniscono anche gli indizi per capire come certi stimoli ambientali (epidemie, carestie, dieta ecc.) possono aver modellato il genoma dei nostri antenati e come questo può influenzare ancora oggi la nostra salute.

Ritorniamo per un attimo al cimitero in Kirghizistan da cui siamo partiti: lo studio dimostra che il DNA antico ci può fornire informazioni sulle epidemie del passato e, grazie agli studi di filogenetica, sull’evoluzione nel tempo di Y. pestis. Guardare al passato può quindi aiutarci a capire - e, forse, prevedere - come evolvono i patogeni già endemici oppure quali stimoli ambientali possono favorire la diffusione di patogeni emergenti.

Lo studio del DNA antico è importante anche da un altro punto di vista: non solo quello dei patogeni, ma anche quello degli ospiti, cioè noi esseri umani. La paleo- e l’archeo-genetica forniscono infatti gli strumenti per capire se le popolazioni umane hanno risposto a epidemie particolarmente devastanti con specifici adattamenti genetici. Per esempio, un recente studio pubblicato su Nature suggerisce che l’epidemia di peste del Trecento, decimando la popolazione europea, abbia costituito una pressione ambientale così potente da guidare un vero e proprio processo di selezione che, in definitiva, ha cambiato la composizione genetica di alcune popolazioni. Questa informazione ha importanti ricadute anche sulla nostra salute: è stato ipotizzato che ciò che ha permesso ad alcune persone di sopravvivere alla peste del Trecento potrebbe anche aver predisposto i loro discendenti odierni a un maggiore rischio di sviluppare malattie autoimmuni.

Oltre ai patogeni, anche la dieta può aver indotto adattamenti genetici nei nostri antenati. Ne è un esempio la persistenza nell’adulto della lattasi, l’enzima che permette di digerire il lattosio anche dopo lo svezzamento. Dallo studio delle popolazioni umane moderne, già da tempo si sa che questo allele non è distribuito in modo uniforme ma si concentra in specifiche zone, soprattutto in Nord Europa. Ancora Gnecchi-Ruscone:

Per molto tempo si è pensato che il profilo di distribuzione di questo allele dipendesse dalle migrazioni e dai cambiamenti culturali che si sono instaurati durante il Neolitico: cambiamenti che, insieme alla diffusione dell’allevamento, avrebbero portato a una dieta più ricca di prodotti a base di latticini. Eppure, lo studio del DNA antico ci dice che non è così: i popoli neolitici non digerivano il lattosio.

Tra le nuove ipotesi, c’è quella secondo cui l’espressione della lattasi potrebbe invece essere aumentata come risposta a epidemie o carestie devastanti.

Finché i popoli neolitici avevano a disposizione diverse fonti di cibo, per esempio dall’agricoltura, è probabile che potessero vivere anche senza digerire i latticini. Ma, nel caso di epidemie o carestie, la rapida diminuzione delle risorse alimentari potrebbe aver spinto intere popolazioni a migrare: una ipotesi, ancora tutta da dimostrare, è che, in queste condizioni, chi poteva sopravvivere semplicemente bevendo il latte del bestiame fosse avvantaggiato rispetto agli altri. 

Il viaggio alla scoperta del nostro passato genetico è appena iniziato, ma molti gruppi di ricerca sono già allo studio per cercare di “strappare” al DNA antico informazioni anche su altre caratteristiche genetiche che influenzano la nostra salute, prime fra tutte le patologie croniche metaboliche, immuni e cardiovascolari.

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Guido-Alberto Gnecchi-Ruscone (Dip. di Archeogenetica del Max Planck Institute per l’Antropologia Evolutiva di Lipsias) studia, grazie al DNA antico, la storia e l’adattamento genetico all’ambiente delle popolazioni umane passate.
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La reazione di deamminazione converte la citosina in uracile. Quando un campione di DNA con questa modifica viene sequenziato, il sequenziatore legge l’uracile come se fosse una timina: per questo, queste modifiche sono chiamate in gergo modifiche «C to T» (da C a T). (Credits: Yikrazuul - Own work, Public Domain, Wikimedia Commons)
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Ricostruizione dell’aspetto di Homo neanderthalensis al Museo di Storia Naturale di Vienna. (Credits: Wikimedia Commons)
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Gli studi sul DNA antico hanno permesso di ricostruire le rotte migratorie degli Avari e di risolvere un piccolo mistero storico: da dove provenivano le elite avare che hanno occupato il bacino dei Carpazi nel VI secolo D.C.? (Credits: Gnecchi-Ruscone GA et al. Cell 2022 DOI:https://doi.org/10.1016/j.cell.2022.03.007)
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Da dove ha avuto inizio l’epidemia di peste? Lo studio del DNA antico può aiutarci a tracciare a ritroso il percorso dell’epidemia: oggi sappiamo che, nel 1338, era già presente in un villaggio dell’odierno Kirghizistan. (Credits: Wikimedia Commons)