Il 90 per cento del commercio globale avviene via mare, secondo l’International Maritime Organization. Ogni anno quasi 900 chili di merci per ogni singolo essere umano del pianeta viaggiano sugli oceani, in tutto 11 miliardi di tonnellate, trasportate da 50 mila navi cargo. Da questo movimento di merci passa molto di quello che consumiamo e usiamo: elettronica, cibo, vestiti, automobili. È un traffico che ha effetti sui cambiamenti climatici: le navi bruciano carburante, emettono CO2, il 3 per cento del totale. Ma è anche un traffico condizionato dai cambiamenti climatici, che cambiano le rotte, ne mettono in difficoltà alcune, ne aprono di nuove.
Lo stretto di Bab al-Mandeb
Il traffico marittimo delle merci non si svolge solo in mare aperto, ma passa attraverso alcune strozzature, che sono dei punti critici, sia per motivi ambientali che politici. Per passare da un continente all’altro le navi cargo devono attraversare stretti e canali spesso molto angusti: chi li controlla, controlla l’economia del mondo. È per questo motivo che quello che sta accadendo nel mar Rosso è così grave e importante: un gruppo relativamente piccolo di ribelli dello Yemen, gli Houthi, sta attaccando le navi che passano dallo stretto di Bab al-Mandeb, tra Gibuti (Africa) e lo Yemen. In questo modo, hanno fatto crollare il passaggio delle navi, e scatenato un intervento militare degli Stati Uniti e alcuni alleati a difesa del commercio mondiale. Se non possono passare dal Mar Rosso, dove oggi transita il 12 per cento del commercio mondiale, le navi devono aggirare tutta l’Africa, aggiungendo costi esorbitanti e settimane di viaggio. Il caos in Mar Rosso è un esempio di come le dinamiche geopolitiche e le guerre possono condizionare queste strozzature dell’economia mondiale.
Il canale di Panama
C’è anche un’altra dinamica in grado di condizionare le rotte del commercio ed è il riscaldamento globale: è quello che viene sperimentato nel canale di Panama, una via acquatica artificiale costruita nel 1914 in Centro America per permettere alle navi provenienti dall’Asia di tagliare il viaggio e non dover circumnavigare tutto il Sudamerica fino alla punta di Cile e Argentina per passare dall’Oceano Pacifico all’Atlantico.
Il canale di Panama è un capolavoro di ingegneria novecentesca, però non era stato progettato per affrontare i cambiamenti climatici. A differenza delle altre rotte marittime, il canale di Panama è fatto di acqua dolce, quindi risente delle precipitazioni e può essere messo in crisi da una grave siccità. È quello che è successo a Panama tra la fine del 2023 e il 2024, quando una delle siccità più lunghe e gravi nella storia del paese ha fatto tagliare considerevolmente il livello dell’acqua, costringendo a ridurre il numero di navi che possono usarlo. Per i cargo oggi l’alternativa è tra mettersi in fila per settimane, e aspettare il proprio turno, o pagare milioni di dollari per saltare la fila, oppure dover aggirare il Sudamerica come si faceva un secolo fa.
La siccità ha fatto abbassare il livello del lago Gatún, il principale bacino di acqua dolce che nutre il canale di Panama, di quasi due metri in un anno. In un giorno normale, dal canale passano 36 navi al giorno, il numero è crollato fino quasi alla metà. Da qui passa il 5 per cento delle merci del mondo e quasi la metà di quelle dirette dall’Asia alla costa orientale degli Stati Uniti. Un danno enorme anche per Panama, che si è trovato a dover scegliere tra l’acqua per la sua agricoltura e quella per il canale, che è la sua principale risorsa economica. Le alternative per il futuro sono costruire una nuova gigantesca diga sul fiume Indio, per convogliare più acqua, oppure usare le nuove tecnologie di cloud seeding, inseminazione artificiale delle nuvole per stimolare la pioggia, una tecnica rischiosa perché mai usata su vasta scala in un paese tropicale.
Alle difficoltà geografiche e geopolitiche di queste vie marittime dobbiamo aggiungerne una che è cruciale, oggi è più tranquilla delle altre, ma potrebbe non esserlo a lungo: lo stretto di Malacca, tra l’Indonesia e la Malesia, la principale via che collega la Cina meridionale all’India e all’Europa, dove passa il 40 per cento di tutto il commercio mondiale.
L’importanza strategica dell’Artico
In questo contesto il riscaldamento globale sta offrendo a questi dilemmi una paradossale soluzione, aprendo una nuova rotta marittima grazie alla fusione dei ghiacci causata dalle temperature elevate. Sta succedendo in Artico, nello spazio di mare che c'è tra il porto di Murmansk, in Russia al confine con la Norvegia, e lo stretto di Bering, che separa la Russia dal Nord America.
L’Artico è uno dei posti più freddi della Terra, ma è anche uno di quelli che si riscaldano più velocemente, al triplo della velocità del resto del pianeta. La causa è il cosiddetto meccanismo di «amplificazione artica». Il calore fa fondere il ghiaccio, il mare senza copertura di ghiaccio si riscalda più velocemente, perché respinge meno la radiazione solare. E quindi si fonde più ghiaccio, in un circolo vizioso che si autoalimenta. A causa di questa amplificazione, in Artico si perde l’1,6 per cento di ghiaccio ogni anno, e questo sta spalancando una rotta che prima non era navigabile.
La stagione senza ghiaccio oggi arriva a quasi tre mesi, potrebbe raggiungere i sei mesi nei prossimi decenni. Alcuni modelli prevedono un Artico senza ghiaccio per tutta l’estate già a metà secolo. Quello che è un disastro climatico, si sta trasformando anche in una nuova opportunità commerciale. La via artica, infatti, è molto più breve di qualsiasi altra rotta di commercio marittimo. La via che passa da Sud, dal Mar Rosso, è lunga circa 20 mila chilometri, quella che passa a nord 13 mila chilometri. Una nave cargo dalla Cina all’Europa settentrionale ci mette 48 giorni passando dal canale di Suez e solo 33 passando dall’Artico. Un risparmio di tempo e carburante. E infatti la rotta artica si sta animando di commercio: il traffico nel 2013 era di 2,8 milioni di tonnellate all'anno. Nel 2017 era di 10,7 milioni. Nel 2023 è stato di 36,2 milioni. L’obiettivo è arrivare a 200 milioni di tonnellate per il 2030.
Per passare in Artico servono navi rompighiaccio che facciano da scorta ai cargo. La Russia nel 2022 ha messo in cantiere un piano di sviluppo decennale da 29 miliardi di dollari, che prevede anche la costruzione di nuovi rompighiaccio a propulsione nucleare. Quest’anno entra in servizio la nave Yakutia, 173 metri, in grado di spaccare ghiaccio spesso fino a tre metri. La prossima della serie, la Chukotka, inizia a navigare nel 2026, poi sarà il turno della Rossiya, lunga 209 metri.
Questa prospettiva non è esente da rischi ecologici: l’Artico è un ambiente molto delicato, un incidente avrebbe conseguenze irreparabili, soprattutto perché molto di questo traffico in Artico è composto di navi che trasportano petrolio e gas. È già successo in passato: nel 1989 in Alaska affondò la petroliera Exxon Valdez, riversando in mare 37 mila tonnellate di greggio. Secondo una ricerca pubblicata quest’anno su Geophysical Research Letters, la fusione dei ghiacci in Artico aumenta la nebbia lungo la rotta artica. Questo non solo aumenta i tempi di percorrenza, ma fa anche crescere il rischio di incidenti e collisioni, e spingerebbe ad avere molta cautela nell'aumentare il passaggio di grandi navi da trasporto in Artico.
La rompighiaccio russa Sankt-Peterburg nel Mare di Kara nel 2015 (immagine: Wikipedia)
La nave cargo ONE CYGNUS nel porto di Rotterdam (immagine: Wikipedia)
Le chiuse di Miraflores nel Canale di Panama (immagine: Wikipedia)