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Perché i dibattiti sulle ciclabili sono sempre così accesi?

I discorsi pubblici sulla mobilità urbana non riguardano solo le infrastrutture. Toccano infatti questioni identitarie, sociali e linguistiche

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Le piste ciclabili, più comunemente chiamate ciclabili, rappresentano uno degli argomenti più polarizzanti nei dibattiti pubblici attuali. Sotto la superficie di una discussione apparentemente tecnica si nascondono temi che toccano corde profonde della società, dalla questione dell’identità sociale fino alle preoccupazioni per la crisi climatica. Questo conflitto verbale, spesso caricato di toni accesi, nasconde un fenomeno ben più ampio: la resistenza culturale al cambiamento.

Secondo Maria Cristina Caimotto, linguista dell’Università di Torino, le ciclabili non sono solo una questione di infrastruttura urbana, ma di identità e posizione sociale.

Le discussioni attorno alle ciclabili toccano temi profondi: la propria identità, il ruolo che si assume nella società e i danni all'ecosistema. Ogni giorno ci viene ricordato quanto sia urgente ridurre le emissioni di gas serra, e usare meno l’automobile è tra le soluzioni più immediate per contribuire individualmente. Ma le pubblicità dell’industria automobilistica ci inducono con tutte le loro forze a comprare auto, usare auto, ostentare auto. E non lo fanno parlando del prodotto che vendono, quanto piuttosto dell’identità cui ci illudiamo di somigliare comprando quel modello.

La bicicletta, pur essendo considerata un’alternativa ecologica e salutare, diventa un simbolo divisivo quando entra in contrasto con abitudini radicate come l’uso quotidiano dell’auto.

La resistenza al cambiamento

Uno dei motivi che alimentano questa polarizzazione, sottolinea Caimotto, è la naturale resistenza umana al cambiamento.

Tendiamo a opporre resistenza a cambiamenti drastici, anche quando capiamo razionalmente che sono necessari. La crisi climatica fa paura e una delle reazioni irrazionali, ma naturali, di fronte a ogni paura è negarla o minimizzarla.

Questa resistenza si manifesta spesso in discussioni accese, dove ciclisti e automobilisti sono posti su piani di conflitto, fomentando quella che Caimotto definisce una “lotta tra poveri” nella quale l’attenzione viene distolta dalle vere questioni sistemiche. Le ciclabili, infatti, non rappresentano una soluzione definitiva, ma una parte di un piano più ampio per ripensare le città e migliorare la qualità della vita.

L’influenza del linguaggio sulla percezione della realtà

Un elemento fondamentale di questo dibattito è il linguaggio adottato, poiché esso influenza direttamente la percezione della realtà. Caimotto, che ha condotto un’approfondita analisi linguistica sul tema, spiega come il linguaggio dei media e delle istituzioni possa contribuire a formare un’opinione pubblica ostile verso la mobilità ciclistica.

Esiste un linguaggio, usato inconsapevolmente o volutamente, che deresponsabilizza l’automobilista e colpevolizza chi utilizza la bicicletta, contribuendo a frenare la diffusione della mobilità attiva.

Un esempio di questo atteggiamento è l’uso di frasi come “auto investe ciclista”, che rimuove l’elemento umano alla guida del veicolo, trattando l’auto come un’entità autonoma, mentre la responsabilità di ciò che fa l’auto è chiaramente del conducente.

Questo uso del linguaggio può avere conseguenze reali. A Milano, per esempio, tra il 2018 e il 2021, gli incidenti che hanno coinvolto ciclisti sono aumentati del 25%, con una media di oltre due ciclisti investiti ogni giorno. Nonostante questi dati allarmanti, la narrazione mediatica tende spesso a minimizzare la responsabilità dell’automobilista e a colpevolizzare la vittima, per esempioo evidenziando se il ciclista non indossava il casco, anche se non è obbligatorio per legge, o se stava attraversando sulle strisce pedonali in sella alla bici, anche se si tratta di un comportamento lecito.

La dipendenza dall’auto

L’industria automobilistica ha svolto un ruolo fondamentale nel creare la narrativa attuale attorno alla mobilità su strada. Negli anni ‘20 del secolo scorso, negli Stati Uniti, venne introdotto il termine jaywalking, usato per descrivere una persona ingenua che attraversa imprudentemente la strada, spostando così la responsabilità dagli automobilisti ai pedoni. Questo cambio di prospettiva ha attecchito profondamente e continua a influenzare il modo in cui, da allora, percepiamo la strada e i suoi utenti. In Europa, e in particolare in Italia, questa mentalità è ben radicata: la strada è percepita come appannaggio delle automobili, e chi non si muove in auto è visto come un intruso che si espone a rischi evitabili.

Nel frattempo, il numero di automobili è in costante crescita. Alla fine del 2020, circolavano in Europa 250 milioni di veicoli, e in Italia si è raggiunta la quota record di quasi 40 milioni di veicoli. Le conseguenze negative, in termini di inquinamento, traffico e violenza stradale sono evidenti, ma raramente messe in discussione. Secondo gli ultimi dati Istat, gli incidenti stradali in Italia nel 2021 hanno provocato 2.875 morti e oltre 204.000 feriti.

Un nuovo modo di concepire la mobilità

Per cambiare realmente la situazione, non basta aumentare il numero di ciclabili: è necessario ripensare l’intera concezione della mobilità urbana. Questo include l’infrastruttura, ma anche una trasformazione culturale. Spiega Caimotto:

Bisogna smettere di alimentare il conflitto tra categorie inventate come ‘ciclisti’ e ‘automobilisti’. Non esistono ciclisti o automobilisti, ma persone che scelgono un mezzo di trasporto in base alle proprie esigenze e possibilità.

La famosa campagna di BikePGH negli Stati Uniti ha adottato proprio questo approccio, umanizzando le persone che vanno in bicicletta, e normalizzando la bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano, non solo come strumento per il tempo libero.

Anche la Transport Strategy di Londra del 2018 va in questa direzione, eliminando i termini pedoni, ciclisti e automobilisti, a favore di “persone che camminano”, “persone che usano la bicicletta”, “persone che usano l’auto”: in questo modo l’attenzione è spostata dalle categorie sociali ai bisogni individuali. Secondo Maria Cistin aCaimotto il messaggio è chiaro:

È dovere delle istituzioni facilitare l’abbandono della dipendenza dall’auto, una dipendenza creata da un sistema che non permette alternative.

La cultura della bici e la cultura dell’auto: un mito da sfatare

Infine, Caimotto smonta il mito secondo cui esisterebbe una “cultura della bici” in alcuni paesi, come l’Olanda, e una “cultura dell’auto” in paesi come l’Italia, che impedirebbe la promozione della mobilità sostenibile.

La cultura non è statica, cambia nel tempo e nelle comunità. Dire che un Paese abbia una cultura dell’auto significa chiudere ogni possibilità di evoluzione. Non esiste nulla che ci leghi per sempre a un determinato comportamento, tantomeno alla dipendenza dall’auto.

Lo dimostrano le foto di Amsterdam negli anni ’70: una città molto trafficata in cui la proposta di svuotare i canali per farne parcheggi non è passata per un pugno di voti.

Il dibattito sulle ciclabili è dunque solo la punta dell’iceberg di un cambiamento più ampio che deve coinvolgere la cultura, la società e le istituzioni. La mobilità sostenibile richiede non solo infrastrutture adeguate, ma anche un cambiamento di mentalità e di linguaggio, che metta al centro le persone, le nostre scelte quotidiane e la nostra visione del mondo.

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Pista ciclabile ad Amsterdam (immagine: Wikipedia)

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Cartello stradale che in Italia indica una pista ciclabile (immagine: Wikipedia)

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Con oltre 370 km di piste ciclabili, la città di Parigi è una delle capitali europee più attrezzate per la mobilità sostenibile. A partire dal 2015, molte strade urbane sono state limitate al traffico delle automobili e molti parcheggi hanno lasciato spazio a piste protette e separate dal traffico veloce (immagine: Patryk Kosmider/Shutterstock). 

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