Uno degli stereotipi più diffusi che riguardano la presenza delle donne nelle STEM è la presunta minor predisposizione alle materie scientifiche. Si tratta di un’idea che discende in parte dal mito della differenza tra il cervello maschile e quello femminile, che però non è sostenuta da evidenze scientifiche. Un’altra diffusa argomentazione è che se non ci fosse differenza tra le capacità di uomini e donne, queste ultime avrebbero raggiunto risultati paragonabili a quelli dei loro colleghi. Lo sostengono anche molti scienziati contemporanei che, come fece nel 2015 Piergiorgio Odifreddi su Repubblica, propongono il limitato elenco di donne vincitrici di premi Nobel nella scienza a dimostrazione di “come l’attitudine femminile sia direttamente proporzionale alla concretezza e indirettamente proporzionale all’astrazione”. Va detto che Odifreddi nel corso del tempo ha cambiato posizione, arrivando nel 2019 anche a pubblicare una raccolta di storie di scienziate che sembra quasi un tentativo di redenzione. L’idea che le donne siano meno portate per le materie scientifiche però rimane uno degli stereotipi più diffusi, ma che oggi può essere scardinato con alcuni fatti.
L’effetto Matilda e la visibilità delle donne nella scienza
In alcuni casi molto eclatanti, oggi chi studia la storia della scienza ha ricostruito alcune vicende scientifiche che hanno colpevolmente messo in un angolo alcune protagoniste. È il caso di Rosalind Franklin, che ha fornito la prova decisiva della struttura a doppia elica del DNA ma che James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins (vincitori del Nobel) hanno deliberatamente ignorato. Oppure di Lise Meitner, la scienziata che ha contribuito in maniera decisiva alla scoperta della fissione nucleare ma che lavorava come «ospite non pagata» e non ha condiviso il Nobel con Otto Hahn. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Quelli di Franklin e Meitner sono due esempi del cosiddetto “effetto Matilda”, il fenomeno per cui i risultati ottenuti da una donna vengono del tutto o in parte attribuiti a un uomo. La prima autrice a descrivere il fenomeno è stata Matilda Joslyn Gage, una femminista americana vissuta nell’Ottocento. Nel 1870 pubblica un saggio intitolato Woman as Inventor in cui denuncia l’atteggiamento degli uomini che discriminano il talento delle donne. Il termine “effetto Matilda” viene invece coniato solamente nel 1993 proprio in omaggio alla pensatrice americana in un articolo della storica della scienza Margaret Rossiter.
Un’analisi di oltre mille articoli scientifici pubblicati tra il 1991 e il 2005 in alcune riviste scientifiche ha dimostrato che gli articoli firmati da donne hanno ricevuto meno citazioni di analoghi lavori firmati da uomini. Secondo le autrici Silvia Knobloch-Westerwick e Carroll J. Glynn si tratta delle conseguenze dell’effetto Matilda in cui il pregiudizio nei confronti delle capacità delle donne influenza il giudizio che viene dato ai loro risultati scientifici. Un fenomeno, quello dei pregiudizi, ben noto nella comunità scientifica. Già nel 1968 il sociologo della scienza Robert K. Merton aveva coniato il termine “effetto San Matteo” per indicare il maggior successo che ottengono gli articoli pubblicati da scienziati che hanno già una solida reputazione rispetto a quelli pubblicati da giovani o scienziati meno noti. Il riferimento è al versetto del vangelo di Matteo: «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».
Controprova: la storia di Ben Barres
I sostenitori dello stereotipo sulle donne meno portate alle STEM non sono facilmente convinti dalle analisi come quella firmata da Knobloch-Westerwick e Glynn, e talvolta si rifugiano nell’argomentazione che manchino le controprove sull’influenza dell’essere uomo o donna nel successo scientifico. In realtà oggi le controprove, seppur non numerosissime, esistono. Una di queste è la storia di Ben Barres, neurobiologo transgender scomparso nel 2017.
Barres nasce donna e come neurobiologa ha una carriera di tutto rispetto: già nel 1991 firma articoli su Nature e i suoi contributi principali degli anni Novanta riguardano le cellule gliali e le loro abilità di generare nuovi neuroni. Tutte queste ricerche avvengono mentre la sua carriera avanza in una delle università più prestigiose del mondo, la Stanford University. Da donna racconta di aver subito atti di sessismo fin da piccola, quando voleva studiare matematica e scienze, ma veniva invece indirizzata verso materie più adatte a una bambina. Come molte altre giovani donne che vogliono intraprendere una carriera nell’ambito scientifico, ha quindi dovuto lottare contro il pregiudizio per fare ciò che desiderava.
La discriminazione gli è risultata ancora più chiara dopo il 1997, quando all’età di quarantadue anni Barres ha compiuto la transizione diventando uomo. Fin da subito, come ha raccontato nella sua autobiografia intitolata The Autobiography of a Transgender Scientist, nota che viene preso molto più seriamente dai colleghi scienziati. Un episodio è eclatante. In seguito al suo primo seminario tenuto dopo la transizione, uno dei presenti ha dichiarato: «Ben Barres ha tenuto un grande seminario oggi, ma il suo lavoro è molto migliore di quello di sua sorella [Barbara]». Ovviamente Barbara non era altro che il deadname di Barres prima di transitare.
Altra controprova: la storia di Autumn Kent
La storia di Ben Barres mostra l’effetto che l’acquisizione del privilegio di essere uomo può portare. Al contrario, la storia di Autumn Kent mostra che cosa significhi perderlo. Matematica americana che si occupa soprattutto di topologia, Kent ha pubblicato una lunga serie di articoli prima di fare il proprio coming out come donna transgender. In un volume di storie raccolte dall’American Mathematical Society, Kent scrive:
Ho avuto esperienza in prima persona di come si comportano gli uomini quando le donne non ci sono e come cambia il loro comportamento quando arriva una donna. Mi sono state raccontate barzellette sessiste, omofobiche e transfobiche e sono profondamente consapevole che queste battute mi sono (per lo più) nascoste ora che sono fuori. Sono passato dal sentire parlare di molestie sessuali a esserne l’oggetto”.
La discriminazione sperimentata in prima persona da Kent e la preoccupazione per la sua carriera, raccontata in un’intervista a Scientific American, sono solo una parte delle discriminazioni che le minoranze vivono all’interno della comunità scientifica. Ma mostra in maniera speculare il ruolo che i pregiudizi legati all’essere uomo o donna possono giocare nella carriera in ambito scientifico e fungono da prova fattuale dell’esistenza dell’effetto Matilda.
Nell’immagine di apertura Matilda Joslyn Gage (fonte: Wikipedia)
Ben Barres a Stanford (Immagine: Wikipedia)
Autumn Kent (immagine: University of Madison – Wisconsin)