Basterebbe produrre di più? Nell’Africa subsahariana una persona su quattro è sottonutrita. Ma il continente che ha il più alto numero di affamati, ancora oggi, è l’Asia: nella regione sud ci sono 276 milioni di persone che non mangiano in modo sufficiente. Con le previsioni di sviluppo demografico e con l’urbanizzazione molto spinta avviata negli ultimi decenni il quadro si complica enormemente. Basta pensare che il 60% della popolazione mondiale sarà urbanizzata entro il 2030, aumentando quindi la necessità di rendere più sostenibile ed efficiente il percorso del cibo dal campo alla tavola. Tutte le organizzazioni internazionali concordano nel riconoscere che il problema non è solo produttivo. La capacità di produzione di cibo dovrà senz’altro aumentare, con l’aumento della popolazione. E dovrà farlo cercando di non usare altra terra, dato che abbiamo già consumato gran parte della terra coltivabile disponibile e aumentare le coltivazioni porterebbe, necessariamente, a un aumento dei disboscamenti o a intaccare altri ambienti già molto affaticati. Ma quello che deve nettamente migliorare è la distribuzione, l’accesso al cibo, la riduzione degli sprechi. Sostanzialmente, il problema della fame e della malnutrizione, così come quello dell’obesità, richiedono politiche molto coraggiose e una riorganizzazione dei sistemi socio-economici e dei meccanismi di distribuzione delle risorse alimentari.
Expo Milano 2015: Nutrire il Pianeta, Energia per la vita
Alimentazione, sostenibilità, innovazione, salute, società. Sono questi i temi sul "piatto" dell'Esposizione Universale 2015. Facciamo un viaggio nelle sue pieghe, per provare a capire quali sono le sfide che dovremo affrontare nei prossimi anni per «nutrire» il pianeta
Questa infografica della FAO illustra le fonti di cibo dalle quali gli abitanti di Asia e Africa traggono le calorie per il proprio fabbisogno energetico quotidiano (fai clic per ingrandire).
La soluzione sta in una nuova Rivoluzione Verde?
La Rivoluzione verde era figlia del suo tempo. L’impostazione industriale e l’uso di varietà altamente produttive ma solo se adeguatamente assistite sotto il profilo chimico-tecnologico hanno avuto alcune conseguenze cui oggi, con le conoscenze attuali, è bene guardare con occhio critico: c’è stata una forte standardizzazione delle produzioni agricole, con una enorme riduzione della biodiversità in campo agroalimentare necessaria per dare spazio alle poche varietà super produttive; l’uso intensivo di fertilizzanti e pesticidi chimici e di acqua per l’irrigazione ha portato a un elevato grado di inquinamento dei terreni agricoli e a un consumo di enormi quantità di acqua dolce. Oggi possiamo guardare a quell’approccio capendone anche tutti i limiti. L’agricoltura è, tra le attività umane, una di quelle a più alto impatto ambientale. La necessità di trovare soluzioni diversificate e soprattutto di produrre in un’ottica di maggiore sostenibilità ambientale è ormai largamente condivisa da buona parte delle istituzioni internazionali e dalla stessa comunità scientifica. Non esiste una unica soluzione al problema della fame. E la soluzione non può essere solo di natura tecnologica.
Allora, concretamente, cosa dovremmo fare?
Nel corso del 2014, l’Anno internazionale del Family Farming, la FAO ha messo l’accento su un fatto incontrovertibile: l’80% del cibo prodotto al mondo, oggi, viene da piccole aziende familiari. Il 90% dei contadini, nel mondo, sono piccoli agricoltori. La realtà delle grandi aziende di stampo industriale, dunque, è una realtà di nicchia, anche se domina il mercato. E quindi la soluzione al problema alimentare non può essere a senso unico: richiederà sicuramente un miglioramento tecnologico, e quindi molta ricerca, ma anche una migliorata capacità di adattare l’innovazione alle diverse culture, ambienti, richieste che vengono dalle migliaia di comunità rurali sparse per il momento. La sostenibilità non è un lusso, è una necessità e sarà quindi necessario coinvolgere, educare, valorizzare i piccoli agricoltori scegliendo forme di innovazione che siano accettate, condivise, adottate di volta in volta nelle diverse realtà.
Nello speciale «Feeding 9 billion», dedicato al problema della fame, la rivista National Geographic ospita un articolo di Jonathan Foley, attualmente Executive Director della California Academy of Sciences. Foley propone cinque passi apparentemente semplici per lavorare nella direzione di ridurre la fame, produrre di più e preservare l’ambiente: congelare l’impronta ecologica dell’agricoltura; migliorare la produttività delle aziende a bassissima produttività delle regioni povere del mondo invece di concentrarsi solo sull’incremento delle aziende già ricche e altamente produttive; migliorare l’uso delle risorse locali, scegliendo varietà meno esigenti sotto il profilo idrico o nutrizionale, e utilizzando tecniche più adatte a seconda dell’ambiente; ridurre la terra destinata alla produzione animale, cambiando la dieta, mangiando meno carne e preferendo animali il cui allevamento è meno dispendioso per l’ambiente, come il pollame rispetto ai bovini; ridurre lo spreco di risorse e di cibo, che ha raggiunto ormai dimensioni davvero drammatiche.
Le proposte di Foley sono in sintonia con le raccomandazioni contenuti negli ultimi rapporti della FAO e di molti gruppi di ricerca a livello internazionale. In gran parte, tecnici e ricercatori così come le migliaia di associazioni operative in ambito rurale concordano che la soluzione sta in una innovazione non standardizzata ma capace di rispondere a esigenze anche molto diverse a seconda degli ambienti e capace di valorizzare la biodiversità alimentare e delle culture contadine.
Per leggere l'articolo di Jonathan Foley pubblicato su National Geographic, fai clic nell'immagine seguente:
Che cosa si intende per sicurezza alimentare?
Il termine sicurezza alimentare ha, perlomeno in italiano, una doppia accezione. Significa sicurezza dell’accesso al cibo, e quindi garanzia non solo che ci sia abbastanza cibo per tutte le persone ma anche che questo cibo arrivi a tutti. Al tempo stesso, però, per sicurezza alimentare si intende anche sicurezza dei cibi, dal punto di vista microbiologico e nutrizionale. I due significati non sono del tutto slegati, naturalmente, perché è al tempo stesso importante che il cibo prodotto sia sufficiente ma che abbia anche un adeguato valore nutritivo e non sia fonte di malattie.
Le tossinfezioni alimentari, così come le infezioni derivanti dal consumo di acqua o cibi contaminati per ragioni ambientali, rimangono uno dei principali problemi di sanità pubblica sia nei paesi poveri che in quelli ricchi. Se infatti in un ambiente privo di strutture adeguate per la conservazione del cibo i rischi di contaminazione derivata dall’ambiente, dall’acqua con cui si preparano i cibi o dalla scarsa igiene possono rappresentare una delle preoccupazioni principali, nei paesi occidentali sono sempre più diffuse le epidemie associate ad alimenti consumati attraverso la grande distribuzione. I danni derivati dall’arrivo sul mercato di un alimento contaminato o, peggio ancora, contraffatto vengono infatti molto amplificati dal sistema di grande distribuzione e, soprattutto, della ristorazione collettiva che rende molto complessa tutta la catena di controllo. Il tema della sicurezza alimentare è talmente importante che l’Unione Europea ha dato vita a un organismo dedicato, la European food safety authority, EFSA, che ha sede a Parma. Esistono poi altri tipi di contaminazione, come quella di origine chimica, da residui di pesticidi, da metalli pesanti, da veri e propri inquinamenti e rilasci di materiale tossico in ambiente. La sicurezza del cibo prodotto e distribuito rimane dunque una delle preoccupazioni principali per le istituzioni europee.
Per capire l’impatto dei problemi di salute che possono derivare dalla circolazione di alimenti contaminati basta guardare l'infografica prodotta da EFSA che riassume i dati relativi alle epidemie associate ad alimenti contaminati da virus e batteri di origine animale nel solo 2013 (fai clic sull'immagine per visualizzare l'infografica).
Cos’è EXPO, quando nasce e in cosa consiste esattamente?
L’esposizione universale nasce a metà ‘800 come evento globale che ha lo scopo di mettere in mostra e poi lasciare in eredità una esperienza culturale, tecnologica, di innovazione e sociale. Questo spirito di fiducia nel progresso è incarnato fin dal principio, con la prima esposizione organizzata nel 1851 a Londra. L’Inghilterra di quegli anni era una delle nazioni che stava dando grande impulso alla rivoluzione industriale e l’esposizione internazionale dunque era pensata proprio come momento di condivisione del clima di innovazione, di impulso allo sviluppo tecnologico e alla modernizzazione ctipici di quell’epoca. Le esposizioni si moltiplicavano di paese in paese. Soprattutto nei primi decenni ci fu un vero e proprio fiorire di fiere ed esposizioni internazionali, come ben racconta questa animazione grafica.
In qualche caso l’EXPO ha prodotto segni così tangibili da cambiare in modo radicale e permanente il volto di una città o la sua vita culturale: è il caso della Tour Eiffel di Parigi, costruita per l’esposizione del 1889, o dell’Exploratorium di San Francisco, costruito per la Panama-Pacific International Exposition del 1915 o l’Atomium di Bruxelles, eredità dell’Expo del 1958. Dal 1931 l’EXPO è regolata e gestita da una organizzazione intergovernativa, il Bureau International des Expositions (BIE) che conta oggi 168 Stati membri e ha sede a Parigi.
La storia del BIE e delle EXPO è rappresentata in questa timeline interattiva (fai clic sull'immagine per visualizzare l'infografica).
Chi sono i protagonisti di EXPO?
EXPO è organizzata dal BIE che oggi riunisce 168 paesi. A Milano però sono presenti tutti i paesi e le organizzazioni internazionali che hanno accettato l’invito del Governo italiano (145 i primi e 3 le seconde). Ci sono poi una serie di partecipanti non ufficiali che sono invitati direttamente dall’Organizzazione dell’esposizione. Vista la rilevanza del tema scelto per l’EXPO milanese, il governo italiano ha anche deciso di invitare ufficialmente tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, molte ONG e aziende private che giocano un ruolo nella produzione e distribuzione del cibo. Dato che per alcuni paesi era difficile organizzare un proprio padiglione, è stato anche deciso di avere dei padiglioni tematici, come quello sul riso o sul caffé, che vedono protagonisti più paesi che possono avere un interesse specifico su quel tema.
Cos’è la Carta di Milano, il documento programmatico promosso da EXPO?
Per cercare di tradurre l’esperienza di questi sei mesi in un punto di partenza per l’elaborazione di piani concreti di sviluppo sostenibile, alcune realtà molto attive nel settore alimentare hanno prodotto nei mesi scorsi la Carta di Milano.
La Carta è un vero e proprio documento programmatico, una proposta, nata in Italia e adottata dal governo italiano, che si propone di guidare il dibattito che si svolgerà nei prossimi mesi sui temi dell’Esposizione Universale. A conclusione di EXPO, la Carta sarà consegnata al Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon come contributo alla discussione sul dibattito che verrà avviato nel corso di quest’anno sull’aggiornamento degli Obiettivi del Millennio (i cosiddetti Millennium Goals) delle Nazioni Unite. Gli obiettivi, concordati nel 2000, stabilivano, tra le altre cose la volontà di dimezzare il numero degli affamati nel mondo entro il 2015. Proprio nel corso di quest’anno verrà dunque avviata la discussione sull’agenda dello sviluppo post-2015.
La Carta di Milano è stata firmata durante la cerimonia di apertura di EXPO dal premier italiano Matteo Renzi e sarà ora sottoposta a tutti i visitatori dell’Esposizione che possono firmarla all’interno del Padiglione Italia oppure online sul sito.