Conosciamo l’alfabeto della vita, ma la sintassi?
Nei nostri ardui tentativi di spiegare l’inafferrabile complessità del mondo che ci circonda, siamo spesso tentati dalle interpretazioni più facili e a buon mercato. È quasi commovente vedere con quanto entusiasmo siamo pronti a esaltare una nuova scoperta, perdendo di vista il contesto. Dimentichiamo in un attimo l’enorme lavoro di squadra per arrivarci, gli innumerevoli tentativi ed errori, ma soprattutto i tanti misteri rimasti irrisolti e i nuovi dubbi che puntualmente la accompagnano. Nel caso del DNA, i picchi di euforia scientifica riguardarono prima la scoperta della sua struttura (Watson e Crick, 1953), poi quella del codice genetico (Nirenberg e Matthaei, 1961), infine il sequenziamento del nostro genoma (Collins e Venter, 2000), che ha rivelato un modesto corredo di 20-22 mila geni. Traguardi epocali, senza dubbio; ma oggi che cosa sappiamo esattamente? Conosciamo il monotono alfabeto genetico (fatto di appena quattro lettere, le basi azotate A, C, G, T) e la grammatica, cioè il modo in cui da una parola-gene si ottiene una proteina. Possiamo perfino riscrivere parti del testo, copiando, tagliando e incollando parole in un editing ricombinante. Ma ignoriamo ancora quasi del tutto la sintassi, cioè le complesse interazioni del DNA con proteine, zuccheri, grassi, minerali e tutto ciò che compone il variegato e ipercinetico mondo cellulare. In questo momento, siamo come bambini in prima elementare che conoscono appena l'alfabeto e qualche regola grammaticale, e cercano di leggere Dostoevskij. La molecola del DNA, una delle icone della scienza, è muta, sorda, cieca, priva di volontà e, se isolata dal contesto cellulare, sostanzialmente impotente. È una sorta di ricetta, copiata dai macchinari cellulari milioni di milioni di volte, ogni volta che la cellula si divide o deve sintetizzare qualche componente. Ma come scrisse Richard Dawkins nel suo bestseller L’orologiaio cieco, «una ricetta in un libro di cucina non è, in alcun senso, un progetto per la torta che uscirà infine dal forno».
Il 28 febbraio 1953, Francis Crick (sulla destra) entrò nell’Eagle Pub di Cambridge esclamando: «Abbiamo trovato il segreto della vita!». Fu uno dei protagonisti della scoperta della struttura del DNA, di cui si vede il primo storico modello. Gli altri scopritori erano James Watson (a sinistra), Maurice Wilkins (che condivise con loro il Premio Nobel per la medicina nel 1962) e Rosalind Franklin, che morì di cancro a soli 37 anni senza ottenere riconoscimenti. Il DNA era noto dal 1869, ma ci vollero ben 84 anni per comprenderne l'organizzazione. Sono passati altri 64 anni dalla sensazionale scoperta, e abbiamo capito che non basta il DNA per fare un essere vivente. Senza tutti gli altri componenti cellulari, e le loro complesse interazioni, il DNA sarebbe solo una molecola inerte, muta, sorda e cieca.
(immagine: meteoweb.eu)
Che cosa sarebbe il DNA, senza le proteine?
I geni custodiscono i segreti del progetto biologico di ciascun individuo, ma per mettere in pratica tutta questa conoscenza servono le proteine. Nel corpo umano ne esistono almeno 100 mila tipi diversi, ma conosciamo la struttura tridimensionale di appena 6000 di loro, e non tutte sono umane. Fuori dal nucleo, nel citoplasma, c’è una fabbrica specializzata che traduce il linguaggio a 4 lettere del DNA in un linguaggio più complesso di 21 lettere, gli amminoacidi, che sono i costituenti delle proteine. Come in ogni grande fabbrica, la gerarchia, l’ordine e la suddivisione dei compiti sono fondamentali. C’è chi presidia il confine cellulare, controllando il traffico di molecole in entrata e in uscita, chi invia messaggi, chi trasporta merci, chi assembla e smista altre proteine, chi fa manutenzione del DNA, chi lo svolge, lo legge, lo trascrive e lo impacchetta di nuovo. Non esiste processo nelle nostre cellule che non coinvolga le proteine, e non a caso la cellula spende almeno il 75% dell’energia disponibile per fabbricarle. Cosa fondamentale: è la forma definitiva delle proteine, la loro struttura tridimensionale – in cui si ripiegano su se stesse e a volte si legano ad altri peptidi – che ne determina la funzione. A differenza del sequenziamento automatico dei geni, che ormai è possibile a una velocità sorprendente, le tecniche per esplorare le proteine sono lunghe, costose e richiedono ancora un paziente lavoro umano. Oltre a essere estremamente complesse e diverse le une dalle altre, infatti, le proteine hanno l’antipatica tendenza a denaturarsi in fretta. Faticosamente, gli scienziati stanno compilando il loro inventario, detto proteoma, insieme a quello di tutte le altre molecole biologiche: il lipidoma (lipidi), il glicoma (zuccheri), il trascrittoma (mRNA), il regoloma (molecole regolatrici), il metaboloma (metaboliti), il metagenoma (geni dei microrganismi che colonizzano il nostro corpo), e così via. In realtà, non siamo che agli inizi di questo mastodontico lavoro.
Eravamo così sicuri che l'informazione genetica potesse passare sempre e solo dal DNA all'RNA, alle proteine, da definire questa sequenza il "dogma centrale della biologia" (fu lo stesso Francis Crick a chiamarlo così nel 1958). Poi abbiamo scoperto varie eccezioni al presunto dogma, come i retrovirus (virus a RNA che retrotrascrivono il proprio genoma in DNA), i retrotrasposoni (sequenze di DNA che si replicano partendo dal proprio trascritto di RNA) e i prioni (molecole proteiche autoreplicanti pur essendo prive di DNA).
(immagine: tes teach)
Quanto conosciamo dei geni?
Una delle grandi promesse della rivoluzione genomica, purtroppo solo in parte mantenuta, era la possibilità di prevedere l’insorgenza di qualunque malattia genetica e correre ai ripari, una volta identificato il gene o i geni responsabili. Ma saper leggere le sequenze geniche non è che il primo passo. Sono rarissime infatti le malattie che dipendono da un’unica causa, come la fibrosi cistica e la distrofia muscolare. Tutte le malattie più comuni, dal diabete ai tumori, dalle malattie cardiovascolari a quelle neurodegenerative, hanno invece cause complesse che coinvolgono un mix di molti geni e fattori ambientali. Queste interazioni sono in gran parte ignote, e sul piano della prevenzione e della cura, nonostante i passi avanti, si continua a brancolare nel buio. Saper leggere la sequenza di un gene, poi, non significa capire che cosa faccia. Lo spegnimento (silenziamento) può fornire indizi se produce qualche effetto visibile; se non ne vediamo, però, non significa che quel gene non svolga funzioni importanti: potrebbe semplicemente essere stato rimpiazzato da altri geni, pronti ad attivarsi per compensare il suo malfunzionamento. Inoltre un gene non lavora quasi mai da solo (perciò non ha senso parlare di un unico gene responsabile di qualcosa), e bisogna non solo trovare i collaboratori, ma tentare varie combinazioni di silenziamento per scoprire come funzionano. Un lavoro che può richiedere diversi anni per un singolo circuito. Se è difficile individuare le cause genetiche di un tratto somatico, ancora più arduo è individuare quali geni determinano i complessi comportamenti che le diverse specie manifestano. Sappiamo, per esempio, che alcune nostre capacità cognitive come l’elaborazione del linguaggio dipendono da geni presenti anche negli scimpanzé, con cui condividiamo il 98% del genoma, e non da geni esclusivi. Semplicemente, noi li usiamo in modo diverso. Anche nel caso di comportamenti variabili come l’aggressività e la socialità, non siamo in grado di ricondurre le differenze individuali a specifiche basi genetiche. Per quanti genomi umani possiamo analizzare, è impossibile prevedere come ci comporteremo con gli altri semplicemente leggendone le sequenze.
La diversità è femmina
Per approfondire il tema della nostra diversità genetica può essere utile la lettura di Europei senza se e senza ma, dello stesso Guido Barbujani, edito nel 2008 da Bompiani, e vedere questa sua videointervista più recente sull’argomento.
Un altro tema correlato è quello dell’inattivazione del cromosoma X, affrontato in questo articolo tratto dal blog di Lisa Vozza. Tutte le femmine utilizzano solo uno dei due cromosomi X, mentre l’altro si accartoccia formando il Corpo di Barr. Questo non solo evita una sovraespressione dei geni dell’X, ma è anche all’origine di una maggior varietà genetica all’interno di ciascun organismo femminile. Un esempio è quello delle gatte calico (nella foto) o a squame di tartaruga (con pelo nero e rosso). Poiché queste colorazioni sono frutto di varianti genetiche recessive legate al cromosoma X, solo le femmine possono presentarle.
(Immagine: Wikimedia Commons)
Funziona la terapia genica?
Un quarto di secolo fa, grandi aspettative erano riposte sulla tecnica più promettente per curare le malattie provocate da geni difettosi: la cosiddetta terapia genica. Il principio su cui si basa è in apparenza semplice: individuato un gene difettoso, si ricostruisce in laboratorio la sua versione sana, e con l’aiuto di virus, lo si inserisce “solo” nelle cellule malate. C’è però il rischio che il gene si inserisca nel punto sbagliato, e crei danni peggiori come l’insorgenza di tumori. Inoltre può risultare troppo attivo, o troppo poco, o attivarsi nei momenti sbagliati. In tutti questi casi, è probabile che i sistemi di monitoraggio cellulare ne riconoscano il malfunzionamento e lo mettano fuori uso. Perciò è così difficile ottenere risultati certi e molti tentativi sono destinati a fallire. Di recente è stata tentata con successo una terapia sperimentale che sfrutta il virus HIV per inserire geni ingegnerizzati in linfociti T, in modo che possano combattere le cellule tumorali. I casi di guarigione definitiva, tuttavia, sono piuttosto rari, e la strada è ancora molto lunga.In che modo l'ambiente influenza influenza l'espressione genica?
Un esempio illuminante per rispondere a questa domanda ci viene sempre dai gatti, in particolare quelli siamesi. Il gene della tirosinasi, un precursore della melanina che dà colore al pelo, è sensibile alla temperatura. Si attiva solo nelle parti più fredde del corpo, come zampe, orecchie e coda. Un cucciolo di siamese allevato in una serra, quindi, diventa tutto bianco, mentre al freddo sarà nero, come racconta Lisa Vozza in questo articolo del suo blog. Un altro esempio di interazione fra genetica e ambiente è l’altezza delle persone. Il trend secolare a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, ha portato a un aumento di oltre 4 cm della statura media nei maschi (da 170 a 175 cm) e di 11 cm nelle femmine (da 151 a 162 cm). Evidentemente, il miglioramento dell’alimentazione, delle condizioni igieniche, ma anche il tipo e il grado di attività fisica hanno consentito ai numerosi geni coinvolti nella statura (finora ne sono stati identificati 44) di esprimersi al meglio. In che modo resta ancora un mistero. Non c’è gene, in ogni caso, che non lavori insieme all’ambiente.
La colorazione del mantello dei gatti siamesi dipende dalla temperatura corporea: solo nelle zone più fredde come zampe, testa e coda si attiva il gene della tirosinasi, un precursore della melanina, che dà la colorazione scura (immagine: Wikimedia Commons)
Qual è l’origine del cancro?
Sono tre i fattori in gioco: il caso, l’eredità e l’ambiente, che però hanno un peso diverso a seconda del tipo di tumore. I tumori al pancreas e al colon, per esempio, sembrano dipendere maggiormente da mutazioni casuali (ne ha parlato Lisa Vozza in due articoli, questo e questo, del suo blog). Ogni volta che una cellula si divide, deve ricopiare il corredo genetico, e qualche errore è sempre possibile. Ci sono meccanismi di riparazione, ma se al controllo sfugge un errore in un gene fondamentale che regola la proliferazione cellulare, ecco che si sviluppa un tumore. Il rischio è maggiore per le cellule longeve, come le staminali adulte, che possono propagare l’errore nella loro discendenza. Nel colon, le staminali adulte si dividono attivamente per rimpiazzare quelle abrase dal passaggio delle feci. Più un tessuto ospita staminali che si dividono, maggiore è la vulnerabilità al cancro. Nel cervello, dove i neuroni hanno scarsissime capacità di rigenerarsi, il rischio di tumore è molto più basso. Ci sono poi tumori, circa 3 su 10, per cui stile di vita, ambiente ed eredità giocano un ruolo cruciale. Il tumore al polmone era rarissimo prima della diffusione delle sigarette nella Prima guerra mondiale. L’infiammazione cronica dei tessuti dovuta al fumo stimola le cellule a riprodursi, moltiplicando i rischi di mutazioni. Stesso discorso per l’infiammazione al fegato provocata dal virus dell’epatite C, che può portare al cancro. Non possiamo prevedere se, dove e quando avverranno gli errori, ma possiamo allontanare i rischi con più attenzione al cibo e allo stile di vita e, in caso di familiarità, con controlli periodici.
I rischi associati al fumo di sigaretta sono ben documentati, ma i danni possono essere soggettivi. Poiché un tessuto infiammato e in attiva divisione è più soggetto a mutazioni che possono indurre il cancro, è bene adottare uno stile di vita sano, a cominciare dalla rinuncia alla sigaretta (immagine: Wikimedia Commons)
I test genetici sulla salute sono affidabili?
La genomica medica è una disciplina recente e in rapida evoluzione. Studi su decine di migliaia di volontari hanno individuato centinaia di varianti genetiche classificate come “patogeniche”, ma solo per 9 di queste esistono prove solide di una correlazione con una malattia. Come abbiamo visto, sono pochissime quelle che dipendono da un’unica causa, perciò comunicare a pazienti la presenza di una variante genetica sospetta è una faccenda piuttosto delicata. Diabete, cancro, malattie neurodegenerative e cardiocircolatorie coinvolgono molti o moltissimi geni, e varianti patogeniche possono essere trovate anche in persone sane, ed essere più o meno comuni a seconda del gruppo etnico di appartenenza. In sostanza, servono studi su campioni più ampi, criteri rigorosi e trasparenti e molte prove genetiche, biochimiche, cliniche ed epidemiologiche, per correlare con certezza una variante a una malattia. Nel caso della schizofrenia, 128 varianti contribuiscono per il 7% al rischio di sviluppare la malattia. Avendole tutte, quindi, si sarebbe tutt'al più predisposti, ma nessuno sa in cosa consista il 93% del rischio mancante, né come interagisca con le varianti. Cautela, quindi, è la parola d’obbligo. Soprattutto dove non esiste un sistema sanitario pubblico, ma basato su assicurazioni private, come negli USA, che potrebbero negare la copertura per presunti rischi genetici.
Oggi proliferano le aziende che offrono test genetici a basso costo, ma come raccomanda l'AIRC, l'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, serve una precisa indicazione di un genetista esperto. Ci sono poi test e test. Alcuni servono a individuare specifici geni in soggetti a rischio che manifestano i primi sintomi della malattia (per esempio la fibrosi cistica), altri a modificare i comportamenti (stile di vita e maggiori controlli) di portatori di geni patogenici, come quello della poliposi adenomatosa familiare, una forma di cancro del colon. In assenza di prescrizioni, conoscere una predisposizione a questa o quell'altra malattia sulla base della presenza di mutazioni a essa associate può rivelarsi, più che inutile, dannoso. Il rischio infatti è quello di generare ansie immotivate (la probabilità non è mai una certezza) e indurre decisioni drastiche, come quella di porre fine a una gravidanza.
Per approfondire il tema delle mutazioni patogeniche, si può leggere questo articolo di Lisa Vozza, pubblicato nel suo blog Biologia e dintorni.
Qual è il ruolo dell’epigenoma?
Nel nucleo di ciascuno dei 210 tipi di cellule del corpo umano si trova una copia identica di DNA. Per creare o mantenere l’architettura dei nostri tessuti, con cellule di forme e funzioni molto diverse, non tutti i geni possono essere espressi in qualsiasi momento. Ad assicurare un blocco temporaneo dell’attività genetica ci pensano gruppi chimici che si attaccano a pezzi di DNA, rendendoli inaccessibili: i gruppi metile per esempio si legano alla citosina, mentre i gruppi acetile bloccano gli istoni, le proteine che impacchettano il DNA. Sono come etichette o post-it epigenetici, appunti che segnalano quali geni vanno trascritti e quali devono restare inattivi. Questa flessibilità porta a risultati inattesi e imprevedibili, a seconda delle esperienze di vita. Per esempio, giovani ratti leccati a lungo dalla madre presentano modifiche epigenetiche nei circuiti genetici che regolano lo stress, e possono diventare adulti più calmi e meno ansiosi. Quando un ovulo viene fecondato da uno spermatozoo, è necessaria una riprogrammazione per consentire all’embrione di formare ogni cellula del corpo. Le etichette epigenetiche, quindi, vengono rimosse. Ma non tutte. Alcune sono trasmesse alle generazioni successive, come ricordi di una vita passata. Ben l’1% dei geni dei mammiferi sfugge alla riprogrammazione epigenetica. Così, ratti nutriti con una dieta ricca di grassi, tanto da sviluppare un diabete precoce, trasmettono alterazioni epigenetiche alle cellule del pancreas dei figli, che sviluppano la stessa malattia pur avendo una dieta normale. Alcuni fattori epigenetici sono anche coinvolti nei tumori, bloccando geni che dovrebbero essere espressi e rendendone accessibili altri che dovrebbero restare inattivi. Sappiamo inoltre che rendono i gemelli omozigoti, indistinguibili da neonati, più diversi al termine della propria vita. Ma l’esplorazione dei fattori epigenetici, sfuggenti e labili come i post-it, è solo agli inizi.
Per approfondire
Aula di Scienze si è occupata spesso di epigenetica, una giovane branca della genetica che studia le modificazioni ereditabili dell'espressione genica senza che avvengano cambiamenti nel DNA. Oltre a un articolo dal blog di Lisa Vozza, e a due Come te lo spiego dedicati all'argomento, che trovi qui e qui, segnaliamo le seguenti news sull’argomento della sezione Ultime dal Lab:
Quanto DNA "estraneo" ci portiamo addosso?
Definire l’identità biologica di un essere umano, e di tutti gli altri organismi, può creare qualche imbarazzo, considerando che circa la metà delle nostre cellule in realtà non è nostra. Il corpo umano è una sorta di albergo per miliardi e miliardi di ospiti microscopici, come virus, batteri e funghi, che ci colonizzano non appena veniamo al mondo e costituiscono il cosiddetto microbiota. È una convivenza perlopiù pacifica, anzi benefica, soprattutto coi batteri. Quelli dell’intestino digeriscono sostanze per noi indigeribili, come le cartilagini e la cellulosa, sintetizzano nutrienti indispensabili come la vitamina K, compongono gran parte delle feci e ci proteggono dalle malattie cardiovascolari, nutrendosi di metaboliti che favoriscono infiammazioni e aterosclerosi. Nel complesso, il microbioma (il patrimonio genetico del microbiota) veicola 500 mila istruzioni genetiche nel solo intestino, oltre 20 volte le nostre. Anche il genoma umano, a dire il vero, è nostro solo per metà. Il DNA mitocondriale è un’eredità di antichissimi procarioti inglobati dai primi eucarioti e trasformati in organuli cellulari. I batteri poi, ma anche i protisti, sono molto bravi a scambiare e trasferire orizzontalmente (cioè a una cellula non discendente) i propri geni. Circa 140 preziosi geni umani sembrano avere questa origine, e sono coinvolti nel metabolismo dei lipidi, nella risposta immunitaria infiammatoria, nel metabolismo degli amminoacidi e nei processi antiossidanti. Tutt’altro che trascurabile è anche il contributo dei retrovirus, virus a RNA (come l’HIV). 100 mila frammenti di DNA virale sono stati inglobati nel nostro genoma, dove rappresentano l’8% del totale. Se poi ci aggiungiamo il contributo di incroci con altre specie umane, come i Neanderthal e i Denisovani, ecco che il nostro genoma appare più simile a un calderone eterogeneo, e spesso rimescolato, di geni di varia provenienza.
I batteri del microbiota umano predominanti nelle diverse parti del corpo (immagine: Wikimedia Commons)