Migliaia di stelle che brillano e l’arco della Via Lattea che attraversa la volta celeste: fino a poco più di 100 anni fa era questo il normale aspetto del cielo notturno nelle nostre città. La notte era così buia che ancora nella seconda metà dell’Ottocento alcune delle più importanti osservazioni del pianeta Marte a livello internazionale furono effettuate da Giovanni Schiaparelli dalla cupola dell’osservatorio astronomico di Brera, a meno di un chilometro in linea d’aria dal Duomo di Milano. Poi si diffuse un’invenzione straordinaria come l’illuminazione elettrica e, mentre nelle strade le lampadine si accendevano ovunque, più in alto gli astri iniziarono a scomparire.
Un inquinamento che fa molteplici danni
Si chiama inquinamento luminoso. È la presenza eccessiva, mal direzionata o invadente della luce artificiale. Ci sono vari modi per misurarlo. Uno dei più noti è la Scala del cielo buio di Bortle, che identifica nove livelli basandosi sulla quantità di oggetti visibili nella volta celeste. Questa immagine, pubblicata dallo European Southern Observatory, la illustra in modo molto intuitivo.
In Italia chi abita in città probabilmente vede il cielo come nelle prime due colonne di sinistra. In aperta campagna si può arrivare intorno al livello 5 ma per scendere ancora, salvo rare eccezioni, bisogna andare in alta montagna o in mare aperto. Secondo alcune stime, il 60% della popolazione europea vive in zone dove di notte non si vede la Via Lattea. Lo sanno bene gli astronomi: gli osservatori principali ormai si trovano in località remote come le cime più alte delle isole Canarie o il deserto di Atacama in Cile.
Il problema non riguarda però solo il mondo dell’astronomia. L’inquinamento luminoso è anche un enorme costo. La luce diretta verso l’alto è inutile: non serve a nessuno, ma si paga comunque. L’associazione DarkSky stima che negli Stati Uniti almeno il 30% dell’illuminazione pubblica sia sprecata in questo modo, con un aggravio per le amministrazioni locali pari a circa 3,3 miliardi di dollari all’anno. Anche l’Italia, da questo punto di vista, non è un esempio virtuoso. Ricordate le immagini del nostro Paese visto di notte dallo spazio, con la sagoma inconfondibile che risalta nell’oscurità? Bellissime, certo, ma anche la prova che sull’illuminazione c’è ancora molto lavoro da fare.
L’inquinamento luminoso danneggia anche gli ecosistemi. Disturba gli animali notturni, modifica gli equilibri fra prede e predatori, può confondere gli uccelli migratori e alterare l’attività delle piante. Anche l’uomo non è immune: fra i primi effetti della luce notturna c’è ad esempio l’alterazione dei ritmi circadiani che governano l’alternanza sonno-veglia, con riflessi a cascata su altre funzioni fisiologiche e sul benessere complessivo.
Infine, ma certo non per importanza, vanno evidenziati gli effetti culturali. Il cielo stellato è un patrimonio immateriale dell’umanità. Sin dalla preistoria l’uomo ha rivolto lo sguardo verso l’alto ponendosi domande fondamentali su se stesso e sull’Universo. Gli astri hanno ispirato grandi artisti e letterati. La loro scomparsa dalla volta celeste ci priva di uno spettacolo naturale dal valore incommensurabile e potrà avere conseguenze ancora difficili da valutare.
I dati
Che il problema esista è evidente a tutti, ma il primo passo per affrontarlo metodicamente è conoscere nel dettaglio la sua entità. I dati non mancano. Nel 2016, sulla prestigiosa rivista scientifica Science fu pubblicato un vero e proprio atlante mondiale dell’inquinamento luminoso. Emergeva una situazione pesantemente compromessa in molte aree del pianeta, fra le quali l’Europa. Secondo gli autori dello studio per trovare un cielo incontaminato almeno allo zenith, un abitante di Parigi dovrebbe viaggiare fino in Corsica, cioè a 900 km di distanza. L’Italia purtroppo è fra i casi meno virtuosi, tanto da risultare al primo posto fra i paesi del G20 nella classifica dell’inquinamento luminoso.
Anche i comuni cittadini possono contribuire al monitoraggio del fenomeno. L’International Astronomical Union ha ad esempio lanciato la campagna “Globe At Night”. Periodicamente nel corso dell’anno tutti sono invitati a uscire di casa la sera. Le istruzioni sono semplici: bisogna cercare nel cielo una determinata costellazione e riferire quali stelle che la compongono sono visibili dalla loro località di osservazione. Poiché la magnitudine delle singole stelle è nota, in questo modo è possibile stimare l’inquinamento luminoso nell’area.
Che cosa possiamo fare?
I primi a mobilitarsi contro l’inquinamento luminoso sono stati, per ovvi motivi, gli astronomi. L’International Astronomical Union (IAU) sta portando avanti numerose iniziative a vari livelli contro le luci che fanno scomparire le stelle.
Fra i possibili interventi proposti dall’IAU ci sono:
- spegnere le luci inutili;
- usare luci color ambra invece di luci bianche;
- ridurre l’intensità dell’illuminazione;
- intervenire sulle sorgenti di luce per far sì che illuminino solo verso il basso;
- piantare vicino alle fonti luminose degli alberi che facciano da schermo.
Si tratta di soluzioni spesso semplici, che in molti casi tutti possono adottare e che in diversi paesi sono state anche gradualmente recepite a livello normativo.
È invece dibattuta l’utilità di sostituire le lampadine tradizionali con l’illuminazione LED per ridurre l’inquinamento luminoso. I LED offrono indiscutibilmente moltissimi vantaggi: riducono i consumi, costano poco, durano a lungo. Tuttavia, emettono una luce che nel suo spettro è ricca di blu e quindi si diffonde molto. Inoltre, alcuni studi hanno mostrato che la loro economicità spinge le persone ad installare più luci.
Il cielo buio come risorsa
L’inquinamento luminoso è talmente diffuso che una volta celeste piena di stelle è purtroppo ormai una rarità, almeno in Europa. Di conseguenza, da alcuni anni è in crescita una forma di turismo astronomico diretto proprio nelle località più al riparo dalle luci artificiali, là dove è possibile ottenere il massimo dal proprio telescopio amatoriale o dove più semplicemente si può alzare incantati lo sguardo all’insù.
Nel 2010 la Fundacìon Starlight, con sede alle Canarie, ha lanciato la campagna Starlight Stellar Parks per identificare e valorizzare le zone ancora incontaminate. Il primo luogo italiano a ottenere il riconoscimento di Starlight Stellar Park è stato il vallone di Saint-Barthélemy, dove ha sede l’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Il marchio di qualità, riconosciuto dall’UNESCO, è arrivato anche grazie a una serie di interventi sull’illuminazione pubblica finanziati da un progetto europeo.
È invece guidato dall’Osservatorio di Torino dell’Istituto Nazionale di Astrofisica il progetto Starlight mirato a formare 60 fra giovani e operatori esperti, facendoli specializzare nel turismo astronomico con una particolare attenzione, per quanto riguarda l’Italia, ad alcune vallate piemontesi. Insomma: l’impegno per salvare il cielo buio può diventare anche un’occasione per lo sviluppo dei territori dove è ancora possibile ammirare il firmamento.
Illustrazione della scala di Bortle (immagine: ESO P Horalek M Wallner)
L’Italia di notte vista dallo spazio (immagine: ESA/NASA)
Il grafico mostra la classifica dell’inquinamento luminoso tra i Paesi G20