Mangimi a uso zootecnico, ma anche polenta e altre forme di alimenti a uso umano: questi gli attuali impieghi prevalenti del mais a livello globale. Più di recente si sono aggiunti quelli energetici per la produzione di biogas e quelli industriali per la sintesi di polimeri biodegradabili alternativi alla plastica.
Le origini botaniche del mais (Zea mays) si perdono però nella notte dei tempi, trovandosi tracce del suo consumo già 10 mila anni fa presso le popolazioni dell’attuale Messico. Il mais all’epoca era però ben lungi dall’assomigliare a quello attuale. I moderni ibridi di granturco sono infatti i lontani discendenti del Teosinte, pianta selvatica il cui processo di domesticazione risale a circa settemila anni fa per mano dei popoli mesoamericani. Per quanto riguarda il mondo occidentale, invece, l’interesse per questa coltura risale al XVI secolo. Così come patate, fagioli e pomodori, anche il mais giunse infatti in Europa dalle Americhe a seguito dei viaggi con cui Cristoforo Colombo aprì la strada commerciale fra i due continenti.
Le prime diffidenze e gli Inizi stentati
Analogamente a patate, fagioli e pomodori, anche il mais non trovò inizialmente grande successo nell’agricoltura e nell’alimentazione europea, richiedendo molto tempo per entrare nei programmi di coltivazione. Divenuto poi noto in Italia con il nome di granturco, per via della sua origine percepita esotica, il mais rivelò presto le sue attitudini produttive, spesso superiori agli altri cereali comunemente coltivati.
Come altre specie di origine tropicale quali sorgo e canna da zucchero, anche il mais è infatti una pianta cosiddetta “C4”. Sfrutta cioè una particolare via metabolica per la fissazione dell’anidride carbonica tramite il processo della fotosintesi. Tale differenza rispetto alle piante tipiche dei climi continentali si basa sulla presenza nei tessuti fogliari di due tipi distinti di cellule, che integrano le proprie funzioni rendendo molto più efficiente la biosintesi dei carboidrati.
Da un ettaro di mais ci si accorse quindi presto che si poteva raccogliere molto di più rispetto a una pari superficie seminata a frumento. Non che le rese fossero da urlo, poiché con il grano si faticava a toccare la tonnellata per ettaro e con il mais si sfioravano raramente le due. Una differenza comunque interessante per l’agricoltura dei secoli scorsi e che si amplificò dopo la scoperta dei fertilizzanti azotati, avvenuta questa nei primi anni del XIX secolo, perché il mais mostra una risposta molto positiva alle somministrazioni di azoto.
Dalle varietà agli ibridi
Fino alla metà degli anni ’30 la selezione genetica del mais era di tipo tradizionale, scegliendo le piante più produttive per ottenere la semente degli anni successivi. Poi in America si scoprì che conveniva selezionare due linee parentali completamente diverse e poi incrociarle fra loro: una delle linee poteva per esempio essere anche poco produttiva, ma magari cresceva vigorosa e sana. L’altra era molto stentata come resistenza alle patologie o alla siccità, ma potenzialmente produceva moltissima granella. Una volta ottenute le due linee pure, incoltivabili come tali, queste venivano incrociate a dare ibridi che unissero in sé le diverse caratteristiche positive. Così facendo, il salto nelle rese fu ragguardevole: da una media di 16 quintali per ettaro si passò a 25 in soli vent’anni.
Dopo la Seconda Guerra mondiale la ricerca genetica sugli ibridi proseguì, sino a fare ottenere, sempre in America, l’attuale media di 110 quintali per ettaro. Una curiosità: negli anni ’50 il piano Marshall di aiuti all’Italia post-bellica prevedevano anche la fornitura dei semi di tali ibridi, molto più moderni e produttivi delle varietà coltivate allora nello Stivale. Come già visto, però, le innovazioni faticano molto ad affermarsi e questo destino toccò anche agli ibridi di mais. La paura che potessero essere pericolosi creò addirittura la situazione per la quale alcuni agricoltori si videro attaccare e minacciare dopo aver seminato quelle innovazioni. Un ostruzionismo che per certi versi ricorda quello a cui si è assistito in tempi più recenti nei confronti degli Ogm.
La polenta come alimento base delle popolazioni povere
Anche prima di tale salto genetico, la polenta era comunque divenuta una forma di cibo molto diffusa nelle regioni ove il mais cresceva meglio, come per esempio la Pianura Padana. La povertà di quelle aree rurali ne fece quindi l’alimento portante proprio grazie alla sua abbondanza. Purtroppo, il consumo pressoché esclusivo di polenta portò con sé la pellagra, nota anche come “malattia delle tre D": demenza, dermatite e diarrea. Visivamente, il sintomo più vistoso è la desquamazione della pelle, fenomeno che si accentua nelle porzioni di corpo esposte al sole. A conferma, il mais è praticamente privo della vitamina PP, acronimo non a caso di Pellagre Prevent. Questa vitamina, di tipo idrosolubile, è anche nota come niacina o vitamina B3 e il suo fabbisogno base giornaliero per una persona adulta è di circa 12-13 milligrammi: senza un adeguato apporto di verdure e altri alimenti è impossibile soddisfarlo solo mangiando polenta.
Oltre a colpire le popolazioni più misere del Polesine, la pellagra colpì anche negli Stati Uniti dove il mais si era velocemente diffuso per gli stessi motivi. Stando alle statistiche d’Oltreoceano, fra 1907 e il 1940 patirono di tale patologia circa tre milioni di americani, ovviamente i più poveri. Di pellagra si stima che negli Usa perirono circa 100 mila persone in quel lasso temporale, nel quale la malattia aveva una letalità del 3,3%. Considerando un dato italiano del 1878, in cui si riportano circa 100 mila persone afflitte dalla malattia, si può stimare in alcune migliaia i morti causati dalla pellagra nelle aree rurali più indigenti del Belpaese.
In Italia oggi il mais da granella è destinato in ordine di importanza quantitativa all’alimentazione zootecnica e al settore mangimistico (77%), seguita dall’amideria (16%) e quindi dal settore molitorio (7%).
Il trucco degli Aztechi
Sebbene anche gli antichi popoli mesoamericani si nutrissero quasi esclusivamente di mais, non risultano tracce di pellagra. La differenza risiede nel modo di preparare le cariossidi al consumo: mentre queste venivano solo macinate dai popoli occidentali e poi cotte in acqua, procedura seguita tutt’oggi, le popolazioni precolombiane le spezzettavano e prima di cucinarle le lasciavano per molte ore immerse in vasche di acqua in cui era stata posta abbondante cenere. Tale procedura generava un ambiente alcalino nel quale era più facile la trasformazione in vitamina PP del triptofano, un comune aminoacido. Per quanto non se ne formasse in grandi quantità, bastava comunque a soddisfare il fabbisogno minimo, preservando quelle popolazioni dal flagello della pellagra.
Non si saprà forse mai se tale procedura sia nata per caso e sia continuata solo per tradizione, senza conoscerne i benefici, oppure se abbia preso piede proprio dopo specifiche osservazioni da parte di occhi attenti. Resta il fatto che quella pratica di preparazione fece la differenza anche in termini sanitari. Un’antica sapienza culinaria che purtroppo andò persa a causa del crollo di quelle civiltà per mano dei conquistadores spagnoli.
immagine di copertina: Donatello Sandroni
L’andamento della produzione di mais in milioni di tonnellate di USA, Cina, India e Russia tra il 1961 e il 2021 (fonte: Food and Agriculture Organization of the United Nations / Our World in Data)
Produzione mondiale di mais per ettaro misurata in tonnellate nel 2022 (fonte: Food and Agriculture Organization of the United Nations; USDA National Agricultural Statistics Service – NASS / Our World in Data)
Evoluzione della produzione e delle importazioni di mais dell’Italia tra il 2000 e il 2019 misurata in migliaia di tonnellate (fonte: Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo)