20 agosto 1947. Nella sentenza che condannava 23 medici nazisti per aver condotto esperimenti inumani sui prigionieri dei campi di concentramento, compare un decalogo di principi etici sulla sperimentazione umana: diventerà noto come Codice di Norimberga. Quello che oggi chiamiamo “consenso informato” dei pazienti è al primo posto della lista. Il Codice di Norimberga stabilisce anche che gli esperimenti sulle persone devono basarsi su solide conoscenze pregresse (per esempio i risultati degli studi sugli animali) e che devono avere il fine ultimo di portare un beneficio alla società, ma anche adottare tutte le precauzioni per evitare danni e sofferenze, fisiche e mentali, ai pazienti.
I principi del Codice di Norimberga furono sviluppati dall’Associazione Medica Mondiale nella dichiarazione di Ginevra (1948) e in quella di Helsinki (1964) e sono tuttora un caposaldo dell’etica medica. Eppure il caso di Henrietta Lacks ci ha insegnato che quei principi non sempre sono stati rispettati. La storia delle cellule HeLa, infatti, è unica, ma è al tempo stesso una delle tante. È unica perché le cellule della signora Lacks hanno cambiato per sempre la medicina e perché l’eccezionale lavoro di Rebecca Skloot, autrice di La vita immortale di Henrietta Lacks (Adelphi, 2011), ha portato alla luce tutta la complessità di una vicenda dimenticata (o “rimossa”) per decenni.
Ma è anche solo uno dei casi dove, nonostante Norimberga, dopo la Seconda guerra mondiale i medici hanno eseguito (o proseguito) esperimenti non etici, sfruttando gruppi più deboli: poveri, minoranze di ogni tipo, orfani, malati di mente, prigionieri. Molte di queste storie, una volta rivelate, hanno avuto un grande impatto sull’opinione pubblica e hanno condizionato le pratiche successive. Ricordiamone alcune.
L’esperimento sulla sifilide di Tuskegee
Nell’ultima puntata del podcast HeLa – L’eredità infinita di Henrietta Lacks, prodotto da Zanichelli, è stato ricordato l’esperimento sulla sifilide condotto a Tuskegee, in Alabama, dal Servizio Sanitario Pubblico degli Stati Uniti. Dal 1932 al 1972 coinvolse circa 600 afroamericani in gran parte contadini poveri con scarsa o nessuna istruzione. I ricercatori promisero loro cure mediche gratuite per una condizione genericamente chiamata “sangue cattivo”, senza rivelare che 400 dei partecipanti avevano la sifilide e che l’obiettivo dello studio era osservare la progressione della malattia senza cure. Altri 200 uomini costituivano il gruppo di controllo.
Quando cominciò l’esperimento le terapie a base di arsenico per la sifilide erano piuttosto rischiose e poco efficaci, ma non sarebbero mai state negate a un bianco (se poteva permettersele). Poi, negli anni Quaranta, arrivò la penicillina, la prima vera cura per la sifilide, che però non fu mai somministrata alle vittime dell’esperimento di Tuskegee. La ricerca proseguì deliberatamente all’insaputa dei soggetti coinvolti, causando la morte di molti e la trasmissione della malattia ai familiari. Tutta la comunità scientifica di settore conosceva bene l’esperimento dalle pubblicazioni scientifiche, che terminò solo dopo che la stampa diede voce ai (pochi) medici che non erano più disposti a tollerarlo.
Quando il caso diventò di pubblico dominio era il 1972 e gli Stati Uniti erano atterrati sulla Luna già cinque volte. Il caso portò alla nascita, nel 1974, della Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani della ricerca biomedica e comportamentale, che in seguito pubblicò un altro testo molto importante per l’etica medica: il Rapporto Belmont. Diffuso nel 1979 ruota intorno a 3 principi:
- rispetto per le persone: riconoscere l’autonomia degli individui e proteggere chi ha capacità decisionali limitate;
- beneficenza: massimizzare i benefici della ricerca e minimizzare i rischi per i partecipanti;
- giustizia: garantire un’equa distribuzione dei benefici e dei rischi della ricerca tra tutti i gruppi sociali.
Fu però solo nel 1997 che il presidente Bill Clinton fece le sue pubbliche scuse, ai famigliari delle vittime di Tuskegee e agli Stati Uniti d’America.
Gli esperimenti sulle malattie veneree in Guatemala
Esperimenti simili a quelli di Tuskegee furono condotti in Guatemala tra il 1946 e il 1948, sotto la supervisione di uno dei medici che avrebbero poi collaborato proprio all’esperimento di Tuskegee, John Charles Cutler (1915-2003). Il Servizio Sanitario Pubblico degli Stati Uniti, in collaborazione con il governo guatemalteco, infettò intenzionalmente con sifilide gonorrea e ulcera venerea, circa 1300 persone. Nell’ambito stesso progetto molti altri furono invece sottoposti a test sierologici, alcuni dei quali prevedevano procedure dolorose come la puntura lombare. In totale sarebbero state coinvolte circa 5000 persone, tutte vulnerabili: prigionieri, pazienti psichiatrici, soldati, prostitute, e persino molti bambini (solo nei test sierologici), che non sapevano di essere parte di un esperimento.
I ricercatori americani volevano studiare l’efficacia della penicillina e altri farmaci per la profilassi delle malattie venere. La penicillina era già usata per curare la sifilide e altre malattie sessualmente trasmissibili, ma gli scienziati volevano capire se poteva anche prevenire l’insorgenza dei sintomi se somministrata dopo l’infezione. La maggior parte dei test sierologici, invece, puntavano ad affinare le tecniche diagnostiche.
Quanto fecero fu infettare delle prostitute con i patogeni, “coltivati” nei conigli, e poi le pagarono per fare sesso con i prigionieri o con i soldati. Più spesso usarono anche l’inoculazione diretta di materiale biologico (per esempio, tessuto infetto) da soggetti malati a sani. Solo una minoranza delle persone coinvolte negli esperimenti ricevette cure adeguate per le malattie diagnosticate, e non ci sono prove che sia mai stato fornito un consenso informato a questi esperimenti, di cui invece erano a conoscenza i superiori nel caso dei soldati e, più in generale, i responsabili sanitari delle istituzioni coinvolte.
Qualche anno prima Cutler aveva avviato un progetto simile sulla gonorrea in una prigione a Terre Haute, in Indiana. Anche questi esperimenti erano discutibili dal punto di vista etico: i detenuti non erano malati ed erano disposti a farsi inoculare patogeni in cambio di denaro e della possibilità di uscire prima per buona condotta. In quel caso, tuttavia, le persone interessate sapevano a cosa andavano incontro. È importante infatti sottolineare che nel XX secolo i medici avevano già cominciato a riconoscere l’importanza dell’autonomia del paziente: il codice di Norimberga è stato il primo tentativo di regolamentare la condotta etica a livello internazionale, ma è stato costruito sulla base di molti precedenti.
Il progetto di Cutler si spostò in Guatemala perché qui la prostituzione era legale e anche i prigionieri potevano usufruirne: i ricercatori avevano quindi la possibilità di sfruttarla per diffondere “naturalmente” il contagio. Un altro ovvio vantaggio è che il Guatemala era sostanzialmente una colonia statunitense e più arretrata dal punto di vista medico, quindi i ricercatori del Servizio Sanitario Pubblico degli Stati Uniti godevano di grande libertà.
Gli esperimenti che prevedevano la trasmissione dell’infezione terminarono nel 1948, quando Cutler lasciò il paese, ma fino alla metà degli anni ‘50 i test sierologici proseguirono e si continuò a fare ricerca usando i campioni biologici prelevati ai pazienti. Fu solo nel 2005 che la storica della medicina Susan M. Reverby, riesaminando il materiale su Tuskegee, scoprì le carte di Cutler che dettagliavano gli esperimenti in Guatemala nascoste negli archivi dell’Università di Pittsburg, dove Cutler aveva insegnato fino alla sua morte. Quando terminò le sue ricerche, nel 2010, Reverby informò il governo. Il presidente Barack Obama l’anno successivo si scusò formalmente con il Guatemala.
Le vittime americane del progetto Manhattan
La ricerca biomedica spesso si intreccia con gli interessi della sicurezza nazionale. Questo è il caso di alcuni esperimenti condotti nell’ambito del progetto Manhattan, che aveva come obiettivo la costruzione della bomba atomica. Tra il 1945 e il 1947, almeno 18 persone vennero sottoposte a iniezioni di plutonio, senza essere informate o fornire consenso, in vari ospedali degli Stati Uniti affiliati al progetto. Le persone impiegate in questi esperimenti furono ancora una volta scelte tra i tessuti più deboli della società.
Tra loro vi era Ebb Cade, un lavoratore afroamericano che, dopo un incidente d’auto, fu ricoverato in un ospedale del Tennessee con una ferita alla gamba. Gli vennero somministrati 4,7 microgrammi di plutonio, una dose circa cinque volte superiore a quella considerata tollerabile all’epoca dagli studi sugli animali. Non gli venne mai detto che stava partecipando a un esperimento e che l’iniezione non gli avrebbe potuto portare alcun beneficio, né gli vennero spiegati i possibili rischi. In seguito gli vennero prelevati campioni di sangue e altri tessuti (persino denti).
Quegli esperimenti avevano come obiettivo capire come il plutonio fosse assorbito ed escreto e i suoi effetti sul corpo umano: queste erano informazioni vitali per proteggere chi lavorava allo sviluppo delle prime bombe atomiche, una delle quali utilizzava appunto il plutonio-239 come materiale fissile.
I fatti emersero molti decenni dopo, grazie all'inchiesta della giornalista Eileen Welsome, che riuscì a risalire all’identità delle vittime e documentò i dettagli degli esperimenti col plutonio. Welsome denunciò anche che, fino al 1974, negli Stati Uniti furono condotte numerose altre sperimentazioni umane con radiazioni o isotopi radioattivi, quasi sempre all’insaputa dei soggetti coinvolti.
Il lavoro di Welsome, culminato nel 1993 nella pubblicazione della serie di articoli The Plutonium Experiment, le varranno il Pultizer. Nel 1994 il presidente Bill Clinton costituì il Comitato consultivo per gli esperimenti sulle radiazioni umane, che in seguitò condannò gli esperimenti e stabilì alcuni risarcimenti alle famiglie delle vittime, ma non prevedeva pene per i responsabili.
Caramelle e carie: gli esperimenti sui pazienti disabili di Vipeholm
Le prime prove sul legame tra consumo di zuccheri e carie vengono da un progetto svedese condotto alla fine degli anni ‘40 che impiegò come cavie pazienti con disabilità psichiche dell’Ospedale Vipenholm a Lund.
All’epoca quasi tutti gli svedesi avevano seri problemi con le carie dentali, bambini inclusi. Si sospettava che la causa fosse il consumo di zuccheri, ma non c’era nessuna prova. Nel 1945 si decise di arrivare in fondo al problema con un vero e proprio programma di ricerca sulla salute dentale. I ricercatori scoprirono che nessuna vitamina era in grado di prevenire la carie, e che queste ultime erano certamente legate al consumo eccessivo di zuccheri, soprattutto se consumati lontano dai pasti. È a partire da questi studi che si diffusero in tutto il mondo alcune importanti linee guida per la salute pubblica.
Il campione di soggetti che parteciparano agli studi era formato, purtroppo, da persono affatte da gravi disturbi mentali; alcuni di loro erano persino incapaci di esprimere un consenso (che comunque non fu chiesto neanche a famigliari o tutori). In alcune fasi dello studio molti di loro ricevettero un’alimentazione totalmente sbilanciata sui carboidrati, con abbondanti dosi di dolciumi, che in vari casi erano stati modificati dalle aziende produttrici, su richiesta dei ricercatori, per attaccarsi meglio ai denti. Lo scopo era ovviamente capire se, quanto e in che modo lo zucchero avrebbe aumentato le carie rispetto ai gruppi di controllo.
I risultati degli esperimenti uscirono nel 1953, ma secondo la storica svedese Elin Bommenel la loro pubblicazione fu rimandata a causa delle pressioni delle aziende produttrici di dolciumi, che avevano in parte finanziato lo studio. Anche all’epoca il caso fece scandalo; iil progetto terminò nel 1955, ma nel complesso quella ricerca fu difesa dal mondo scientifico. Persino nel 2001 Bo Krasse, uno degli scienziati coinvolti, difendeva l’esperimento dicendo che «il fine a volte giustifica i mezzi ed è facile fare giudicare dopo gli eventi». La base del suo ragionamento è che i danni causati dall’esperimento ai denti dei pazienti sarebbero stati, in gran parte, reversibili. Nel 2000 Lars Lööw, il difensore civico delle persone con disabilità aveva dichiarato che gli abusi non potevano essere giustificati coi risultati ottenuti, e che l’esperimento aveva violato i diritti fondamentali dei pazienti.
I bambini di Kano
Ci sembrano storie di un passato già lontano, eppure può ancora succedere che una moderna sperimentazione clinica sia condotta in maniera molto discutibile su gruppi svantaggiati. Nel 1996 a Kano, in Nigeria, era in corso una gravissima epidemia di meningite e la multinazionale farmaceutica Pfizer inviò un team a testare il trovafloxacin (Trovan), un nuovo antibiotico ad ampio spettro. Selezionarono 200 bambini: a 100 diedero il Trovan per via orale e agli altri l’antibiotico ceftriaxone per via intramuscolare, molto usato in questi casi. Nel primo gruppo morirono 5 bambini, nel secondo 6.
Pfizer ottenne l’autorizzazione alla commercializzazione del farmaco sia negli Stati Uniti che in Europa (non per i bambini), ma nel 2000 fu ritirato in entrambi i mercati a causa degli effetti collaterali segnalati dai medici. Nello stesso anno, un’inchiesta del Washington Post fece emergere gravi accuse sulla sperimentazione a Kano; cominciò una lunga e complessa battaglia legale che coinvolgeva Pfizer, i genitori dei bambini e il governo nigeriano.
Secondo la accuse, Pfizer aveva usato il ceftriaxone a un dosaggio troppo basso, in modo da “favorire” il trovafloxacin, e si era precipitata a Kano durante l’epidemia solo per ottenere facilmente dati su pazienti pediatrici necessari per l’autorizzazione. La casa farmaceutica affermò di non aver potuto raccogliere per iscritto il consenso dai genitori a causa delle barriere linguistiche, ma che le infermiere spiegarono ai genitori i dettagli dello studio nella lingua locale. Tuttavia, non sarebbe stato chiarito a sufficienza che i bambini avrebbero potuto ricevere gratuitamente le cure con antibiotici collaudati, che erano già somministrati in quel momento dal personale di Medici Senza Frontiere. Il romanzo del 2001 Il giardiniere tenace di John Le Carré, diventato un film nel 2005, è stato ispirato proprio da queste rivelazioni.
Pfizer si è difesa da tutte le accuse. In particolare il ceftriaxone era più che sufficiente per uccidere il meningococco, e un dosaggio più alto avrebbe aggravato gli effetti collaterali. Infatti, la mortalità registrata nel trial in entrambi i gruppi non è stata più elevata rispetto a quella osservata dagli altri medici che stavano combattendo l’epidemia. Pfizer ha sempre sottolineato che i bambini sono morti a causa della meningite, già molto avanzata. Lo stesso ragionamento vale per i bambini sopravvissuti che hanno riportato danni permanenti (per esempio, sordità). Al momento del trial, inoltre, il Trovan era già stato sperimentato su 5000 pazienti, inclusi bambini, anche negli Stati Uniti e in Europa.
Pfizer non è mai stata condannata da un tribunale. Ottenne che la causa legale negli Stati Uniti fosse rigettata, soprattutto per ragioni procedurali e giurisdizionali. Quando, nel 2007, fu denunciata in una corte nigeriana dallo Stato di Kano, che chiedeva 2 miliardi di dollari di danni, cercò un accordo extragiudiziale e nel 2009 pagò in tutto 75 milioni di dollari facendo firmare un accordo di riservatezza.
Si può accettare che l’accusa di aver abbassato il dosaggio dell’antibiotico tradizionale per falsare il test sia poco credibile, che i bambini siano effettivamente morti a causa della meningite avanzata e che, col senno di poi, difficilmente altre scelte terapeutiche avrebbero potuto salvare più vite. Ma è ingenuo pensare che gli scopi della sperimentazione fossero “puramente filantropici”, come si sosteneva.
Secondo il Washingotn Post, la lettera con cui il Comitato etico dell’ospedale di Kano autorizzava il trial è stata in realtà scritta mesi dopo gli eventi e postdatata, e il medico nigeriano che figurava come coordinatore del trial era tale solo a parole: non conosceva quasi niente dell’esperimento. Almeno una paziente è peggiorata col Trovan ed è morta senza che le venisse offerto anche l’altro antibiotico, come da prassi. Secondo il rapporto di un comitato di medici del governo nigeriano, diventato pubblico solo nel 2006, la sperimentazione era a tutti gli effetti da considerarsi non autorizzata e quindi illegale, oltre che in violazione della Dichiarazione di Helsinki e della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. E da un cablo di Wikileaks diffuso nel 2010 pare che Pfizer abbia anche cercato di bloccare l’ultima causa cercando prove di corruzione tra i funzionari nigeriani coinvolti.
Ma soprattutto, come scrive il medico Ben Goldacre nel libro Effetti collaterali (Mondadori, 2013), il caso è problematico perché in una situazione di emergenza si è deciso di provare un nuovo farmaco nonostante fossero già disponibili dei rimedi efficaci. Secondo la dichiarazione di Helsinki la popolazione che partecipa al trial dovrebbe avere tangibili vantaggi dalla sperimentazione, e spesso nei paesi in via di sviluppo non è così.
L’importanza della ricerca storica e della memoria collettiva
Non è difficile capire che cosa accomuni queste storie. In ognuno di esse l’opinione pubblica è rimasta a lungo all’oscuro, ma il più delle volte non si è trattato di esperimenti “segreti”, e molti sapevano. Il comportamento di chi ha condotto le ricerche non è mai stato giustificato da vere e proprie emergenze di natura medica, e non sempre, a differenza di quanto accaduto con le cellule HeLa, c’è stato un vero progresso.
Se da una parte l’etica si evolve e sarebbe ingenuo, per esempio, paragonare le attuali pratiche sul consenso informato con quelle di molti decenni fa, non è casuale che tutte le vittime appartenessero alle fasce più deboli della popolazione. All’epoca degli eventi raccontati esistevano già delle prassi etiche che avrebbero dovuto impedire l’esecuzione di quegli esperimenti: si trattava di principi universali, ma nella pratica non valevano per tutti.
Tutti questi casi, assieme a molti altri, sono spesso citati dagli studiosi di bioetica che si occupano di razzismo in medicina e di sperimentazione su popolazioni vulnerabili. Non solo si tratta di precedenti che hanno stimolato riflessioni etiche e la nascita di nuovi regolamenti e pratiche, ma i loro effetti negativi si sono estesi nello spazio e nel tempo. In alcuni casi, per esempio, hanno contribuito a far sviluppare una mancanza di fiducia nei confronti della medicina che diventa complicato recuperare.
Eppure, dopo l’esplosione dei casi mediatici, non sempre queste vicende sono rimaste nella nostra memoria collettiva. Un recente articolo firmato da Susan M. Reverby, che scoprì gli esperimenti in Guatemala, e Amy Thomas sottolinea che negli Stati Uniti (ma non in Guatemala) sembra essersi perduta la memoria degli esperimenti, anche a livello istituzionale. Il governo statunitense si è scusato ma non ha mai risarcito le vittime, come suggerivano i bioeticisti, e nel frattempo sono emersi altri particolari, come il fatto che le malattie inoculate in quegli anni sono state trasmesse dalle madri ai figli e che la maggior parte dei soggetti appartenevano a popolazioni indigene. È importante continuare a lavorare sulle storie presenti dietro questi casi perché entrino nella memoria collettiva, come è accaduto per esempio con Tuskegee.
Scrivono le autrici dell’articolo:
La vicenda degli esperimenti in Guatemala, come quella di Tuskegee, ci ricorda che la lotta per il riconoscimento di queste violazioni etiche non si esaurisce con la sola scoperta dei fatti. Servono infatti il coinvolgimento dei media, la mobilitazione dell’opinione pubblica e un lavoro accademico che dia voce alle esperienze vissute per trasformare queste informazioni in un cambiamento effettivo e spingere le istituzioni a intervenire. Ricostruire la memoria degli esperimenti in Guatemala è un percorso ancora attivo, che continua a crescere. Con il contributo di studiosi guatemaltechi e statunitensi, speriamo di poter contribuire a portare avanti questa iniziativa anche in futuro.
Il 20 agosto 1947, il Tribunale per i Crimini di Guerra di Norimberga condanna Karl Brandt, medico personale di Adolf Hitler e Commissario del Reich per la Salute Pubblica, alla pena di morte per impiccagione. Tra le accuse vi è l’uso di prigionieri dei campi di concentramento come cavie in esperimenti medici invasivi, giustificati come utili alle forze armate (immagine: Telford Taylor Papers, Arthur W. Diamond Law Library, Columbia University Law School, New York, NY. Pubblico dominio, via Wikimedia Commons)
La copertina del podcast HeLa – L’eredità infinita di Henrietta Lacks (immagine: Zanichelli)