La neve cade e un piccolo cervo giunge al sicuro nella sua tana, dopo una corsa forsennata tra gli spari dei fucili. «Mamma? Mamma?». La ricerca affannosa, la rivelazione che la mamma non tornerà mai più e quella lacrima che cade dai grandi occhi del cucciolo. Questa è una delle scene più struggenti di Bambi, il lungometraggio d’animazione prodotto da Walt Disney nel 1942.
Il film ebbe un tale successo e la scena fu così significativa da generare una reazione emotiva nella società: si chiama effetto Bambi, infatti, il rifiuto di uccidere o di veder soffrire animali che percepiamo carini, teneri, indifesi. Questo effetto influenza le nostre decisioni su quali siano specie animali da salvaguardare o di cui contrastare la diffusione perché invasive.
La nostra innata attrazione per la tenerezza
Non è un caso se una delle maggiori organizzazioni internazionali dedicate alla conservazione della natura, il WWF, abbia nel suo logo un panda: un mammifero dalle forme rotonde, con occhi che sembrano ancora più grandi per il colore nero del manto che li circonda. Come si legge su una pagina del sito:
I fondatori del WWF volevano come simbolo un animale bello, riconoscibile immediatamente e amato in tutto il mondo.
Gli animali che percepiamo come teneri ispirano un maggiore desiderio di cura e questo rende più efficace la richiesta di fondi per la loro salvaguardia. Tra i primi a comprendere questa attrazione fu Konrad Lorenz, il fondatore dell’etologia. Nel 1971 Lorenz descrisse quello che viene definito baby schema, un insieme di caratteristiche come testa grande, viso rotondo, fronte alta e sporgente, occhi grandi e naso e bocca piccoli, che osserviamo nei cuccioli di Homo sapiens, così come in quelli di altri animali.
Il baby schema ci spinge a prenderci cura del soggetto che presenta quelle specifiche caratteristiche, promuovendo comportamenti di accudimento. La Disney® ha sempre attinto a piene mani da questo meccanismo per rendere irresistibili le sue creazioni. Il biologo Stephen Jay Gould, nel libro Il pollice del panda (edito da Il Saggiatore) dedica a questo argomento un capitolo intitolato Omaggio di un biologo a Topolino, in cui descrive la trasformazione grafica di Mickey Mouse: il roditore spigoloso di Steamboat Willie del 1928 nel corso del tempo è diventato il topo con grandi orecchie e muso tondo che ci è familiare.
Anche Bambi possiede quegli stessi attributi che ci hanno reso più simpatico Topolino. I sentimenti che proviamo per il piccolo cervo sono affini a quelli che ci spingono a preoccuparci per la vita di cuccioli di foca o di adulti di scoiattolo, che conservano i tratti tipici del baby schema.
Il richiamo della tenerezza è solo uno dei fattori che indirizzano la nostra attrazione verso determinate specie. Sempre dal punto di vista estetico abbiamo un atteggiamento positivo nei confronti della megafauna carismatica, costituita da animali di grandi dimensioni che suscitano in noi ammirazione, curiosità e timore, come gorilla, tigri o balene. La nostra attenzione e i nostri sforzi per contrastare la crisi della biodiversità negli ultimi decenni si sono concentrati in particolar modo su mammiferi e uccelli, ignorando frequentemente gli invertebrati, soprattutto gli insetti (a eccezione di farfalle e api).
Quali specie salvare?
Eppure i dati dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) riguardanti le specie a rischio di estinzione dicono che gli animali da salvare sono altri: delle oltre 2 milioni di specie che vivono sul nostro pianeta, più di un milione sono insetti, mentre tutte le specie di rettili, uccelli e mammiferi, prese insieme, non arrivano a trentamila. Gli animali più minacciati dall’estinzione sono anfibi, pesci cartilaginei (squali e razze) e crostacei.
Sebbene negli ultimi anni le campagne per la conservazione di anfibi e rettili siano più frequenti e riconoscibili, i riflettori rimangono puntati sugli animali più carini e affascinanti, che sono soprattutto mammiferi e uccelli a cui sono dedicati progetti, fondi e pubblicazioni scientifiche.
La scelta delle specie su cui concentrare gli sforzi (e quindi il denaro) di salvaguardia è un vero e proprio grattacapo, la cui priorità dovrebbe essere assegnata in base a criteri oggettivi come ruolo ecologico, fattibilità di un progetto di recupero, interesse scientifico ed economico, significato culturale. Tra questi criteri non dovrebbe pesare il valore estetico della specie in esame.
Una nota positiva è che denaro e strumenti adoperati per salvare animali da poster (proprio come gorilla e tigri) possono garantire la conservazione dell’intero ecosistema in cui vivono, un’azione che avvantaggia dunque anche altre specie. Per esempio, proprio l’espansione dell’habitat del panda ha portato in Cina al miglioramento delle condizioni di vita di specie rare e minacciate.
Dobbiamo salvare tutte le specie?
Cosa accade se una specie invasiva che mette a repentaglio l’esistenza di un ecosistema è tanto carina da innescare nell’opinione pubblica l’effetto Bambi? È accaduto in Australia con i koala (Phascolarctos cinereus) di Kangaroo Island. Negli anni Venti del Novecento, nel Parco nazionale di Flinders Chase, vennero introdotti 18 esemplari per salvare la popolazione in declino a causa della distruzione dell’habitat. Nel tempo, i koala si sono riprodotti a tal punto da causare danni alla vegetazione con ripercussioni economiche e ambientali.
Negli anni Novanta è stato avviato così un programma di gestione, ma ha incontrato difficoltà iniziali a causa dei contrasti tra conservazionisti, agricoltori, scienziati e attivisti, con questi ultimi che spesso facevano leva sull’immagine adorabile di questi animali e non sui danni ecologici che essi provocavano. È fondamentale che ci sia una discussione etica sulla scelta di sopprimere, sterilizzare o controllare in altro modo una popolazione di animali, e queste decisioni non dovrebbero basarsi su un giudizio estetico sorretto esclusivamente dalla nostra emotività.
Allo stesso modo, negli Stati Uniti l’effetto Bambi ha portato all’aumento spropositato della popolazione di cervi e di altri ungulati su tutto il territorio. Questo aumento non è stato contenuto dai predatori e minaccia l’esistenza di diverse specie vegetali.
In Italia abbiamo problemi analoghi con lo scoiattolo grigio (Sciurus carolinensis). Importato per la prima volta in Piemonte nel 1948, sta mettendo in grave difficoltà la sopravvivenza dello scoiattolo comune, meglio conosciuto come scoiattolo rosso (Sciurus vulgaris). Lo scoiattolo grigio è stato oggetto in passato di attività di eradicazione e, ancora oggi, si sta procedendo con azioni che supportino la ricolonizzazione dello scoiattolo comune europeo, rese meno efficaci da cittadini inconsapevoli che continuano, in buona fede, a nutrirli per riuscire ad avvicinarli e scattare loro delle fotografie.
Ispirano invece meno compassione quegli animali che potremmo definire brutti non solo per il loro aspetto estetico, ma anche per i danni diretti che possono arrecare alla nostra salute. È il caso delle zanzare, in particolare delle specie invasive come quelle del genere Aedes, vettori di malattie come chikungunya, dengue, zika e febbre gialla. Questi insetti non innescano in noi alcun senso di protezione e cura, probabilmente anche per il fastidio che proviamo quando si nutrono del nostro sangue. Così accettiamo di buon grado che si cerchi di debellarli, come accade ad altre specie infestanti come i piccioni e i ratti.
Guardiamo le specie con altri occhi
Come superare l’istintiva attrazione per ciò che è tenero e garantire la stessa cura e lo stesso impegno nella salvaguardia di specie meno attraenti o di interi ecosistemi? Una delle soluzioni è il coinvolgimento diretto di cittadine e cittadini attraverso programmi di citizen science, che stanno già contribuendo alla nostra conoscenza della biodiversità, supportando la salvaguardia di specie trascurate. Ad esempio, il progetto CSMON-LIFE (Citizen Science MONitoring) che ha coinvolto i cittadini nello studio, nella gestione e nella conservazione della biodiversità, ha permesso il monitoraggio di specie con poco appeal e tanto bisogno di protezione come l’ululone appenninico, un rospo inserito nella lista rossa della IUCN tra le specie minacciate.
Anche una buona comunicazione della scienza può giocare un ruolo chiave. Nel 2012, nel Regno Unito, il biologo e presentatore televisivo Simon Watt ha fondato la Ugly Animal Preservation Society che ha promosso una serie di serate di stand-up comedy per focalizzare l’attenzione degli spettatori sulla salvaguardia degli animali «brutti». Questi eventi sono stati solo l’inizio di un movimento che ha coinvolto scuole e università, per far conoscere specie ancora poco note e non proprio fotogeniche.
Nell’immagine di copertina una femmina di cervo dalla coda bianca in compagnia di due piccoli (immagine: Tony Campbell via Shutterstock)
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Al primo posto nella lista rossa delle specie a rischio della IUCN ci sono le cicadine tra le specie vegetali, seguite dai coralli e dagli anfibi tra gli animali (fonte: IUCN Red List)
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Esemplare di panda gigante allo zoo di Atlanta (immagine: WIkipedia)
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Esemplare di ululone appenninico (immagine: Wikipedia)
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Un koala dorme in un parco a Cairns, in Australia (immagine: Wikipedia)