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Pesticidi in Italia, fra percezione e realtà

Dagli anni Novanta le tonnellate di agrofarmaci impiegate sono dimezzate, ma la percezione comune è che siano in aumento costante e incontrollato

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Si chiamano agrofarmaci o prodotti fitosanitari, ma sono noti al pubblico come pesticidi, dall’inglese pesticides, cioè «uccisori di pesti». In agricoltura sono usati per eliminare le erbe infestanti dai campi coltivati, come pure per difenderli da parassiti e malattie che altrimenti ne farebbero scempio. Insieme ai fertilizzanti, alla genetica e alla meccanizzazione agraria, i prodotti fitosanitari hanno quindi moltiplicato le rese agricole, permettendo di soddisfare una domanda di cibo in forte crescita rispetto a un secolo fa.

In Italia all’inizio del Novecento viveva una popolazione di 38 milioni di abitanti, che poteva contare su 24-25 milioni di ettari coltivabili. Oggi siamo poco sotto i 59 milioni e la superficie agricola utilizzabile si è dimezzata, scendendo a circa 12 milioni e mezzo di ettari. In sostanza, si è passati da 6300 metri quadri pro capite di terra coltivata a poco più di 2100. Detta in altri termini, ogni abitante della nostra penisola può contare oggi su un terzo dei campi coltivati rispetto ai suoi bisnonni e trisnonni.

Dati oggettivi e fake news sull’uso di agrofarmaci

Sulla base di questi dati, non dovrebbe stupire la specializzazione colturale sempre più spinta, cioè la scelta di un numero limitato di varietà molto produttive da coltivare, come pure la ricerca di innovazioni negli strumenti e nelle tecniche di coltivazione. L’obiettivo è uno solo: moltiplicare le rese. Norman Borlaug, agronomo americano padre della Rivoluzione Verde e vincitore del premio Nobel per la pace del 1970, ricordava che nel 2000 le rese del frumento fossero praticamente triplicate rispetto ai primi anni Cinquanta, mentre le superfici mondiali destinate a grano fossero rimaste praticamente uguali.

Tradotto in superfici, se oggi coltivassimo ancora il frumento con le tecnologie del 1950, dovremmo dissodare il triplo della superficie attuale. Un aumento di ettari mostruoso, pari alla somma di Canada e Messico insieme: un impatto per l’ambiente ovviamente insostenibile. E questo solo per il grano.

Come hanno dimostrato gli studi sulla chemofobia, esiste nell’opinione pubblica l’idea che si faccia un uso smodato di agrofarmaci. Anzi, che ce ne sia un vero e proprio abuso. Ma le reali dimensioni della chimica agraria sfuggono alla quasi totalità dei non addetti ai lavori. Di fatto, i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) ci dicono che gli usi in Italia si sono dimezzati rispetto a trent’anni fa: dalle 100 596 tonnellate di sostanze attive del 1990 si è scesi alle 50 345 tonnellate del 2021. Oltre a diminuire in quantità assolute applicate, tra il 2000 e il 2020 si è dimezzato anche il numero stesso di sostanze attive disponibili. Nello stesso periodo di tempo anche i quantitativi di formulati commerciali sono calati di oltre il 40% in volume. È bene ricordare infatti che i formulati, oltre a contenere le sostanze attive, cioè le molecole che combattono malattie e parassiti, presentino diversi coformulanti atti a migliorarne la solubilità, la conservabilità e l’efficacia. Si tratta per lo più di acqua, argille e oli vegetali.

In Italia si adoperano quindi 850 grammi di sostanze attive pro capite. Ma le narrazioni sull’uso di questi prodotti sono spesso fuorvianti e lasciano intendere un uso massiccio e per giunta in crescita. Nel 2021 alcuni media diffusero la falsa informazione secondo la quale in Veneto si adopererebbe un metro cubo a testa di pesticidi. 1000 kilogrammi, una tonnellata, ovvero quasi 270 volte gli usi pro capite reali che si registrano in quella regione. Normale quindi che, leggendo numeri così esorbitanti, la popolazione locale si senta assediata dai pesticidi.

Il confronto impari tra Italia e Unione europea

I recenti obiettivi fissati dall’Unione europea hanno proposto un’ulteriore riduzione del 62% nelle tonnellate di agrofarmaci impiegate nel nostro paese entro il 2030. Una percentuale superiore persino al già ambiziosissimo obiettivo medio del –50% fissato inizialmente da Bruxelles per tutti gli Stati membri. La riduzione del 62% nasce dal fatto che in Italia si applicherebbero mediamente 5,7 kilogrammi di sostanze attive per ettaro contro una media europea di 3,8 kg/ha. Questa differenza poggia su ragioni oggettive, legate ai tipi di coltivazioni presenti sul nostro territorio: rispetto agli altri Stati membri della Comunità europea, l’Italia mostra il 18,4% della superficie agraria con presenza di colture permanenti, cioè vite e frutticole, contro il 7,4% della media Ue. Ovvero molto più del doppio. Viceversa, ha il 52,8% di seminativi (cereali, legumi) contro il 61,4% della media Ue. E il 28,8% di prati-pascoli contro il 31,2% medio europeo.

Difendere un ettaro di vigneto richiede una quantità di sostanze pari a 40 volte quelle necessarie a difendere un ettaro di frumento, poiché la difesa fitosanitaria è molto più lunga e complessa. Peraltro, l’80% degli agrofarmaci impiegati in viticoltura sono rappresentati da zolfo (69%) e fungicidi rameici (11%), entrambi previsti dai protocolli di difesa biologica. Simile situazione anche sul melo, per il quale con un solo trattamento di polisolfuro di calcio, prodotto autorizzato anch’esso in biologico, si applicano circa 24 kg/ha già in pre-fioritura.

In Italia si usano quindi i prodotti necessari alla difesa delle colture esattamente come si fa in tutti gli altri paesi della Comunità europea. Solo che le battaglie fitosanitarie da sostenere sono molto più aspre di quelle combattute oltre confine. Motivo per il quale appaiono sterili e talvolta strumentali i confronti fra le diverse agricolture continentali.

immagine di copertina: Franck Barske via Pixabay

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Tra il 2011 e il 2020 l’Italia ha ridotto del 20% la quantità di pesticidi, mentre Francia, Germania, Austria e Lituania hanno aumentato i consumi (dati Eurostat)