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Il pregiudizio di genere in archeologia

Fino a pochi decenni fa le tombe di guerrieri sembravano appartenere solamente a uomini. Ma studi più recenti dimostrano che non è così.

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Birka è un antico insediamento della civiltà vichinga. Si trova all’odierna Björkö, letteralmente “isola delle betulle”, nei pressi di Stoccolma, e per secoli è stato un centro di commercio importante tra diversi insediamenti vichinghi sul Mar Baltico. Durante una campagna di scavi archeologici degli anni Settanta dell’Ottocento, Hjalmar Stolpe individuò una camera funeraria di tre metri e mezzo per quasi due all’interno della quale era sepolta in posizione seduta una persona vestita di seta e argento.
Accanto al corpo sono stati trovati anche una spada, un'ascia, una lancia, frecce, un coltello da battaglia, due scudi e due cavalli: ritrovamenti che hanno fatto pensare fin da subito di trovarsi di fronte alla tomba di un’importante figura guerriera risalente al X secolo.

La notizia della scoperta fece rapidamente il giro di tutto il mondo accademico e venne presentata come una sepoltura iconica di un guerriero dell’epoca vichinga. Peccato che non fosse un uomo, ma una donna.

Un pregiudizio lungo 130 anni

Per la comunità scientifica del tempo era semplicemente inconcepibile che chi combatteva o aveva comunque compiti guerreschi potesse essere una donna. Sarebbe stato in contrasto con la concezione dell’epoca per cui era naturale che esistessero compiti riservati agli uomini, come quello di soldato, e altri riservati alle donne. Alla base di questa distinzione di ruoli all’interno della società c’erano pregiudizi sulle diverse capacità di uomini e donne che sono alla base anche di stereotipi come il “sesso debole” e il “sesso forte”. Sono pregiudizi ancora vivi anche all’interno delle società più avanzate, sebbene in molti casi sia stato dimostrato scientificamente che non hanno alcun fondamento scientifico.

Nel caso della sepoltura di Birka, già negli anni Settanta del Novecento sorsero alcuni dubbi sul fatto che il corpo appartenesse a un uomo. A non convincere era la forma delle ossa del bacino, che sembravano avere la tipica conformazione di uno scheletro femminile. Tra le ipotesi più fantasiose che circolarono ci fu quella che suggeriva che nella tomba fossero finite le ossa di due individui, un maschio e una femmina, e che avessero finito per mescolarsi.

Tutto si chiarisce definitivamente nel 2017, quando sull’American Journal of Biological Anthropology un gruppo di ricerca pubblica i risultati dei test del DNA condotti sui resti del corpo sepolto: tutte le ossa appartengono allo stesso individuo di sesso femminile. La persona sepolta era una principessa guerriera che, come testimonia l’importanza della tomba, era a capo della propria comunità sia in tempo di pace che in tempo di guerra.

Eppure, come ricorda la giornalista e scrittrice Galatea Vaglio in un articolo scritto su Birka per Valigia Blu, documenti scritti dell’epoca vichinga che parlano di “donne con lo scudo” sono noti da tempo ed erano conosciuti anche all’epoca di Stolpe. Ma, come avviene quando lo sguardo è influenzato da una forte concezione pregiudiziale, è più facile cercare di adattare i fatti alla propria teoria che modificarla. Si arrivò addirittura al punto in cui, lo racconta un articolo del 2017 del New York Times, girava la voce che siccome nel gruppo di ricerca che aveva effettuato i test genetici c’erano molte donne, questo avrebbe influenzato il loro giudizio: volevano talmente tanto che nella tomba di Birka fosse stata sepolta una donna da alterare il risultato. Al punto che nel 2019, il gruppo di ricerca dovette tornare sull’argomento, respingendo punto per punto tutte le controversie sollevate.

Il bias di genere

La sepoltura di Birka è solo un esempio di come il bias di genere influisca sugli studi di archeologia. Secondo Galatea Vaglio, errori di questo tipo «sono legati al fatto che per la maggioranza della sua storia la ricerca archeologica è stata praticata da maschi occidentali bianchi appartenenti alle classi dominanti, [...] che assai spesso leggevano e interpretavano i dati dei loro scavi sulla base dei bias cognitivi che derivavano, appunto, da queste loro condizioni di partenza». Un problema, quindi, che si allarga anche oltre l’invisibilizzazione delle donne. Vaglio ricorda le matrone romane, per esempio, che erano anche gladiatrici o imprenditrici di successo, talvolta molto ricche.

Una delle dimostrazioni che il ruolo proiettato sui nostri antenati e le nostre antenate è in gran parte frutto di una costruzione socio-culturale di chi guarda i reperti la offre un recente articolo scientifico pubblicato su Science Advances e intitolato Female hunters of the early Americas. Il gruppo di ricerca guidato dall’Università della California a Davis ha effettuato un approfondito studio sui resti umani ritrovati a Wilamaya Patjxa, sulle Ande peruviane. Il sito archeologico ha conservato un corredo da caccia di 9 mila anni fa accanto allo scheletro di una donna di circa 17-19 anni, identificata come tale grazie all’analisi delle proteine dentali. Ma, si sono chiesti gli studiosi, è un’eccezione o la regola?

Così si sono messi sulle tracce di altre sepolture sia nell’America Meridionale che in America Settentrionale. Il risultato dell’indagine, ricostruito anche da un articolo (in italiano) della rivista storica del National Geographic, è che tra i 429 individui trovati in 107 sepolture differenti risalenti al periodo tra 13 mila e 8 mila anni fa, sono state sicuramente identificate 27 persone sepolte con il proprio corredo da caccia: 16 uomini e 11 donne. Come si legge nell’articolo scientifico, «questo dato è sufficiente per concludere che la partecipazione femminile alla caccia di animali di grossa taglia non era qualcosa di sporadico». La stima è che in quei periodi la componente femminile del gruppo di cacciatori si aggirasse attorno al 30% del totale. E, con ogni probabilità, era vero anche il contrario, cioè che gli uomini attendevano a faccende che sono tradizionalmente attribuite alle sole donne, come la concia delle pelli e l’accudimento dei bambini.

Nell’immagine di apertura l'Amazzonomachia, tema iconografico della guerra tra i Greci e le Amazzoni. Rilievo di un sarcofago datato al 180 a.C. circa e rinvenuto a Salonicco nel 1836; ora conservato al museo del Louvre nel "Dipartimento delle Antichità greche" (immagine: Wikipedia)
Birka warrior

Disegno della tomba ritrovata a Birka da Hjalmar Stolpe, pubblicato nel 1889 (immagine: Wikipedia)