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Quanto inquina la moda?

Consumo di risorse idriche, produzione di microplastiche, inquinamento del suolo: andiamo alla scoperta del costo ambientale dell’industria tessile

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Quando pensiamo agli impatti ambientali dell’industria – in termini di emissioni di gas serra, consumi di risorse naturali e contaminazione dei fiumi e dei mari – di solito non è il nostro guardaroba la prima cosa che ci viene in mente. Eppure, il settore della moda è tra i più inquinanti al mondo. Le emissioni di gas serra dell’industria tessile superano quelle dei trasporti aerei e navali. Per produrre una singola maglietta di cotone si consumano 2.700 litri d’acqua dolce, la stessa quantità che in media una persona beve in due anni e mezzo. E se la medesima maglietta è fatta invece di fibre sintetiche come il poliestere (una plastica ricavata dai combustibili fossili), durante il lavaggio disperderà un’incredibile quantità di microplastiche destinate a contaminare gli oceani, con gravi danni alla fauna marina.

È il lato oscuro, ancora poco noto, dell’industria della moda (fashion, in inglese), a cui contribuiamo, spesso in modo inconsapevole, comprando più vestiti di quanti ne abbiamo davvero bisogno e cambiandoli più spesso del necessario. Fare luce sugli impatti ambientali dell’abbigliamento è sempre più importante, perché se è vero che negli ultimi anni si è diffusa una maggiore consapevolezza, soprattutto fra i più giovani, al tempo stesso le sirene del fast-fashion (la «moda veloce» basata sull’acquisto compulsivo di vestiti a basso costo e scarsa qualità) stanno spingendo verso un pericoloso incremento dei consumi.

L’aumento di produzione e rifiuti

Compriamo sempre più vestiti, che durano sempre meno e che cambiamo sempre più spesso, finendo per intasare le discariche di mezzo mondo e inquinando gli ecosistemi. Lo dimostrano i dati sulla produzione tessile elaborati dall’Agenzia europea per l’ambiente. Negli ultimi due decenni, infatti, tra il 2000 e il 2020, la produzione globale di fibre tessili è quasi raddoppiata, passando da 58 a 109 milioni di tonnellate. Come se non bastasse, le previsioni dicono che si arriverà a 145 milioni di tonnellate entro il 2030.

Con l’aumento della produzione, aumentano anche i rifiuti. Ogni anno, in media, un cittadino europeo dismette circa 11 chilogrammi di indumenti e altri prodotti tessili che gran parte, circa l’87%, vengono inceneriti o finiscono in discarica, rilasciando sostanze inquinanti nel terreno, nell’aria e nelle falde acquifere. Nel mondo, meno dell’1% degli abiti usati viene riciclato per confezionare nuovi capi d’abbigliamento. Il riciclo dei vestiti è infatti un processo molto complicato, soprattutto nel caso di indumenti confezionati con un mix di fibre naturali e sintetiche, che risultano molto difficili da separare.

Il consumo di acqua

La produzione tessile, inoltre, richiede enormi quantità di risorse naturali. Secondo stime del 2020, in Europa l’industria della moda è al terzo posto per consumo di suolo e acqua potabile e al quinto per impiego di materie prime. Nello stesso anno, per vestire ciascun cittadino europeo è stato necessario impiegare 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di suolo e 391 chilogrammi di materie prime.

Il consumo di risorse idriche nel settore dell’abbigliamento è davvero impressionante. Basti pensare che servono circa 10.000 litri d’acqua per coltivare un chilogrammo di cotone con cui confezionare un paio di jeans, circa lo stesso quantitativo d’acqua che una persona beve in 10 anni. Nel complesso, a seconda delle stime, l’industria tessile consuma tra 20.000 e 200.000 miliardi di metri cubi di acqua all’anno. La coltivazione industriale del cotone necessita inoltre di pesticidi e fertilizzanti che, insieme ai coloranti usati nella fabbricazione degli indumenti, contribuiscono alla contaminazione delle risorse idriche. A livello globale, si stima che l’industria dell’abbigliamento sia responsabile del 20% dell’inquinamento delle acque potabili.

Le emissioni di gas serra

Il settore della moda ha grandi responsabilità anche nella crisi climatica. Secondo le Nazioni Unite, sarebbe infatti responsabile dell’8-10% delle emissioni globali di gas serra. Fabbricare una singola t-shirt di cotone, per esempio, comporta l’emissione di 2,7 chilogrammi di CO2. Oggi, tuttavia, la maggior parte delle fibre che compongono i nostri vestiti non è di origine naturale bensì artificiale. Nei capi di abbigliamento la presenza di fibre sintetiche come poliestere e nylon ha già superato quella di lana e cotone. E se da un lato i capi sintetici non richiedono coltivazioni e allevamenti, consumando così meno acqua e suolo, dall’altro si tratta di polimeri ricavati dai combustibili fossili che aggravano il riscaldamento del pianeta.

Le fibre sintetiche, inoltre, hanno un ruolo importante nell’inquinamento dei corsi d’acqua e degli oceani. Si stima infatti che ogni anno il lavaggio di indumenti sintetici rilasci nell’ambiente mezzo milione di tonnellate di microfibre (l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica), contribuendo così a un terzo delle microplastiche disperse in natura. Un singolo ciclo di lavaggio di abbigliamento in poliestere può rilasciare 700.000 fibre di microplastiche.

Il fast-fashion

Le fibre sintetiche hanno consentito di produrre sempre più vestiti in meno tempo e a prezzi stracciati, esasperando molti dei problemi ambientali causati dall’industria dell’abbigliamento. Mentre tra il 2000 e il 2018 la produzione di fibre naturali è infatti rimasta sostanzialmente stabile, quella di fibre sintetiche, e in particolare di poliestere, è balzata da 25 a 65 milioni di tonnellate all’anno. E se in passato rammendare i vestiti per prolungarne la durata era una pratica molto comune, oggi nel settore della moda prevale l’usa e getta. Si compra sempre di più, ma si usa di meno: già tra il 2000 e il 2014, la produzione di abbigliamento era raddoppiata, con un incremento del 60% dei capi acquistati, che però venivano conservati per la metà del tempo.

Nell’ultimo decennio questa tendenza è stata esasperata dal fast fashion, che si basa sulla produzione di massa e sull’acquisto compulsivo di capi d’abbigliamento a basso costo e di scarsa qualità, spesso destinati a essere indossati poche volte prima di essere buttati. Se un tempo l’industria della moda lanciava quattro collezioni all’anno, in corrispondenza dei cambi di stagione, oggi accade quasi ogni settimana. Poiché inoltre la maggior parte delle microplastiche degli indumenti sintetici viene rilasciata al primo lavaggio, il continuo acquisto di nuovi capi incentivato dal fast fashion non fa che amplificare anche l’inquinamento.

Nonostante l’espansione della moda veloce, anche grazie alle campagne di social media marketing di grandi marchi come Shien, Temu, Zara e H&M, negli ultimi anni è aumentata anche la consapevolezza degli impatti ambientali e sociali di questa forma estrema di consumismo. Diverse organizzazioni non governative come Labour behind the label sostengono apertamente che i bassi costi della moda veloce sono possibili solo attraverso lo sfruttamento dei lavoratori nei Paesi più poveri, costretti ad operare in condizioni insicure in cambio di stipendi da fame. In reazione al fast fashion, negli ultimi anni si sono così diffuse numerose iniziative dal basso come mercatini di abiti usati o dedicati al vintage che coinvolgono soprattutto i consumatori più giovani e attenti alla sostenibilità.

Verso un’economia circolare

Sul piano istituzionale, invece, l’Unione Europea intende contrastare gli impatti negativi del fast fashion adottando una serie di misure per ridurre gli sprechi nel settore della moda, estendere il ciclo di vita dei capi d’abbigliamento e favorire il riciclo dei tessuti. Queste misure faranno parte integrante di un piano d’azione concepito per adottare un modello di economia circolare entro il 2050.

A differenza dell’economia lineare, in cui le merci sono prodotte, consumate, buttate e sostituite seguendo un flusso lineare che porta inesorabilmente all’accumulo di rifiuti, l’economia circolare punta invece sul riuso e sul riciclo per allungare la vita media delle merci, ridurre il prelievo di risorse naturali e l’inquinamento. Nell’economia circolare i beni di consumo, inclusi i vestiti, sono progettati per essere usati più volte, durare più a lungo e agevolare il recupero dei materiali: l’esatto contrario dell’usa e getta.

Le strategie della Commissione Europea intendono anzitutto incentivare la produzione di vestiti progettati appositamente per facilitare il riuso, la riparazione e il riciclo (moda circolare), e sensibilizzare i consumatori europei affinché riducano gli acquisti e scelgano capi d’abbigliamento più durevoli (moda sostenibile).

Nel giugno 2023 il Parlamento europeo ha proposto anche misure più rigide per limitare la produzione e il consumo nel settore tessile, chiedendo al contempo il rispetto dei diritti umani dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e del benessere degli animali. Lo scorso marzo i parlamentari europei hanno infine espresso l’intenzione di modificare le norme sui rifiuti tessili per ridurre gli sprechi nel settore della moda, introducendo la responsabilità estesa dei produttori di abbigliamento, calzature e altri prodotti tessili per la casa, che in futuro, se le nuove norme saranno approvate, saranno obbligati a coprire i costi della raccolta differenziata, dello smistamento e del riciclo.

Fai la tua parte

Se le soluzioni sistemiche a un problema complesso come l’inquinamento del settore della moda non possono che discendere da una regolamentazione della produzione tessile, anche le scelte individuali possono contribuire in modo significativo a indirizzare l’industria dell’abbigliamento verso la sostenibilità. In definitiva, se parliamo di abitudini di acquisto, sono i consumatori ad avere l’ultima parola. Ecco dunque cinque consigli per fare la tua parte.

Compra meno vestiti. Prima di acquistare un abito nuovo chiediti se ti serve davvero. Comprare meno capi d’abbigliamento è il modo più efficace per ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale della moda.

Scegli la qualità. Quando acquisti un vestito, scegli un prodotto di buona qualità che possa durare più a lungo. Oppure considera l’acquisto di un vestito di seconda mano. Evitando il fast fashion, la sostenibilità si può anche indossare.

Fai attenzione all’etichetta. Gli indumenti sintetici in nylon o poliestere sono fabbricati con plastica derivata dal petrolio. Meglio dunque i vestiti in fibre naturali come lana e cotone, soprattutto se prodotte con coltivazioni biologiche e allevamenti rispettosi del benessere animale.

Meglio condividere che acquistare. Organizza una giornata di scambio di vestiti con i tuoi amici o con i compagni di scuola. Avrai qualcosa di nuovo da indossare senza bisogno di spendere soldi.

Non buttare, dona. Se un vestito che non usi è ancora in buono stato, donalo a un ente di beneficenza. Donando ciò che a te non serve più, eviti che diventi un rifiuto e puoi aiutare altre persone.

immagine di copertina: Becca McHaffie via Unplash

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Rifiuti tessili, Cambogia (immagine: Francois Le Nguyen via Unplash)

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L’impatto ambientale dell’industria tessile nell’Unione Europea (immagine: Agenzia europea dell’ambiente (AEA), 2023)

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La produzione tessile a livello globale (immagine: Agenzia europea dell’ambiente (AEA), 2023)

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Stima del consumo pro-capite di abbigliamento, calzature e altri prodotti tessili per la casa nell’Unione Europea, in chilogrammi, nel 2020 (immagine: EEA and European Topic Centre on Circular Economy and Resource Use)