L'Italia è un paese sismico, ma spesso ci scordiamo che viviamo nel paese europeo che, dopo l'Islanda, ospita più vulcani. Non si tratta di un caso: la "faccia" del nostro pianeta, dalla posizione dei continenti alla nascita delle montagne, è determinata dal comportamento delle placche tettoniche, e la nostra penisola si trova proprio sul margine di convergenza tra la placca africana e quella eurasiatica. Lungo questi margini i movimenti della litosfera favoriscono sia la genesi dei terremoti, sia la risalita dei magmi e di conseguenza il vulcanismo. L'Italia deve quindi fare i conti con il rischio e il pericolo vulcanico, ma di che cosa si tratta? Lo spiega ad Aula di Scienze Sonia Calvari, vulcanologa e dirigente di ricerca all'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia a Catania.
Che cosa si intende con rischio vulcanico?
Bisogna prima di tutto fare una distinzione tra pericolosità e rischio, che non sono sinonimi. Si tratta di due grandezze diverse (P e R), che sono messe in relazione dalla formula:
R = P x V x E
dove V è la vulnerabilità (per esempio quanto un edificio è ben costruito) ed E l'esposizione (in pratica, quante persone o beni possono essere danneggiati in una certa area). La pericolosità (P), nel caso dei vulcani, si può definire come la capacità che ha un vulcano di modificare l'ambiente intorno a sé. Il rischio è invece la probabilità che queste manifestazioni (tipicamente le eruzioni) danneggino la popolazione in termini di perdite umane o di danni materiali. I vulcanologi dell'INGV fanno studi e valutazioni di pericolosità, in quanto essa dipende direttamente dalla conoscenza delle caratteristiche fisiche del vulcano. Le nostre valutazioni sono poi utilizzate da altri professionisti per quantificare il rischio e mitigarlo. La principale istituzione a occuparsi dei rischi, tra cui quello vulcanico, è la Protezione Civile.
Ma è possibile prevedere un'eruzione?
Dipende di quale vulcano si tratta. Etna e Stromboli sono due vulcani ad attività persistente, perché mostrano esplosioni pressoché continue nella parte più alta (le bocche sommitali). Questo significa che sappiamo moltissimo sul loro comportamento e possiamo prevedere una loro eruzione con un ottimo margine di incertezza. Nonostante ciò, possono comunque coglierci di sorpresa. Per esempio, nel 2004-2005 l'Etna ha ripreso l'attività eruttiva senza gli usuali segnali precursori. L'eruzione, debole se paragonata alle altre, è stata di tipo passivo: sul fianco orientale una parte del vulcano ha "ceduto" su sé stessa aprendo una via di uscita al magma. Non c'è stata quindi una nuova alimentazione del serbatoio magmatico; ciò spiega l'assenza di segni premonitori. La situazione è molto diversa nel caso dei vulcani quiescenti, cioè quelli che hanno eruttato entro gli ultimi 10.000 anni. Questi vulcani sono attivi, ma si trovano ora in una fase di riposo: esistono quindi pochissimi dati, perché le eruzioni sono troppo poco frequenti per permettere previsioni precise. Per esempio, il Vesuvio ha eruttato l'ultima volta nel 1944, e prima ancora nel 1906. Se anche, per assurdo, avessimo avuto allora le apparecchiature che abbiamo oggi, stiamo parlando di due soli eventi negli ultimi 112 anni. Nel caso invece dei Colli Albani, nel Lazio, nessuno scienziato ha mai assistito a un eruzione, quindi le possiamo studiare solo indirettamente.
Come si studiano i vulcani italiani?
L'INGV studia tutti i vulcani italiani, e utilizza diversi sensori per monitorare in ogni momento le condizioni del vulcano. La rete di sensori principale è quella sismica, per esempio l'Etna ha circa 60 stazioni che rilevano i terremoti che si verificano sul vulcano. Questi dati, costantemente pubblicati sui siti dell'Istituto, sono poi interpretati dagli scienziati per dedurre il comportamento del vulcano. Per misurare le deformazioni del suolo si usano il GPS (Global Positioning System, che dà la posizione precisa di un punto usando i satelliti), i clinometri (che misurano l'inclinazione tra due punti), e anche delle telecamere. Tutti questi strumenti possono essere fissi, nel qual caso registrano e inviano continuamente dati, oppure portatili, cioè distribuiti a seconda delle esigenze. Nei vulcani ad attività persistente si registrano anche delle immagini termiche. Esiste un altro strumento estremamente preciso, chiamato dilatometro, che ha rivoluzionato lo studio dei vulcani. Si tratta di un cilindro ripieno di liquido, calato in un pozzo profondo qualche centinaio di metri (per evitare le variazioni termiche superficiali) e cementato in modo che le rocce circostanti siano a diretto contatto con lo strumento. Quando il terreno si deforma, preme sulle pareti del cilindro e il livello del liquido cambia: grazie a questo strumento è possibile avere dati anche su episodi molto rapidi, per esempio le fontane di lava. Un'altra importante classe di sensori riguarda invece la misura dei flussi di gas. Tra questi particolarmente importante è il livello di biossido di zolfo (SO2) perché è uno dei segnali associati alle eruzioni. Oltre a questo monitoraggio in tempo reale, i vulcani sono studiati anche prelevando campioni del materiale eruttato e svolgendo analisi chimiche e petrologiche.
In che modo il lavoro dell'INGV permette di mitigare il rischio vulcanico?
L'INGV ricava dallo studio del vulcano una serie di conoscenze che poi vengono usate da altri enti. Un esempio riguarda il problema delle ceneri vulcaniche dell'Etna e dello Stromboli. La cenere infatti costituisce un pericolo per gli aerei, sia per la visibilità che per il funzionamento dei motori, ma causa anche molti altri problemi. Si deposita sulle strade ostacolando la circolazione e si accumula sui tetti delle case dove, specialmente se appesantita dalla pioggia, mette a rischio la stabilità degli edifici. La cenere vulcanica causa inoltre problemi di respirazione. Per l'Etna e lo Stromboli l'INGV non solo è in grado di prevedere con buona approssimazione l'eruzione, ma si occupa anche di prevedere il comportamento delle ceneri, usando per esempio degli speciali radar che ne rivelano la granulometria e producono delle simulazioni computerizzate. In questo modo l'aviazione e la Protezione Civile, che a sua volta ha i dati rilevati dalla propria strumentazione, hanno le informazioni che servono per minimizzare i rischi per persone e beni. Grazie a queste conoscenze, acquisite con l'eruzione etnea del 2001 e del 2002-2003, adesso l'aeroporto di Catania può rimanere aperto anche se c'è un evento eruttivo. Per Vesuvio, Etna e Campi Flegrei sono inoltre state realizzate delle mappe del rischio vulcanico, che indicano le aree a maggiore probabilità di subire un impatto dall'attività vulcanica.
Che cosa rimane ancora da fare in Italia?
In Italia non c'è una buona percezione del rischio vulcanico, eppure siamo una delle ragioni che ne è maggiormente interessata. Non si tratta comunque di un tipo di rischio facilmente gestibile. Per esempio quando nel 1983 il terreno dei Campi Flegrei si è alzato di quasi due metri durante il bradisismo, si temeva un'eruzione e occorreva decidere se evacuare la zona interessata. Poi non è successo nulla, ma i Campi Flegrei sono ancora abitati e il piano di emergenza è ora in via di aggiornamento. Sicuramente, dal punto di vista del lavoro dell'INGV bisognerebbe ampliare la rete di monitoraggio. Esistono almeno 10 vulcani attivi in Italia, ma di alcuni, per esempio i Colli Albani, sappiamo davvero pochissimo. Anche quelli sottomarini, come il Marsili, sono meno studiati a causa dei costi necessari per studiare un vulcano a 2.000 metri sotto il livello del mare Tirreno. Ma uno dei principali problemi riguarda gli scienziati dell'INGV. La maggior parte è precaria e non più giovane, mentre avremmo bisogno sia di stabilità, sia di nuovi scienziati in grado di svolgere il lavoro sul terreno, che è ancora molto.
-- Immagine in apertura: eruzione dell'Etna, 13 gennaio 2011 By Cirimbillo (Own work) [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) or GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], via Wikimedia Commons Immagine box: Simon via Pixabay