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La salute del mare è in pericolo

Più studiamo gli ecosistemi marini, più scopriamo che l’ombra dell’Antropocene si estende ormai anche nelle profondità oceaniche.

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Le profondità oceaniche sono per noi in gran parte un mistero. Come ha osservato Morten A. Strøksnes nel saggio “Il libro del mare” (Iperborea, 2017), conosciamo meglio la superficie della Luna dei fondali marini e abbiamo mandato più astronauti nello spazio che esploratori negli abissi, dove molte specie viventi – forse più numerose di quelle terrestri – sono ancora da scoprire.

Paradossalmente molte di queste creature marine rischiano di scomparire ancora prima di essere scoperte. Gli impatti ambientali delle attività umane, infatti, sebbene siano di gran lunga più visibili sulla terraferma, hanno ripercussioni importanti anche sugli organismi che vivono nei mari e negli oceani.

Mari sempre più caldi

Un primo sintomo eloquente è la “febbre” del mare. Secondo una ricerca appena pubblicata, il 2021 è stato l’anno più caldo da quando misuriamo la temperatura degli oceani. Il record precedente spettava al 2020, che a sua volta aveva battuto il primato del 2019. Non dovrebbe sorprendere: come una gigantesca spugna, mari e oceani assorbono oltre il 90% del calore prodotto dal riscaldamento globale. Senza di loro, oggi la temperatura dell’aria sarebbe più calda di 33°C e il pianeta sarebbe in gran parte inabitabile.

Dagli anni Settanta la temperatura media degli oceani è aumentata di circa 0,1°C ogni decennio. In termini climatici è un mutamento molto rapido che rischia di stravolgere gli ecosistemi marini. Molti impatti sono del resto già visibili: le calotte polari arretrano, il livello medio dei mari si alza, l’acqua diventa più acida e povera di ossigeno, le barriere coralline scompaiono, i pesci tropicali colonizzano le aree temperate sempre più calde, mentre sulle coste si abbattono inondazioni e cicloni più violenti.

Di recente si è inoltre scoperto che, in modo speculare a quanto sperimentiamo ogni estate sulla terraferma, il riscaldamento globale intensifica le cosiddette ondate di calore marine, con gravi rischi per la biodiversità. Si tratta di periodi di tempo prolungati (almeno cinque giorni) in cui la temperatura dell’acqua raggiunge valori estremi. A soffrirne di più sono le barriere coralline caraibiche, le foreste di kelp al largo della California e i fondali australiani di erbe di mare. Gli scienziati paragonano l’impatto delle ondate di calore alla devastazione di un incendio nella foresta, perché la perdita di questi preziosi habitat mette in pericolo molte altre specie marine.

Secondo l’IPCC, se non riusciremo a contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 2°C, oltre il 99% delle barriere coralline scomparirà. Nel corso della nostra esistenza rischiamo perciò di assistere alla distruzione di un ecosistema di vitale importanza perché le barriere coralline offrono nutrimento e riparo a moltissime specie di pesci e altre creature, da cui dipende anche la nostra sicurezza alimentare, oltre che una protezione naturale dalle inondazioni.

Acque più acide

L’aumento delle temperature non è però l’unico effetto negativo del riscaldamento globale sugli ecosistemi marini. Gli oceani assorbono infatti circa un terzo delle emissioni antropiche di CO2 e questo ha innescato un pericoloso processo di acidificazione delle acque che minaccia molti organismi alla base della catena alimentare: molluschi, crostacei, coralli, krill e microalghe del plancton.

Disciolto in acqua, il diossido di carbonio (CO2) forma infatti acido carbonico (H2CO3) che acidifica l’ambiente marino e ostacola la sintesi del carbonato di calcio (CaCO3) con cui molluschi e crostacei formano i loro gusci e i loro rivestimenti calcarei. L’acidificazione può inoltre indebolire gli scheletri dei coralli e interferire con le funzioni vitali del fitoplancton, l’insieme degli organismi che producono ossigeno e sostanze organiche con la fotosintesi, con gravi ripercussioni sull’intero ecosistema.

Dalla rivoluzione industriale a oggi, a causa delle crescenti emissioni di CO2 prodotte nella combustione di carbone, gas e petrolio, l’acidità delle acque marine è aumentata del 26%, con una rapidità cento volte maggiore rispetto alle variazioni naturali avvenute negli ultimi 55 milioni di anni. E mentre alcuni pesci e altre specie marine possono sfuggire all’aumento delle temperature migrando verso zone più fredde, nessuna potrà evitare gli effetti a catena dell’acidificazione dei mari e degli oceani.

Manca l’ossigeno

Un secondo effetto sugli equilibri chimici del mare, meno conosciuto ma altrettanto preoccupante, è la perdita di ossigeno delle acque (o deossigenazione). Dalla metà del Novecento gli oceani hanno perso circa il 2% del contenuto di ossigeno, pari a circa 77 miliardi di tonnellate. Si stima inoltre che la riduzione di questo elemento essenziale per la vita marina potrebbe arrivare al 3-4% entro fine secolo. Già oggi le cosiddette zone ipossiche, dove la concentrazione di ossigeno è così bassa da mettere a rischio la sopravvivenza degli organismi acquatici, si sono espanse di 4,5 milioni di chilometri quadrati (una superficie pari a quella dell’Unione Europea) rispetto a cinquant’anni fa, mentre le zone anossiche, cioè del tutto prive di ossigeno, sono quadruplicate.

La deossigenazione è causata in gran parte da due effetti combinati: l’aumento delle temperature marine e l’eutrofizzazione. Al crescere della temperatura i gas diventano infatti meno solubili, cosicché più l’acqua del mare si scalda, meno ossigeno è in grado di trattenere. L’eutrofizzazione è invece dovuta al massiccio impiego di fertilizzanti artificiali in agricoltura. Una parte di queste sostanze a base di fosforo e azoto non viene infatti assorbita dalle piante e può accumularsi negli ecosistemi acquatici, causando una proliferazione abnorme di alghe e batteri che possono arrivare a consumare tutto l’ossigeno. Si creano allora delle “zone morte”, così chiamate perché, pur ricche di vita microbica, risultano inabitabili per i pesci e per molti altri organismi.

Sempre meno pesci

La crisi climatica non è però l’unica minaccia per gli ecosistemi marini. Negli ultimi decenni, la pesca eccessiva (in inglese, overfishing), effettuata con pescherecci di grande stazza e l’impiego di tecniche di cattura indiscriminata come la pesca a strascico, ha decimato molte popolazioni di pesci e di altre specie ittiche. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), circa il 34% degli stock ittici mondiali viene pescato in modo insostenibile, cioè così tanto e così in fretta che le popolazioni di pesci, crostacei e molluschi non hanno il tempo di ripristinarsi. Nel Mediterraneo si arriva addirittura al 62,5%.

Diverse ricerche avvertono che le popolazioni dei grandi predatori come tonni, pesci spada e merluzzi si sono già ridotte del 90%, confermando le testimonianze di molti pescatori, che raccontano di pesci sempre più piccoli in banchi sempre meno numerosi. Rischiamo così di perdere risorse alimentari di enorme importanza, da cui dipende il sostentamento di centinaia di milioni di persone.

Sempre più plastica, ma non solo

Un ulteriore pericolo deriva dall’inquinamento degli oceani, dovuto anzitutto ai rifiuti di plastica e ai ripetuti incidenti che coinvolgono petroliere e piattaforme per l’estrazione di idrocarburi dai fondali marini. Si tratta peraltro di problemi correlati, perché la plastica è prodotta in gran parte a partire dagli idrocarburi e contribuisce alla richiesta di combustibili fossili, che ancora oggi forniscono circa l’80% dell’energia consumata nel mondo e, al tempo stesso, sono la prima causa del riscaldamento globale. Si stima che a livello globale quasi l’80% dei rifiuti di plastica finisca nelle discariche o venga disperso direttamente nell’ambiente, dove può restare per decenni o persino secoli, perché questi materiali non sono facilmente biodegradabili.

La plastica dispersa negli oceani è ormai così abbondante da creare gravi danni agli ecosistemi. Gli oggetti più grandi possono infatti essere ingeriti dagli uccelli e dai mammiferi marini, oppure soffocare gabbiani, tartarughe e lontre. Mentre le cosiddette microplastiche – cioè i frammenti di diametro inferiore a 5 millimetri – sono ormai entrate nella catena alimentare: vengono ingerite dai pesci, dagli uccelli e dai mammiferi marini, accumulandosi negli organismi superiori, esseri umani compresi, con effetti ancora in gran parte sconosciuti. Si stima che ogni anno finiscano negli oceani tra 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate di plastica.

Prima che sia tardi 

Per quanto lo stato di salute del mare sia innegabilmente sempre più preoccupante, non tutto è ancora perduto: il mare ha una straordinaria forza rigenerativa e diverse esperienze mostrano che nelle riserve marine protette, dove la pesca è vietata, gli ecosistemi possono ripopolarsi in pochi anni. Grazie alla vastità e alla connessione di mari e oceani, infatti, è più difficile che il declino di una popolazione porti all’estinzione della specie. Per questo, oltre ai limiti alle catture introdotti da molti Paesi, gli ecologi ritengono necessario ampliare le riserve marine protette, che oggi coprono circa il 7% dei mari del mondo. Non è ancora abbastanza: l’obiettivo della Convenzione sulla biodiversità biologica di proteggere almeno il 10% degli oceani entro il 2020 non è stato raggiunto, mentre le associazioni ambientaliste chiedono di arrivare al 30%, creando più aree protette in prossimità delle coste, dove si trovano habitat cruciali come la barriere coralline.

Ridurre l’inquinamento da plastica è senz’altro possibile, ma oggi sappiamo che il riciclo non basta: le plastiche, infatti, non sempre possono essere riciclate e talvolta farlo non è conveniente dal punto di vista economico. A differenza del vetro o dell’alluminio, che si possono fondere per fabbricare altri prodotti della stessa qualità, la plastica tende infatti a degradarsi a ogni tentativo di riciclo. Per ridurre i rifiuti si dovrebbe perciò limitare la produzione di plastica, almeno per gli impieghi in cui esistono alternative più sostenibili, e vietare la plastica monouso, come si comincia fare nell’Unione Europea, abbandonando un modello di consumo basato sull’usa e getta per incentivare il riutilizzo dei materiali.

Infine, per mitigare il riscaldamento globale e contenerne l’impatto sugli ecosistemi non c’è altra via che ridurre le emissioni antropiche di gas serra, accelerando la transizione energetica dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili e fermando la distruzione degli habitat naturali in grado di assorbire grandi quantità di CO2: boschi e praterie che crescono sulla terraferma, ma anche le foreste costiere di mangrovie o le praterie di erbe marine come la Posidonia oceanica.

Salvare il mare e le creature che vi abitano è ancora possibile: sappiamo come fare, ma occorre agire in fretta perché, per quanto gli oceani possano sembrare sconfinati, la nostra capacità di stravolgerne gli equilibri è una cruda realtà con cui fare i conti in quest’epoca chiamata Antropocene.

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Piccoli residui plastici raccolti in una spiaggia (immagine: Shutterstock)

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Le barriere coralline sono un habitat per molti organismi bentonici (immagine: Shutterstock)

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La pesca eccessiva mette in pericolo molte specie ittiche perché il numero delle catture supera le capacità di ripristino delle popolazioni di pesci, crostacei e molluschi (immagine: Shutterstock)

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L’acidificazione degli oceani causata dal riscaldamento globale (immagine: da Scopriamo la chimica e le scienze della terra, Phelan, Zanichelli)

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Nel 2010 l’esplosione della piattaforma petrolifera Deep Water Horizon, nel Golfo del Messico, ha causato gravi danni ambientali (immagine: Wikipedia)

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Quanto dura la plastica in mare? (immagine: WWF)