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La scuola nell’era dell’economia della conoscenza

L’obbligo scolastico è stato introdotto per combattere l’analfabetismo, ma oggi le sfide sono analfabetismo funzionale e abbandono scolastico

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«La scuola è aperta a tutti». Così esordisce l’art. 34 della Costituzione con una formula particolarmente efficace che predilige il concreto (la scuola) all’astratto (l’istruzione).

Le porte delle scuole sono sempre aperte, per chiunque, perché ricevere un’istruzione rientra fra i diritti fondamentali della persona. Per assicurarsi che davvero tutti possano goderne, la Costituzione prevede che l’istruzione primaria sia gratuita (per evitare barriere economiche all’accesso) e obbligatoria (l’istruzione è un diritto-dovere):

L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

Con l’avverbio almeno i Costituenti hanno lasciato spazio per un ulteriore prolungamento dell’obbligo di istruzione. E così è stato.

Oggi la legge italiana prevede 10 anni di istruzione obbligatoria e gratuita, corrispondente alla fascia tra i 6 e i 16 anni. All’obbligo scolastico si aggiunge l’obbligo di frequentare attività formative fino all’età di 18 anni, o proseguendo gli studi o tramite la formazione professionale o un percorso di apprendistato (obbligo formativo).

Se guardiamo alla storia degli ultimi 150 anni, la durata dell’obbligo scolastico si è progressivamente allungata, in Italia e nel resto d’Europa. La tendenza a prolungare l’istruzione va di pari passo con l’avvento dell’economia della conoscenza e della quarta rivoluzione industriale, in cui il possesso di conoscenze avanzate e in costante aggiornamento diventa un fattore determinante.

La necessità di formazione si proietta perciò ben oltre l’età dell’obbligo, fino ad accompagnare l’intero arco della vita. Siamo forse alle soglie di un passaggio di testimone fra il vecchio obbligo di istruzione e il nuovo concetto di lifelong learning, un apprendimento permanente che prosegue ben oltre l’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola?

Proviamo a rispondere partendo con una retrospettiva sull’ultimo secolo e mezzo per arrivare alla situazione attuale e per provare a immaginare alcune possibili linee di sviluppo future.

Un esordio stentato

All’unificazione nazionale, nel 1861, gli italiani analfabeti erano il 77% con punte massime del 90% in Sardegna, Calabria e Sicilia. In Piemonte e Lombardia, dove si registravano i valori minimi, l’analfabetismo raggiungeva comunque il 57% e il 60%.

Percentuali in linea con quelle dell’Europa mediterranea e della Russia, ma enormemente superiori a quelle del Nord Europa, in cui la pedagogia luterana aveva vigorosamente promosso l’alfabetizzazione dei fedeli, strumento necessario alla lettura individuale della Bibbia, al libero esame delle Scritture.

In Italia nel 1859 la legge Casati aveva introdotto due anni di scuola elementare obbligatoria. La legge Coppino del 1877 li porterà a tre, nel tentativo rilanciare una scolarizzazione di massa ancora molto stentata.

In quegli anni, mentre l’obbligo continua a essere eluso da una gran parte di bambini, il ruolo chiave della scuola si imprime nell’immaginario collettivo con due veri e propri best seller della letteratura italiana, entrambi pubblicati negli anni Ottanta dell’Ottocento: Cuore di Edmondo De Amicis e Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi.

De Amicis condensa nelle vicende di una terza elementare torinese esempi di virtù civili, amor di patria e interclassismo paternalista. La figura del maestro è quella di un secondo padre («Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo»).

Collodi addita la scuola come via di redenzione e salvezza, col povero Geppetto pronto a immolare l’unico cappotto per comprare l’abbecedario a Pinocchio. Il quale, però, la diserta insieme al compagno Lucignolo e per questo viene punito con un’eloquente trasformazione in asino, per di più costretto a esibirsi nel circo come fenomeno da baraccone e infine destinato a fornire la pelle per fabbricare un tamburo.

L’obbligo si allunga, ma rimane sulla carta

Col nuovo secolo aumenta il bisogno di manodopera più formata e l’obbligo scolastico si allunga. Durante il secondo governo Giolitti, nel 1904, la legge Orlando lo eleva fino ai 12 anni.

Poco meno di vent’anni dopo (1923) sarà la riforma Gentile a prolungare l’obbligo fino ai 14 anni. Ma per tanti quell’obbligo rimane solo sulla carta. Il Paese è ancora profondamente rurale e in larga parte analfabeta. Molti bambini, soprattutto fuori dai centri urbani, a scuola non ci vanno affatto, oppure smettono dopo appena un paio d’anni per andare a lavorare.

Ma durante il Ventennio ad abbandonare precocemente la scuola non sono solo i figli delle famiglie più povere o delle zone depresse del Paese. Ce ne sono altri a lasciare il banco vuoto, per motivi di tutt’altro genere.

Dal 1938 bambini e ragazzi ebrei vengono espulsi dalle scuole italiane per effetto delle leggi razziali. Per loro l’obbligo di andare a scuola si trasforma nel suo opposto, il divieto di andarci. Così ricorda quei giorni la senatrice a vita Liliana Segre:

Era un giorno di fine estate del 1938 - racconta - Io ero a tavola con il mio papà e i miei nonni paterni, che poi finirono tutti ad Auschwitz. Ricordo le loro facce. Serie. Tirate. Preoccupate. Mai visti così. «Liliana, ti dobbiamo dire una cosa», mi disse papà. […] «Non potrai tornare a scuola, a ottobre. Sei stata espulsa».
Io non capivo. Sapevo che “espulsa” era una parola pesante. Per essere “espulsi” bisognava aver fatto qualcosa di grave. Di molto grave. Chiesi a mio padre che cosa avevo fatto, che cosa era successo. Mi rispose che c’erano delle nuove leggi, che le cose erano cambiate, che noi eravamo ebrei e che dunque non sarei potuta tornare alla mia scuola, la Ruffini di Milano, dove avrei dovuto iniziare la terza elementare. Non sarei più stata in classe con le mie compagne e con la mia maestra Bertani.
Quel giorno scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia laica, anzi di più, assolutamente non religiosa, direi proprio atea. Non avevo mai pensato di essere diversa dalle mie compagne di classe, dalle mie amiche di giochi. Invece quel giorno scoprii di essere ‘diversa’, che tutta la mia famiglia era ‘diversa’ e che questa “diversità”, non un mio comportamento, aveva provocato la mia espulsione da scuola.

L’era dell’alfabetizzazione di massa

La svolta verso l’alfabetizzazione di massa inizia negli anni Sessanta, con l’istituzione della scuola media unica nel 1963 e l’abolizione della scuola di avviamento professionale. La riforma riduce la percentuale di persone in possesso della sola licenza elementare.

A dare una mano arriva anche la televisione, che diffonde l’italiano standard in un paese largamente dialettofono e convince molti adulti analfabeti che “non è mai troppo tardi” per imparare a leggere e scrivere. Sono anni in cui la RAI interpreta con convinzione la missione pedagogica del servizio pubblico.

Nei decenni successivi la scolarizzazione procede a grandi passi, in parallelo con l’aumento del benessere e dello sviluppo del Paese.

A cavallo del nuovo millennio l’obbligo scolastico viene portato a 10 anni (riforma Berlinguer), e dopo qualche oscillazione (riforma Moratti) viene ribadito con la legge del 2006. Qualche anno dopo, un nuovo tentativo di riduzione dell’obbligo scolastico (riforma Gelmini) fallisce e il quadro si consolida nelle linee attuali.

Oggi l’obiettivo dell’alfabetizzazione di massa può dirsi raggiunto. L’analfabetismo in Italia è pressoché scomparso. Ma il cammino verso una istruzione di qualità, per usare le parole del Goal 4 dell’Agenda 2030, non è concluso. I problemi sul tavolo sono ancora molti.

I problemi aperti: dall’analfabetismo funzionale all’abbandono precoce

Nel Ventunesimo secolo il concetto di alfabetizzazione non si accontenta più del suo significato minimo, cioè saper leggere e scrivere. Richiede anche la capacità di comprendere ciò che si è letto.

E qui emerge un primo problema, quello dell’analfabetismo funzionale. Un problema che va a lambire i fondamenti della partecipazione democratica nell’era digitale, in cui l’opinione pubblica si forma sempre più in modo orizzontale, sui social.

Maggiore è il numero di persone che faticano nella comprensione del testo, o che stentano a interpretare frasi complesse o esprimere opinioni argomentate, maggiori sono i rischi di degenerazione del dibattito pubblico, di diffusione (anche involontaria) di fake news, di polarizzazioni cementate dall’incomprensione che annullano in radice la possibilità di un dialogo. Se la democrazia è government by discussion, la degenerazione del dibattito pubblico non può che metterne in tensione i meccanismi.

Secondo problema. Se è vero che oggi, in Italia, la gran parte dei bambini e delle bambine va scuola, è anche vero che una quota ancora troppo alta di loro la abbandona prima della fine dell’obbligo e/o senza aver conseguito un titolo di studio. Sono i cosiddetti early leavers. Ridurre l’abbandono scolastico è uno dei principali obiettivi a livello europeo, e purtroppo il nostro Paese è in affanno.

Nell’Unione europea l’abbandono scolastico è espresso dalla quota degli ELET (Early Leavers from Education and Training) rispetto alla popolazione dai 18 ai 24 anni. Sono giovani che hanno abbandonato precocemente scuola e formazione e si ritrovano, al massimo, con un titolo di studio secondario inferiore.

L’obiettivo dell’Unione era di portare gli ELET sotto il 10% entro il 2020, e sotto il 9% entro il 2030. L’Italia ha mancato il traguardo fissato per il 2020: due anni fa l’abbandono scolastico si attestava ancora al 13%, una delle percentuali più elevate d’Europa nonostante i notevoli progressi degli ultimi 10 anni.

Di certo la pandemia di Covid-19 ha inciso negativamente sull’abbandono scolastico e sui fenomeni a esso collegati, fra cui quello dei NEET, acronimo per Not in education, employment or training, cioè i giovani che non lavorano, non studiano e non seguono un percorso di formazione professionale. Il riferimento alla formazione va inteso in senso molto ampio, ben oltre i confini dell’istituzione scolastica: per non essere catalogati fra i NEET è sufficiente seguire corsi professionali a livello locale, tirocini, stage, lezioni private, corsi di lingua o di informatica. Ciò consente di cogliere quanto grave sia la situazione dei NEET, di fatto privi di ogni stimolo formativo, con evidenti ricadute a livello sociale ed economico, non di rado associate a problemi di emarginazione e/o a disturbi di ordine psicologico.

Oggi in Italia quasi un giovane su 4 nella fascia 15-34 anni è NEET.

Chi sono gli early leavers? Cinque fattori di rischio

Esistono alcune variabili che contribuiscono a definire il profilo dei soggetti a rischio di abbandono.

  1. Il genere. L’abbandono interessa più i maschi delle femmine (15,6% contro il 10,4%, dati 2020), forse perché i giovani maschi trovano più facilmente lavori manuali e/o scarsamente qualificati nell’edilizia, nell’agricoltura o nella logistica. Come vedremo più avanti, però, nei Paesi in via di sviluppo lo svantaggio legato al genere è invertito, con le bambine/ragazze molto più indietro dei loro compagni.
  2. La marginalità sociale. Chi vive in condizioni di disagio e povertà economica, culturale e affettiva tende a lasciare la scuola più facilmente, soprattutto in presenza di insuccesso scolastico (ripetenza). La marginalità può associarsi a difficoltà socio-relazionali e sentimenti di autosvalutazione che rendono più difficile il recupero della frequenza scolastica.
  3. Il fattore territoriale. Lo svantaggio territoriale va inscritto in un doppio asse: quello Nord-Sud e quello centro-periferie. Se infatti è vero che l’abbandono scolastico nelle regioni del Sud è di cinque punti percentuali superiore a quello nelle regioni del Centro e del Nord (dati 2020), la stessa differenza esiste fra il centro delle grandi città e i quartieri delle periferie povere, degradate e con pochi servizi.
  4. La cittadinanza. La scuola gioca un ruolo fondamentale nell’integrazione di bambini e ragazzi stranieri, che oltre ad affrontare difficoltà legate alla lingua spesso provengono da contesti familiari con meno risorse (il reddito medio delle famiglie con stranieri è appena il 56% di quello delle famiglie di soli italiani, dati Istat 2021). Ma c’è ancora molta strada da fare. All’interno della popolazione scolastica, il tasso di abbandono di chi non ha la cittadinanza italiana supera di oltre 3 volte quello di chi ce l’ha: 35,4% contro 11,0%. L’età di arrivo in Italia è una variabile significativa: più è bassa, maggiori sono le chances di portare a termine gli studi.
  5. Titolo di studio dei genitori. Un basso livello d’istruzione dei genitori correla con un maggior rischio di abbandono scolastico dei figli, e viceversa. L’abbandono scolastico riguarda il 22,7% dei giovani i cui genitori hanno al massimo la licenza media, il 5,9% di quelli che hanno genitori con un diploma superiore e solo il 2,3% dei giovani con genitori laureati. Il livello di istruzione della famiglia prevale anche sullo svantaggio territoriale: i figli di genitori con un livello di istruzione medio-alto hanno un rischio di abbandono simile sia a Nord che a Sud.

Si è rotto l’ascensore sociale?

Da questo quadro emerge come la scuola, al momento, non sia in grado di compensare lo svantaggio ai blocchi di partenza fra alunni che provengono da famiglie istruite e alunni che provengono da famiglie con un basso livello di istruzione, fra alunni che vivono nei centri urbani e quelli che abitano nelle periferie più disagiate, fra chi è italiano e chi è straniero, e così via.

La scuola italiana, del resto, vive da tempo una situazione di cronico sottofinanziamento, che si ripercuote inevitabilmente sull’efficacia della sua azione, sul suo ruolo di ascensore sociale. In questo periodo si discute su come investire i fondi che il PNRR (Piano di Ripresa e Resilienza) destina all’istruzione, pari alla cifra record di 18 miliardi di euro. Le emergenze e i bisogni a cui mettere mano sono moltissimi, dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici al reclutamento e formazione degli insegnanti, dall’ammodernamento e cablaggio delle strutture all’aumento di mense e palestre.

Certo si può guardare a questa occasione di rilancio della scuola con occhi fiduciosi o disincantati. Quel che è certo, è che l’obbligo scolastico, da solo, non basta. Per curare la scuola bisogna curare anche il tessuto sociale e culturale che le sta intorno, dare prospettive per il futuro a chi si siede sui banchi.

Le tendenze dell’obbligo scolastico in Europa

All’interno dell’Unione europea aumentano i Paesi che prolungano oltre i 10 anni la durata dell’istruzione obbligatoria. Da ultima la Finlandia, che lo scorso luglio ha innalzato a 18 anni l’obbligo scolastico. Del resto, le economie più avanzate del vecchio continente, come Francia, Germania e Regno Unito, prevedono già tutte un’istruzione obbligatoria superiore a 10 anni.

Anche nel nostro Paese c’è chi promuove un allungamento dell’obbligo fino ai 18 anni, magari cogliendo l’abbrivio degli investimenti che il PNRR destina all’istruzione. D’altro canto, però, esistono spinte di segno opposto, che tendono ad accorciare la permanenza sui banchi, come la sperimentazione dei licei quadriennali.

La tendenza generale è comunque nel senso di un prolungamento dell’istruzione e della formazione anche per rispondere alle esigenze di un mercato del lavoro in costante evoluzione.

Per questo le strategie europee nel ramo education sono tutte orientate al lifelong learning, all’apprendimento permanente. Un apprendimento rivolto soprattutto ai lavoratori e alle lavoratrici: i cambiamenti in campo tecnologico e digitale sono talmente repentini da rendere obsolete le conoscenze acquisite nel volgere di pochi anni. Per non finire ai margini del mercato del lavoro, ecco che si moltiplicano i corsi di upskilling (per migliorare le competenze) o di reskilling (per imparare a ricoprire nuovi ruoli).

Dall’Europa al mondo: dove sono le bambine?

L’istruzione è uno dei pilastri dello sviluppo sostenibile. L’Agenda 2030 le dedica il quarto obiettivo (istruzione di qualità), con un’attenzione particolare ai Paesi in via di sviluppo. Il quadro, per una volta, è incoraggiante.

L’analfabetismo è in costante calo nel mondo e l’obbligo scolastico si diffonde anche nei Paesi più poveri. Ma il tema centrale non è tanto il riconoscimento formale dell’obbligo scolastico, quanto la sua reale applicazione. Del resto lo abbiamo già visto: senza un adeguato contesto sociale, culturale ed economico, l’introduzione dell’obbligo rischia di restare solo sulla carta.

Nei Paesi in via di sviluppo l’evasione e l’abbandono scolastico sono ancora elevati, soprattutto nell’Africa subsahariana e nelle zone di guerra. Sono soprattutto le bambine a restare penalizzate.

Le famiglie che non hanno risorse sufficienti per far studiare tutti i figli, preferiscono mandare a scuola i maschi e lasciare a casa le loro sorelle, assecondando un retaggio che le destina al matrimonio e alla vita domestica assai più che allo studio e all’indipendenza economica.

Tra le principali barriere scolastiche che incontrano le bambine l’Unicef segnala la povertà delle famiglie di origine, gli stereotipi sulle “mansioni da donna” – fra le quali non rientra lo studio – e i maggiori pericoli a cui le ragazze sono esposte durante il tragitto casa-scuola; il fenomeno delle spose bambine e delle gravidanze precoci, e quello delle cosiddette bambine fantasma, cioè non iscritte all’anagrafe e perciò sconosciute al sistema scolastico (le bambine costituiscono la maggior parte dei circa 50 milioni di esseri umani afflitti da questa condizione di “inesistenza legale”).

Eppure, per le economie emergenti investire nell’istruzione femminile garantirebbe maggiore benessere e sviluppo.  Questa la conclusione cui è giunto un recente studio che ha preso in esame un campione di otto Paesi in via di sviluppo, ipotizzando che le ragazze raggiungano un tasso di completamento delle scuole secondarie del 100% entro il 2030. L’investimento equivarrebbe a un costo medio di 1,30 euro al giorno per ogni ragazza. Il risultato? Se tutte le ragazze completassero il ciclo dell’istruzione secondaria, si avrebbe una crescita del Pil del 10%.

Per approfondire:
Una panoramica sull’obbligo scolastico in Italia:
https://www.indipendente-mens.it/storia-della-scuola-in-italia/
Analfabetismo funzionale nell’era dei social e della democrazia digitale:
https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/08/06/analfabeti-funzionali-social-network-la-situazine-italia/
Una sintesi aggiornata sull’abbandono scolastico in Italia:
https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=152949
I NEET in Italia e in Unione europea:
https://www.ilsole24ore.com/art/neet-sale-25percento-quota-giovani-che-non-studia-ne-lavora-AEOasNHB
Per una panoramica sull’obbligo scolastico in Europa, il report Compulsory Education in Europe di Eurydice per la Commissione Europea:
https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/5a630699-1f17-11eb-b57e-01aa75ed71a1/language-it/format-PDF/source-search
Il documento Le barriere all’istruzione delle bambine dell’Unicef:
https://www.unicef.it/media/le-barriere-allistruzione-delle-bambine/

Crediti immagine aperturaLa Tache Noire di Albert Bettannier del 1887 (Wikimedia Commons)

Fonte: Report ISTAT sui livelli di istruzione, 2021

Fonte: Report ISTAT sui livelli di istruzione, 2021

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