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Le sfumature della responsabilità climatica

L’emergenza climatica non si risolverà con un approccio a senso unico. Solo accettando la sua complessità potremo progettare un futuro sostenibile

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Molti di noi sono estremamente preoccupati per il futuro del pianeta, al punto che per descrivere la sensazione è stato coniato un termine: ecoansia. Ma anche ecolutto, per le gravi perdite che la Terra ha già subito o subirà, ecorabbia, per la mancanza di priorità che i governi danno all’emergenza climatica, ed ecoparalisi, quando il peso è tale che ci sentiamo schiacciati, paralizzati.

Il rischio è sentirsi sempre più frustrati, cedendo al cinismo e al fatalismo. Non può essere altrimenti, visto che la responsabilità individuale e le nostre azioni quotidiane – dal consumo di carne all’utilizzo del condizionatore d’estate (nel 2024 abbiamo registrato la più calda di sempre) – sono al centro dell’attenzione. Al contempo, capita di chiedersi quale influenza possiamo mai avere noi, come singoli individui, di fronte alle 57 aziende che da sole sono responsabili dell’80% delle emissioni climalteranti che gravano sul pianeta.

Dati come questi, che provengono dal database Carbon Majors, puntano tuttavia a cambiare la narrazione sulla responsabilità climatica. Un obiettivo del progetto è proprio attribuire le emissioni alle aziende che guadagnano estraendo combustibili fossili dal suolo, e non alle persone che ne fanno uso per vivere e raramente hanno alternative o reale voce in capitolo. Richard Heede, che nel 2013 ha dato il via a Carbon Majors, su questo apsetto ha le idee chiare:

[...] Non possiamo dare la colpa ai consumatori, costretti a fare affidamento su petrolio e gas perché i governi sono tenuti in scacco dalle aziende che li producono.

Di chi è la responsabilità?

L’interpretazione di questioni complesse come la responsabilità climatica da tutto bianco o tutto nero – è tutta colpa delle istituzioni oppure è tutta colpa dello stile di vita dei singoli – non è l’approccio migliore. Eppure, molto spesso sentiamo che il fardello della scelta più sostenibile ricade sul consumatore finale. Si tratta di uno scarico di responsabilità e di una visione assai semplificata della realtà, secondo cui le persone hanno totale libertà di scelta e dispongono delle informazioni per scegliere consapevolmente. Le istituzioni possono così fare un passo indietro e limitarsi a sperare che i cittadini scelgano bene. Un peso insostenibile e poco realistico per i singoli, ma anche un approccio troppo debole per avviare la transizione di cui il pianeta ha bisogno nell’uso sostenibile delle risorse.

Secondo lo psicologo sociale Wilhelm Hofmann della Ruhr University Bochum, in Germania, è un sistema fallimentare. Anche nella letteratura, spiega Hofmann, l’attenzione si concentra sull’autocontrollo e sulla disciplina, dando poco peso alla società. Ma siamo esseri umani: non viviamo in isolamento, siamo spinti ad adeguarci alle norme sociali e incoraggiati, da altre persone o dalla pubblicità, a desiderare nuovi prodotti e servizi non necessari e impattanti.

Le opzioni meno sostenibili sono in genere le più numerose e quelle che costano meno, a partire dal cibo. Spesso una confezione di frutta sigillata da una vaschetta e una rete di plastica è più economica rispetto a quella sfusa, che potremmo però portare a casa in un sacchetto compostabile. Eppure, non tutti possono permettersi di spendere di più “solo” per ridurre il packaging dei prodotti, dunque i rifiuti prodotti. Spesso la scelta più sostenibileè un privilegio.

Non andare più controcorrente

Secondo Hofmann molte persone provano a vivere in modo più sostenibile, ma non ci riescono e questo è un rischio che non possiamo permetterci più di correre:

Affidarsi alla disciplina individuale, alla volontà di fare sacrifici e al senso di colpa non ci porterà molto lontano. Dobbiamo mettere in discussione e cambiare le strutture che contribuiscono a problemi sociali come l’abuso di risorse naturali, e che rendono i comportamenti sostenibili più difficili. Per riuscirci, ci servono decisioni politiche chiare ed efficaci.

Leggi, soluzioni, infrastrutture e iniziative governative che possano agire a livello sistemico, e che permettano alle persone di fare scelte meno impattanti senza che questo significhi andare controcorrente, fare sacrifici o spendere di più. Solo così ciò che è più sostenibile può diventare lo standard, la normalità, e non l’alternativa “speciale”.

Qualche esempio? Rendere i treni più convenienti degli aerei, introdurre sistemi di vuoto a rendere dove ancora non sono diffusi, imporre alle aziende di diminuire i rifiuti da imballaggi. Quest’ultimo processo oggi è in corso in Unione Europea e punta alla riduzione degli imballaggi del 15% entro il 2040, con particolare attenzione proprio a frutta e verdura fresche non trasformate (seguite da cibi e bevande consumati in bar e ristoranti, monoporzioni di salse come il ketchup e altri piccoli imballaggi). Difficile dire al momento se queste azioni saranno sufficienti, ma nel frattempo molto, troppo, resta nelle mani dei consumatori, a cui viene anche rischiesto di sollecitare azioni politiche e imprenditoriali urgenti.

Abbandonare le visioni in bianco e nero

Quando si parla di crisi climatica globale, è impossibile non parlare di India e soprattutto di Cina, attualmente lo stato a più alto impatto climatico del mondo, nonostante la direzione presa negli ultimi anni con l’intenzione di allinearsi gradualmente agli impegni internazionali e di non limitare più la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Soprattutto a partire dal 2021, dopo il vertice sui cambiamenti climatici COP26, sia l’India sia la Cina – principali produttrici e consumatrici di carbone a livello mondiale, ma che dispongono di pochi giacimenti del più “pulito” gas naturale – sono state dipinte come nemiche della transizione energetica, in opposizione ad altri Paesi “virtuosi”. Si tratta di una narrazione parziale, condotta dai paesi più industrializzati, la cui crescita è semplicemente già “terminata”. Le emissioni che i paesi più ricchi hanno prodotto decenni o secoli fa, tuttavia, continuano a contribuire al riscaldamento del pianeta ancora oggi. Inoltre India e Cina, che da sole contano oltre un terzo degli abitanti del pianeta, si fanno carico anche delle emissioni di quei paesi industrializzati, che vi delocalizzano la produzione: se non producessero enormi quantità di beni consumati all’estero, entrambe avrebbero emissioni più basse di circa il 10%. Cina e India sono le principali produttrici di capi per la fast fashion, che da sola è responsabile della metà delle elevate emissioni dell’industria della moda.

Dell’impatto ambientale del fast fashion market abbiamo parlato in questo articolo.

Cosa possiamo fare da soli?

Troviamo un supporto in campagne come Act Now – Speak up! delle Nazioni Unite, che fornisce alcune idee e spunti su come arrivare all’attenzione di chi ha potere decisionale, dai datori di lavoro fino ai politici. Inoltre, quando l’ecoansia prende il sopravvento e ci sentiamo isolati e impotenti dovremmo ricordare che l’emergenza climatica è una priorità per molte persone, non solo per noi. Più del 70% degli abitanti del pianeta, desidera politiche per ridurre le emissioni. Si tratta di un dato molto significativo, e che dovrebbe fare notizia: i governi saranno più propensi a regolamentare le emissioni sapendo di avere il supporto della cittadinanza, mentre le aziende saranno incoraggiate a ridurle se i consumatori richiedono prodotti e politiche meno impattanti.

La riduzione del consumo di carne, dell’acquisto di prodotti non necessari e dell’utilizzo dei mezzi privati per la mobilità sono solo alcune delle azioni su cui possiamo impegnarci individualmente. C’è poi l’attivismo. Le azioni collettive ci fanno provare un senso di comunità e appartenenza, mettendoci in contatto con persone che condividono i nostri valori e le nostre preoccupazioni, e possono fare da megafono per fare in modo che la voce di cittadini e cittadine giunga alle orecchie delle istituzioni. Questo aspetto ben riassunto nelle parole dello scienziato Priyadarshi Shukla, co-presidente del gruppo di lavoro III dell'IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico.

La disponibilità delle politiche giuste, di infrastrutture e di tecnologie che ci permettano di cambiare il nostro stile di vita e le nostre abitudini può portare a una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra tra il 40 e il 70% entro il 2050. Si tratta di un enorme potenziale non ancora sfruttato, e le evidenze mostrano che queste modifiche nello stile di vita possono anche migliorare la nostra salute e il nostro benessere.

Ognuno di noi può contribuire, dunque, ma è fondamentale e non più rimandabile che i governi ci mettano nelle condizioni di farlo.

Se vuoi approfondire la questione dell’impatto ambientale del consumo di carne puoi leggere questo articolo.
Alle storie di attivismo ambientale abbiamo dedicato una puntata di Voci in Agenda che puoi ascoltare qui.

immagine di copertina: Dominic Wunderlich da Pixabay

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