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Come troveremo la vita intorno ad altre stelle

Sono diversi i progetti in questo ambito di ricerca. Sarà una strada lunga, fatta di analisi e osservazioni, ma che richiederà anche molta fortuna

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I prossimi decenni potrebbero essere cruciali nella storia della scienza. Per la prima volta, potremmo essere in grado di comprendere se la vita è effettivamente comune nell’universo, o se il nostro mondo è una rarità cosmica. Capirlo non sarà facile però, e a meno di sorprese non avremo risposte definitive per molto tempo. Vediamo come potremmo fare a scoprire, finalmente, forme di vita fuori dal Sistema Solare.

Che cosa stiamo cercando?

Definire in modo esatto cosa sia “vita” è un compito forse più filosofico che scientifico, ma possiamo usare un criterio generale: è un sistema chimico capace di replicarsi ed evolversi in senso darwiniano, che – come riconobbe il fisico Erwin Schrödinger nel suo trattato «Che cos’è la vita» del 1943 – si tiene attivamente lontano dall’equilbrio termodinamico.

Qualsiasi sistema del genere, per sostenersi e riprodursi, preleva sostanze chimiche dall’ambiente, le modifica e ne rilascia altre come scarti. In questo modo la vita non si limita a ricoprire il mondo in cui abita: lo cambia. Lo dimostra l’ossigeno nella nostra atmosfera, frutto della fotosintesi clorofilliana; un prodotto di scarto del sistema con cui le piante ottengono energia dall’ambiente.

Questo concetto è alla base di quelle che gli scienziati chiamano biosignatures, “firme della vita” o biofirme. La NASA ha definito biofirma:

un oggetto, sostanza e/o segnale la cui origine richiede specificamente un agente biologico. L’utilità di una biofirma è determinata non solo dalla probabilità che sia la vita a crearla, ma anche dall’improbabilità che sia prodotta da un processo non-biologico.

Le biofirme non sono prove: non è detto che la vita ne sia l’unica spiegazione. Viceversa, l’assenza di biofirme non significa che non ci sia vita: è possibile che su altri mondi esistano biosfere “nascoste”, ad esempio all’interno di oceani vari chilometri sotto la superficie, come si ipotizza possa accadere in alcune lune ghiacciate del Sistema Solare come Europa o Encelado.

Come vedremo però, mettendo insieme più biofirme all’interno del contesto planetario, potrebbe essere possibile avere, se non la prova, il forte sospetto dell’esistenza di vita su altri pianeti.

C’è vita sulla Terra?

Un utile esperimento mentale, anche per capire come funziona l’attuale ricerca di vita, è guardare al nostro pianeta nei panni di ipotetici osservatori extraterrestri. Già nel 1993, l’astronomo e divulgatore Carl Sagan guidò un esperimento sfruttando i dati collezionati nel 1990 dalla sonda Galileo nel suo sorvolo della Terra in rotta verso Giove e analizzandoli come se appartenessero a un mondo ignoto.

Proviamo a fare lo stesso esperimento con le tecnologie disponibili oggi o nel prossimo futuro. Ipotizziamo di guardare la Terra da molto lontano: tutto ciò che abbiamo è il suo flebile segnale luminoso, sommerso dalla luce della stella, milioni di volte più intensa. Per avere un’idea del compito, è come tentare di capire se una lucciola vola intorno ai riflettori di uno stadio, guardando da un telescopio sulla Luna.

Per prima cosa, la Terra è capace di ospitare la vita? Se un’astronoma aliena può osservare la Terra transitare davanti alla nostra stella, può misurarne il diametro e il periodo con cui ruota intorno al Sole. Misurando l’oscillazione che il pianeta induce sulla stella con la sua gravità, possiamo anche stimarne la massa. Da questi dati si calcolano due quantità fondamentali: la temperatura attesa, che dipende dalla distanza dalla stella, e la densità del pianeta, ovvero il rapporto tra la massa e il volume. La Terra risulterebbe un pianeta piccolo, con una densità di circa 5-6 g/cm3. Che sono parametri tipici per un pianeta roccioso, non un gigante di gas. E alla distanza giusta perché possa avere acqua liquida in superficie.

Il prossimo passo è comprendere la composizione dell’atmosfera. Il principale metodo oggi utilizzato è la spettroscopia di assorbimento. Se il pianeta transita davanti alla stella, la luce che passa attraverso l’atmosfera del pianeta viene infatti assorbita dalle varie sostanze nell’atmosfera con un’impronta caratteristica per ogni molecola. Confrontando la luce emessa dalla stella quando viene assorbita in parte dall’atmosfera del pianeta che vi passa davanti con quella emessa quando invece il pianeta è dietro, possiamo ottenere lo spettro dell’atmosfera del pianeta. In questo modo abbiamo già misurato la composizione di atmosfere extrasolari, inclusa quella di pianeti di dimensioni paragonabili alla Terra.

Dallo spettro, è evidente che l’atmosfera contiene vapore acqueo – una molecola che su altri pianeti abbiamo già trovato. Data anche la temperatura mite del pianeta, è plausibile che il pianeta sia coperto di oceani d’acqua. Questo ci dice che la Terra è un pianeta abitabile per la vita come la conosciamo. Ma se è una casa accogliente, non è detto che sia abitata.

Fuori dall’equilibrio

Salterebbe però all’occhio un’altra caratteristica unica: l’atmosfera della Terra è ricca di ossigeno, sia sotto forma di O2, sia di ozono O3. La nostra scienziata aliena non farebbe subito salti di gioia. È infatti possibile che esistano atmosfere ricche di ossigeno di origine non biologica, in altri contesti. Alcuni calcoli suggeriscono, per esempio, che un’atmosfera ricca di anidride carbonica, su di un pianeta orbitante attorno a una stella nana rossa, verrebbe convertita dalle radiazioni ultraviolette in un’atmosfera di monossido di carbonio e ossigeno. Dato però il tipo di stella intorno a cui orbita la Terra, non sembra esserci un meccanismo non biologico plausibile in grado di produrre tutto questo ossigeno e accumularlo sulla superficie.

Continuando a scandagliare l’atmosfera, la nostra scienziata extraterrestre potrebbe trovare una piccola ma non insignificante quantità di metano (CH4). Di per sé il metano si trova facilmente su corpi non abitati, come Giove o Saturno per esempio. Il problema è che sulla Terra l’ossigeno nell’atmosfera dovrebbe degradare il metano in CO2 e idrogeno, spazzandolo via nel giro di un secolo. La combinazione ossigeno e metano sulla Terra è quindi lontana dall’equilibrio termodinamico: quindi qualcosa continua a immetterlo nell'atmosfera. Esistono processi geologici che sintetizzano metano (probabilmente agiscono su Marte), ma sono assai meno efficienti di quelli biologici e non in grado di spiegare la concentrazione di metano osservata. Batteri metanogeni sarebbero invece ottimi candidati. 

Lo stesso vale per l’azoto (N2). Su un pianeta privo di vita ma dotato di oceani, l’ossigeno e l’azoto si combinerebbero lentamente a formare ossidi di azoto, i quali si scioglierebbero infine nell’acqua. Se l’azoto persiste significa che esiste un ciclo dell’azoto che lo mantiene in atmosfera. Anche per altri gas come l’ossido nitroso (N2O) o il cloruro di metile (CH3Cl) si possono fare ragionamenti analoghi.

Un riflesso verde e un bordo rosso

Ciascuna biofirma da sola non è conclusiva. Insieme, però, stanno creando un quadro interessante. Abbiamo acqua liquida, segno che il pianeta è abitabile. Abbiamo un atmosfera nettamente fuori dall’equilibrio chimico, e non conosciamo processi attivi non biologici che possano spiegarla. A questo punto la scienziata si domanderebbe se non ci fosse qualche indizio più diretto. Per esempio, tutto quell’ossigeno potrebbe essere opera della fotosintesi, che richiede un pigmento capace di assorbire la luce, esposto alla superficie. C’è?

Allo stato attuale della nostra tecnologia, dovremmo fermarci qui. Ma il prossimo futuro potrebbe essere diverso. Missioni che hanno come obiettivo specifico l’osservazione di pianeti di tipo terrestre sono in fase di progettazione; per esempio l’Habitable Exoplanet Observatori (HabEx) della NASA, o il Large Interferometer for Exoplanets (LIFE). Questi ultimi dovrebbero essere in grado, finalmente, di osservare direttamente la luce riflessa dai pianeti di tipo terrestre.

Con questi strumenti, gli astronomi extraterrestri potrebbero accorgersi innanzitutto che sulla Terra c’è qualcosa capace di riflettere fortemente la luce solare sotto certe angolazioni, come uno specchio. La spiegazione più ovvia è che il pianeta sia coperto da oceani liquidi, probabilmente d’acqua – a conferma dell’abitabilità del pianeta.

La seconda cosa che salterebbe all’occhio è una colorazione verde diffusa sul pianeta, inusuale per un materiale inorganico. Guardando anche nell’infrarosso, mostrerebbe una curiosa caratteristica, detta red edge, “bordo rosso”: un aumento repentino nella luce riflessa proprio al confine tra le frequenze della luce rossa e dell’infrarosso, che non è spiegabile da nessun minerale noto. È però compatibile con un pigmento organico – nel nostro caso, la clorofilla – che potrebbe essere responsabile della sintesi di ossigeno dall’acqua.

Sembra sempre più difficile spiegare cosa succede su questo pianeta senza invocare la vita, ma possiamo cercare un’ulteriore conferma. Il misterioso pigmento verde del pianeta Terra sembra aumentare e diminuire con le stagioni. Anche questa potrebbe essere una falsa pista: nel XIX secolo, gli astronomi osservarono variazioni stagionali di Marte attribuite alla presenza di vegetazione, che poi si rivelarono invece fenomeni dovuti alle tempeste di polvere. Ma sulla Terra la concentrazione di CO2, di ossigeno e di metano varia in sincrono con la copertura verde durante l’anno. In particolare l’ossigeno e il pigmento verde aumentano circa in sincrono, mentre la CO2 segue il ritmo opposto, calando quando aumentano ossigeno e pigmento. La spiegazione più semplice è che il pigmento sia coinvolto in un processo che assorbe CO2 ed emette O2, guidato dalle stagioni. Che è esattamente quello che ci attendiamo da un pigmento fotosintetico con forme di vita la cui crescita dipende dalla temperatura.

A questo punto la vita, per la nostra scienziata, se non è certa, diventa decisamente plausibile – è probabilmente la spiegazione migliore di tutti i dati.

I nostri dissimili

Non possiamo attenderci che tutti i pianeti abitati siano gemelli della Terra attuale. Anche la Terra non è stata sempre la stessa. Per esempio, l’ossigeno era pressoché assente dall’atmosfera fino a 2,5 miliardi di anni fa, anche se la vita è sorta almeno un miliardo di anni prima. Cercare biofirme di pianeti simili alla Terra primordiale sembra essere più difficile, anche se alcuni studi suggeriscono che sarebbe possibile trovare indizi di disequilibrio chimico. Per esempio, in assenza di ossigeno il metano non sarebbe necessariamente una biofirma significativa. Né c’erano vaste coperture di vegetazione.

In generale abbiamo un’idea estremamente vaga di quale possa essere la reale variabilità dei pianeti abitabili e dei sistemi biologici possibili. Potrebbero esistere altri tipi di atmosfera capaci di sostenere la vita; per esempio atmosfere ricche di idrogeno. Quanto alla fotosintesi, non sappiamo se si è evoluta su altri mondi, né sappiamo se gli organismi fotosintetici useranno pigmenti simili a quelli terrestri – specie su pianeti in orbita intorno a stelle che emettono luce con una composizione diversa da quella del Sole. Ci si può attendere che abbiano colori diversi – rosso, blu, nero – per assorbire diversi tipi di radiazione solare.

In questi casi è necessario simulare al calcolatore le possibili composizioni dell’atmosfera dei pianeti extrasolari, in assenza e in presenza di vita. I modelli devono tenere conto ad esempio della fotochimica, ovvero di come l’illuminazione della stella condiziona l’atmosfera alterandola chimicamente, cosa che dipende dal tipo di stella e dalla sua età; inoltre è necessario anche simulare correttamente i processi geologici, che possono interagire con l’atmosfera assorbendo o rilasciando gas. Si tratta di un campo attivo di studio, tuttora molto aperto.

Scopriremo la vita?

Il telescopio spaziale James Webb (JWST), lanciato nel 2022, è stato progettato anche per studiare le atmosfere dei pianeti al di là del Sistema Solare. Ma secondo Amedeo Balbi, astronomo dell’Università di Roma-Tor Vergata:

La scoperta di biofirme è un obiettivo al confine della capacità osservativa attuale. Si può dire che JWST ne avrebbe la capacità ma solo nelle migliori condizioni. Se c’è un pianeta in condizioni perfette molto vicino, diciamo nel raggio di una decina di anni luce, non è da escludere, ma bisogna essere molto fortunati.

Gli astronomi al momento si concentrano su pianeti che orbitano intorno a stelle molto piccole, come le nane rosse, in quanto presentano diversi vantaggi. Innanzitutto sono molto numerose, il che permette un’ampia scelta di candidati. In secondo luogo, le dimensioni del pianeta sono relativamente grandi rispetto alla stella; la luce assorbita dall’atmosfera è quindi, in proporzione, di più. Infine, il periodo orbitale dei pianeti nella zona abitabile (ovvero la fascia in cui la temperatura del pianeta permette l’esistenza di acqua liquida) è molto breve, dell’ordine di pochi giorni; si può quindi osservare ripetutamente il transito del pianeta e acquisire dati in relativamente poco tempo.

Nei prossimi decenni la situazione però potrebbe cambiare. Per quanto riguarda le missioni spaziali, la promessa più concreta al momento è la missione ARIEL dell’Agenzia Spaziale Europea, che potrebbe partire già nel 2029. Lo scopo di ARIEL è caratterizzare atmosfere di pianeti extrasolari, ma non è progettata specificamente per cercare biofirme intorno a pianeti terrestri; il suo principale obiettivo sono pianeti giganti molto caldi. Potrebbe però studiare anche alcune “super-Terre”, ocioè pianeti rocciosi più grandi della Terra, che sono buoni candidati per l’abitabilità. Anche osservatori da Terra come l’Extremely Large Telescope (ELT) attualmente in costruzione potrebbero cercare segni di vita.

Salvo sorprese, dunque, la scoperta della vita extraterrestre, se mai avverrà, non sarà una folgorazione certa e immediata. Sarà invece il risultato graduale di una serie di osservazioni e di analisi. Se tutto andrà bene, le attuali e future missioni spaziali ci forniranno un ventaglio di candidati promettenti. E se saremo davvero fortunati, per qualcuno di questi riusciremo a escludere tutte le altre possibili ipotesi tranne quella biologica. Ma difficilmente arriveremo alla certezza, conclude Balbi:

Temo che in generale il numero di variabili e di fattori sia talmente elevato che ci troveremo sempre di fronte a un alto grado di incertezza, dovuto al fatto che puoi sempre adattare gli spettri a diverse interpretazioni. Questa ambiguità di fondo, secondo me, non può scomparire. Una risposta al 100% non ce l'avremo mai.

Così vicina, così sfuggente

Comprendere le biofirme è talmente difficile che fatichiamo a interpretarle vicino a noi, nel nostro Sistema Solare, dove possiamo esplorare i pianeti con sonde robotiche avanzate. Nel 1976, le due sonde Viking tentarono di verificare l’esistenza di vita sulla superficie di Marte con un esperimento molto diretto: prelevando un campione dal suolo, aggiungendo acqua con sostanze nutritive e osservando se si sviluppavano prodotti del metabolismo. Il risultato fu sconcertante: l’esperimento da un lato sembrò funzionare, dall’altro però non si trovò alcuna traccia chimica di microrganismi. Il consenso scientifico è che le Viking abbiano visto reazioni chimiche inorganiche, ma i risultati sono ancora di difficile interpretazione.

Vent’anni dopo, nel 1996, un gruppo di scienziati scoprì possibili microfossili di cellule batteriche nel meteorite ALH48001, una roccia di origine marziana. Sembrava una prova molto forte, tanto che l’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, si sentì in dovere di annunciare ufficialmente la scoperta. In seguito però l’interpretazione biologica è stata confutata.

Infine, un esempio recente è la possibile scoperta di fosfina (PH3) nell’atmosfera di Venere. La fosfina è una molecola che dovrebbe essere instabile nell’atmosfera venusiana, nota però per essere prodotta da batteri anaerobi sulla Terra. Si tratta però di tracce molto piccole (meno di 20 parti per miliardo), e c’è ancora dibattito sul fatto se la fosfina sia effettivamente presente o meno. L’atmosfera di Venere possiede anche misteriose strisce oscure alla luce ultravioletta, che secondo alcuni ricercatori potrebbero essere sostanze organiche di origine biologica.

immagine di copertina: Foto di Mindaugas Vitkus su Unsplash

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La spettrografia consente di separare la luce trasmessa nelle sue varie componenti (immagine: ESA)

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La luminosità della stella diminuisce durante il passaggio del pianeta (immagine: NASA)