Lo smaltimento della plastica è uno dei problemi fondamentali dei nostri tempi, e fino a poco tempo fa si discuteva addirittura del fatto che la sua invenzione e gli effetti che questo tipo di materiale ha sull’ambiente potessero segnare l’inizio di una nuova epoca geologica: l’antropocene. Recentemente, invece, il Gruppo di Lavoro sull’Antropocene sembra essersi orientato su un diverso tipo di marcatore (i resti radioattivi e i derivati di combustione di fonti fossili ritrovati sul fondo del remoto lago di Crawford, in Canada) per tentare di collocare a livello temporale la fine dell’olocene, epoca geologica iniziata oltre diecimila anni fa.
Quel che è certo, comunque, è che la plastica rischia davvero di influenzare la geologia del nostro pianeta: un esempio fra tutti è il ritrovamento di ammassi di roccia e plastica all’interno dei quali i due materiali sono tenuti insieme da veri e propri legami covalenti. Senza contare poi il rischio che i detriti di plastica costituiscono per la fauna marina e per la salute degli esseri umani: la plastica, in forma di frammenti più o meno grandi, si trova ormai ovunque, dalle carni degli animali di cui ci nutriamo fino ad alcune importanti riserve di acqua potabile.
Cosa fare dunque per correre ai ripari? Ultimamente si discute molto delle cosiddette plastiche biodegradabili, biologiche e compostabili. Vediamo che cosa sono dal punto di vista chimico e anche qual è l’opinione degli esperti riguardo al loro utilizzo per rimpiazzare le plastiche, per così dire, “tradizionali”.
Plastiche “bio”: che cosa sono e come si degradano
Innanzitutto è importante fare chiarezza sulla terminologia. Una nota dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (AEA) scoraggia ad esempio l’uso della parola “bioplastiche”, spesso utilizzata in modo generico per indicare materiali che invece hanno caratteristiche diverse. Che cosa si intende, quindi, quando si parla di plastiche biodegradabili e compostabili? I due termini non sono sinonimi: in base alla definizione che ne dà la Commissione Europea, le seconde costituiscono una sottocategoria delle prime.
In generale, entrambi gli aggettivi indicano materiali sensibili all’azione di determinati microrganismi che possono favorirne la decomposizione con l’ottenimento di acqua, anidride carbonica, sali minerali e materiali organici. Tuttavia, se e quando questo processo arriva a conclusione dipende sia dal tipo di materiale in questione, sia dalle condizioni alle quali esso viene esposto, come temperatura, umidità, percentuale di ossigeno. Entrando ulteriormente nel dettaglio, le plastiche compostabili, a loro volta distinguibili in domesticamente e industrialmente compostabili, sono progettate per degradarsi in presenza di specifici microrganismi e in condizioni di temperatura e umidità ben precise. In particolare, quelle industrialmente compostabili, spiega Almut Reichel, project manager presso AEA:
[...] non sono necessariamente (completamente) compostabili nelle compostiere domestiche, che in genere raggiungono solo temperature più basse e in cui condizioni come l’umidità e la presenza di microrganismi presentano una notevole variabilità.
Le plasitiche biodegradabili, poi, e quindi anche quelle compostabili, possono essere prodotte sia a partire da materiali fossili, sia biologici. Nel secondo caso si parla di plastiche biobased, che a loro volta, sottolinea ancora AEA, non dovrebbero essere considerate necessariamente biodegradabili o compostabili.
Una questione di tempo
Il nocciolo della questione, come anticipato, ha soprattutto a che vedere con il tempo necessario affinché il processo di degradazione si completi. Plastiche come il PET (polietilentereftalato) e il PP (polipropilene), se abbandonate nell’ambiente, possono richiedere anche diverse centinaia di anni per degradarsi completamente. Ma anche le plastiche biodegradabili se smaltite in condizioni diverse da quelle per le quali sono state progettate rischiano di non decomporsi del tutto o di farlo molto lentamente.
Un esempio per tutti è il PLA (Polylactic Acid, o Acido Polilattico), un materiale costituito da un polimero dell’acido lattico, ottenuto a partire da piante amidacee come ad esempio il mais, e uno dei più frequentemente utilizzati per la produzione di oggetti compostabili. Per essere biodegradabile, lo è: prima o poi microrganismi e agenti atmosferici riusciranno a rompere i legami chimici che tengono insieme le sue molecole, causandone la decomposizione. Ma in quanto tempo? Secondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, 428 giorni non sono sufficienti. Durante questo arco di tempo, infatti, i frammenti di PLA mantenuti in acqua di mare non hanno mostrato alcun segno di decomposizione: neanche a livello microscopico, se ispezionati attraverso tecniche di spettroscopia Raman. Ad altri tipi di frammenti, costituiti da cellulosa e utilizzati come termine di paragone nello studio (ossia sottoposti alle stesse condizioni), sono bastati invece circa 35 giorni per decomporsi completamente.
Alla luce di questi risultati, gli autori della ricerca sostengono che anche il termine biodegradabile sia in realtà fuorviante, e che possa indurre a pensare (erroneamente) che i materiali biodegradabili o compostabili possano essere direttamente smaltiti nell’ambiente. Un erroneo smaltimento delle plastiche biodegradabili rischia tra l’altro di causarne la frammentazione in quei minuscoli detriti che chiamiamo microplastiche, rilevabili ormai anche negli angoli più remoti del pianeta. Le esatte conseguenze che questi piccolissimi frammenti possono avere sulla salute di animali ed esseri umani non è ancora stato chiarito del tutto, anche se sta emergendo un numero crescente di studi con l’obiettivo di analizzarne gli effetti su singole specie.
L’opinione degli esperti
Per far fronte alla situazione, l’AEA e in generale l’Unione Europea stanno tentando di promuovere una maggiore chiarezza fra i consumatori, cercando ad esempio di incoraggiare l’elaborazione di norme armonizzate all’interno dell’UE per l’etichettatura dei diversi tipi di plastica. Uno degli obiettivi del Piano d’azione dell’Unione Europea per l’economia circolare 2020 è inoltre quello di determinare quali applicazioni delle plastiche biodegradabili e compostabili risultino effettivamente ecologiche e abbiano dei risvolti positivi per l’ambiente. Prosegue Reichel:
La sostenibilità dei materiali a base biologica, così come della plastica a base fossile, dipende dalle tecniche di produzione, dalla durata dei prodotti e dal trattamento alla fine del ciclo di vita. I prodotti in plastica biodegradabile e compostabile possono, in alcuni casi e per determinate applicazioni, aiutare a ridurre l’inquinamento ambientale dovuto alla plastica. Ma sono ben lungi dal costituire una soluzione generale e sufficiente da sola a far fronte con successo alle sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare in relazione alla plastica.
La parola d’ordine quindi dovrebbe essere sempre e comunque riduzione. Riduzione nell’utilizzo di materiali plastici di qualsiasi tipo, seguita dal loro riutilizzo e, infine, dal loro appropriato riciclo quando le due opzioni precedenti non sono più praticabili. La famosa regola delle tre “r”, insomma, che dovremmo sempre tenere a mente quando si tratta di ecologia ed ecosostenibilità: riduci, riusa, ricicla.
immagine in evidenza: utensili in plastica biodegradabile fotografati con la tecnica della fotoelasticità (fonte: Wikipedia)
L’impatto ambientale del ciclo di vita delle plastiche tradizionali (immagine: AEA)
Un sacchetto di plastica biodegradabile PLA (immagine: Wikipedia)