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La psicologia del rifiuto dei vaccini

Com’è potuto succedere che i vaccini siano diventati così controversi? Per capire questo fenomeno dobbiamo rivolgerci allo studio degli errori di percezione della psicologia cognitiva
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Com’è potuto succedere che i vaccini – forse i rimedi più efficaci e più sicuri che la medicina abbia mai inventato – siano diventati così controversi da indurre milioni di genitori nel mondo a non proteggere i propri figli da malattie gravissime? Non si può comprendere questo straordinario paradosso senza l’aiuto di una branca della psicologia cognitiva che cerca di capire perché, in alcune circostanze, la nostra mente tende a compiere errori di percezione e di ragionamento. Errori che influenzano le nostre decisioni economiche, le nostre decisioni politiche, oltre a moltissimi comportamenti della vita di tutti i giorni. Si tratta di studi così importanti che nel 2002, al fondatore di questa branca della psicologia, l’israeliano Daniel Kahneman, è stato assegnato addirittura il premio Nobel.
Daniel Kahneman al World Economic Forum di Davos (Svizzera) nel 2013 (Foto: Remy Steinegger via Flickr)
Grazie a una serie di ingegnosi esperimenti, Kahneman e altri psicologi hanno scoperto che la nostra mente è soggetta a una serie di bias cognitivi, cioè a distorsioni sistematiche nel nostro modo di interpretare il mondo e di prendere decisioni. Si tratta di distorsioni delle quali non siamo consapevoli, e che a volte ci portano a prendere decisioni irrazionali anche quando siamo convinti di aver ben ponderato la questione.

I bias cognitivi hanno aiutato i nostri antenati a sopravvivere

Oggi gli psicologi riconoscono l’esistenza di decine di bias cognitivi diversi che si sono sviluppati nella mente dei nostri antenati perché li hanno aiutati a sopravvivere, a collaborare e a competere con i loro simili. Nella vita di tutti i giorni si rivelano spesso ancora utili, ma in una società tecnologica complessa come quella in cui viviamo oggi ci possono indurre a commettere errori anche molto gravi. E sono entrati in gioco anche nella grande controversia sui vaccini. Per quasi tutto il Novecento, quando molte gravi malattie infettive erano ancora una minaccia anche nei paesi più ricchi e avanzati, i vaccini sono stati visti quasi come dei miracoli. Il 12 aprile 1955, quando fu annunciata la messa a punto di un vaccino contro la poliomielite, una malattia devastante che paralizza i muscoli, le campane di tutte le chiese d’America suonarono a stormo. Per decenni, quindi, quasi a nessuno venne in mente di rifiutare un vaccino. Era così perché tutti avevano perfettamente compreso gli studi sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini? No, naturalmente, ma era ancora vivo il ricordo di quelle terribili malattie, e la percezione del rischio che si corre non vaccinandosi era accresciuta dal bias della disponibilità, che ci fa temere soprattutto i rischi che sono tenuti ben presenti per via dei ricordi, o semplicemente del fatto che se ne parla molto. Non solo. Siccome tutti facevano vaccinare i propri figli, questa sembrava a tutti la cosa giusta da fare. Il motivo? Il bias della riprova sociale: nel dubbio, tendiamo a comportarci come fanno le persone intorno a noi.

Il caso Wakefield

Con il passare degli anni, però, il ricordo delle epidemie del passato svaniva, soprattutto con l’arrivo di nuove generazioni che non le avevano mai conosciute. E un giorno accadde un fatto nuovo. Il 28 febbraio 1998, nel corso di una conferenza stampa in cui presentava un suo lavoro pubblicato dalla rivista scientifica Lancet, il medico inglese Andrew Wakefield avanzò l’ipotesi che la vaccinazione trivalente potesse causare l’insorgenza di autismo. L’annuncio ebbe un’eco enorme sui media, e milioni di genitori si spaventarono a morte. Perché? Perché una serie di bias cognitivi fanno sì che ci spaventiamo con grande facilità, soprattutto se si tratta di un pericolo nuovo, non ben compreso, e facile da visualizzare. La nostra altissima sensibilità ai rischi è comprensibile, se pensiamo che fra i nostri antenati sono sopravvissuti di più quelli che si spaventavano facilmente, anche a costo di spaventarsi spesso per nulla, e ci hanno trasmesso questo tratto. Proprio perché conoscono questa nostra debolezza, i media privilegiano sistematicamente le notizie cattive rispetto a quelle buone, e in quel momento la cattiva notizia era il legame fra il vaccino e l’autismo, una condizione di cui ancora non si conosce con certezza la causa. Così, sempre per via del bias della disponibilità, che questa volta agiva in senso inverso, l’allarme divenne ancora più forte. Vaccinare o non vaccinare i propri figli? Nel dubbio, molti genitori scelsero di non farlo, spinti dal bias di omissione, quello che in caso di incertezza ci spinge a non agire piuttosto che ad agire.
La riduzione delle vaccinazione e l'aumento dei casi di morbillo in seguito alla pubblicazione dei dati falsi di Wakefield.
Scienziati e autorità sanitarie cercarono a rassicurare i cittadini citando dati e studi, ma non furono ascoltati. Perché? Perché quando un allarme riguarda bambini molto piccoli, nella nostra mente si attiva un meccanismo di difesa, sotto forma di una fortissima indignazione morale, che ci spinge a comportamenti di protezione senza metterci lì a ragionare. Una reazione sacrosanta in condizioni normali, che in questo caso però portò moltissime persone a non prendere in considerazione gli argomenti razionali della scienza e anzi a convincersi che alla base di tutto ci fosse l’avidità delle aziende produttrici del vaccino. Una questione scientifica si era trasformata in una questione di giustizia, con delle vittime ma anche dei carnefici.

L'illusione della casualità

Un ulteriore bias contribuì però a complicare le cose. Spesso l’insorgenza dell’autismo veniva notata nello stesso periodo in cui veniva fatta la vaccinazione, e questo portò le persone a vedere un nesso di causalità fra le due cose: se l’autismo si manifesta poco dopo la vaccinazione, allora il vaccino deve esserne stato la causa. In realtà, si tratta di due eventi indipendenti che avvengono intorno ai due anni di età, ma il bias narrativo (conosciuto anche come illusione di causalità) fece sembrare questo legame molto plausibile. Mentre gli scienziati mettevano in piedi nuovi studi per capire se questo legame potesse esistere, dell’ipotesi di Wakefield si continuò a parlare a lungo, e in moltissimi genitori la paura si consolidò in una convinzione sempre più radicata. Così, quando i risultati degli studi arrivarono e dimostrarono oltre ogni ragionevole dubbio che questo legame non esiste, quei genitori non si lasciarono convincere. Continuarono invece ad ascoltare Wakefield, e soprattutto associazioni di genitori e personalità varie che continuavano a sostenere che il vaccino fosse la causa dell’autismo. Perché? Il motivo è uno dei bias più potenti di cui siamo tutti vittime: il bias di conferma. Si tratta dell’istinto a cercare, a credere e a ricordare informazioni che confermano una nostra convinzione, e a rifiutare, non credere o dimenticare quelle che la possono smentire. Gli algoritmi che selezionano per noi le informazioni sui social media rinforzano ulteriormente il bias di conferma, e rinchiudono moltissimi genitori in una “bolla” in cui trovano soltanto post di persone o organizzazioni contrarie alle vaccinazioni. Tutte convinte di saperne di più degli scienziati, anche perché vittime dell’effetto Dunning-Krueger, un bias cognitivo che ci porta a sovrastimare le nostre competenze in un ambito, anche se queste sono in realtà scarse.
Grafico sull'effetto Dunning-Kruger, che mette in relazione la conoscenza percepita e l'esperienza effettiva (Immagine: Wikimedia Commons)
Nel 2004, il giornalista investigativo inglese Brian Deer cominciò a pubblicare sul Sunday Times una serie di articoli nei quali svelava che quella di Wakefield era stata in realtà una truffa: i dati del suo studio era stati inventati. Il motivo: già da due anni prima del suo lavoro su Lancet, Wakefield era pagato da uno studio legale che intendeva promuovere una causa contro le case produttrici del vaccino. In più, lui stesso aveva costituito due società che ne avrebbero guadagnato: una per vendere un vaccino monovalente da lui messo a punto, l’altra per commercializzare un test diagnostico. Lo scandalo fu grande, ma non abbastanza grande per una minoranza non piccola di genitori che da allora hanno continuato a non far vaccinare i figli. Perché? Per via della dissonanza cognitiva. Quando una nostra forte convinzione viene messa in dubbio, spesso prendiamo questo fatto come un attacco verso di noi, e la nostra mente si mette alla ricerca di elementi, anche palesemente assurdi, che possano difenderci. Con questi elementi quindi costruiamo una spiegazione verosimile che giustifichi la nostra convinzione, anche se è un’idea in realtà insostenibile. In molti casi, svelare la bufala si rivela addirittura controproducente per via dell’effetto backfire, che ci spinge a rafforzare le nostre convinzioni sbagliate, quando le sentiamo minacciate. Così, negli anni, le accuse che inizialmente erano solo al vaccino trivalente si sono poi estese a tutti i vaccini, diventando sempre più forti e meno probabili, fino a immaginare l’esistenza di fantomatici complotti fra case farmaceutiche, scienziati, medici e autorità sanitarie di tutto il mondo. La pandemia da Covid-19 produrrà probabilmente un’impressione così forte da tornare a convincere tutti della necessità di vaccinare i propri figli o se stessi: ecco il bias della disponibilità di nuovo in azione. Mai come in questo frangente, la disponibilità di un vaccino efficace rappresenta una miracolosa ancora di salvezza. Ma non dovremo per questo dimenticarci dei bias cognitivi che possono accecare il nostro senso critico. Solo una profonda consapevolezza della loro esistenza ci potrà proteggere dal prossimo abbaglio. Il pericolo infatti è sempre dietro l’angolo. Anzi, dentro la nostra mente.

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