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Quali sono i rischi per la salute?

1. Quali sintomi causa l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2? 2. Come funziona il meccanismo patogenetico di SARS-CoV-2? 3. Perché alcune persone sembrano essere più vulnerabili agli effetti del coronavirus? 4. Quali sono le cause dell’alto tasso di letalità riscontrato in Italia nei primi mesi dell'epidemia?
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Questa pagina è stata aggiornata l'11/05/2021 con l'aggiunta di questo approfondimento: 3. Che cos'è e come si manifesta il Long-COVID?

1. Quali sintomi causa l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2?

L’infezione da coronavirus SARS-CoV-2 causa sintomi respiratori che ricordano quelli di un raffreddore o di un’influenza: febbre, tosse secca, dolori muscolari e articolari, affaticamento e debolezza. Anche se nella maggior parte dei casi l'infezione decorre senza complicazioni, rispetto alle consuete infezioni stagionali l’epidemia di COVID-19 si caratterizza per una maggiore percentuale (circa il 19% dei casi) di sintomi respiratori gravi, fino all’insufficienza respiratoria e alla necessità di ricorrere a cure di terapia intensiva. altri sintomi che sono stati associati alla COVID-19 sono la perdita temporanea del gusto e dell'ofatto (sintomo piuttosto comune), l'associazione con sintomi gastrointestinali (vomito e diarrea) e, raramente, la comparsa di eritemi cutanei. Il rischio di sviluppare i sintomi più gravi aumentano con l'età, come mostrato da questo grafico dell'Istituto Superiore di Sanità (i dati in continuo aggiornamento sono disponibili a questa pagina):

Proporzione (%) di casi di COVID-19 segnalati in Italia per stato clinico attuale e classe di età (dato disponibile per 50.108 casi aggiornato al 29 settembre 2020; fonte: ISS).

Questo grafico evidenzia anche che non esistono fasce d’età immuni all’infezione. Anche se i sintomi sono lievi o meno evidenti, bambini e giovani possono comunque contrarre l'infezione e veicolarla all'interno della popolazione. Le raccomandazioni a mantenere le distanze di sicurezza valgono quindi per chiunque, indipendentemente dall’età. Guardando alle fasce di età, si può inoltre notare che ad aumentare progressivamente non è solo la gravità dei sintomi ma anche la letalità (proporzione di decessi dovuti a una malattia sul totale di persone affette da quella malattia). 

Numero di casi di COVID-19 segnalati in Italia per classe di età e letalità (%) (dato disponibile per 310.652 casi aggiornato al 29 settembre 2020; fonte: ISS).)

 

2. Come funziona il meccanismo patogenetico di SARS-CoV-2?

Nelle fesi iniziali dell'epidemia, le manifestazioni cliniche più evidenti dell'infezione da SARS-CoV-2 ricordavano quelle dell’influenza. Con il progredire dell’epidemia e con la raccolta di dati epidemiologici è però risultato evidente che il quadro clinico della COVID-19 è molto più complesso per diversi motivi: se la maggior parte delle persone contagiate guarisce dall’infezione senza complicanze, in circa il 20% dei casi i pazienti vanno incontro a gravi polmoniti e a insufficienza respiratoria; inoltre, in questi numeri non sono conteggiati i casi – ancora da quantificare con precisione – delle persone asintomatiche o con sintomi così lievi da non essere nemmeno identificate come contagiate. Per capire come uno stesso virus possa causare una simile varietà di risposte cliniche, è importante considerare le quattro fasi del processo patogenetico.
  • Nella prima fase, il virus penetra nelle prime vie respiratorie e, sfruttando il recettore ACE2, infetta in particolare le cellule della mucosa nasale. In questa fase la persona è contagiosa, ma può essere asintomatica (anche se i sintomi possono comparire nel giro di qualche giorno). È interessante notare che, legandosi ad ACE2 (che è un enzima), il virus ne causa l'inibizione; di conseguenza, nelle persone con un'infezione attiva si ha un innalzamneto dei livelli di angiotensina II che causano ipertensione e infiammazione. Questo meccanismo contribusce a spiegare perché pazienti già ipertesi sono più a rischio.
  • Nella seconda fase, il virus si diffonde nell’albero respiratorio discendendo lungo le vie aeree, causando i primi sintomi; in questa fase spesso diventano evidenti i segnali della risposta immunitaria innata. In circa l’80% dei casi, i pazienti guariscono dopo aver sviluppato sintomi lievi o gestibili senza ricovero ospedaliero.
  • Nel 20% circa dei pazienti, la patologia evolve verso la terza fase, caratterizzata da infiltrazioni polmonari, polmoniti e difficoltà respiratorie. In questa fase il virus ha infatti raggiunto gli alveoli polmonari, il sito in cui si verificano gli scambi di gas respiratori tra sangue e aria. Infettando le cellule che rivestono gli alveoli, il virus scatena una risposta immunitaria che porta al rilascio di citochine infiammatorie e richiama cellule immunitarie. Questa reazione può danneggiare l’epitelio che riveste gli alveoli favorendo l’ingresso di fluido dai capillari che li circondano e impedendo gli scambi respiratori: iniziano a questo punto a comparire le difficoltà respiratorie e, nei casi più gravi, il paziente necessita cure di terapia intensiva per sostenere le sue funzioni vitali. Per fortuna, in alcuni casi la risposta immunitaria e la terapia possono aiutare a regredire da questa situazione fino alla guarigione; in alcuni pazienti, però, le difese immunitarie stesse sono la causa di un ulteriore peggioramento della malattia.
  • Nella quarta fase, il paziente può sviluppare la cosiddetta “tempesta di citochine”, una sindrome caratterizzata dall’iper-attivazione delle risposte immunitarie e dal rilascio incontrollato di citochine infiammatorie: gli effetti si ripercuotono su tutto l’organismo, causando a tutti gli organi danni gravi o addirittura fatali.
La progressione del danno alveolare causato dalla terza fase dell'infezione da SARS-CoV-2 (Immagine che fa parte di questa infografica, realizzata dall'illustratrice Avesta Rastan).
  L’apparato respiratorio è quindi il più colpito dall’infezione. Tuttavia, i dati raccolti in questi mesi dimostrano che l’infezione può raggiungere anche altri distretti anatomici (anche senza arrivare alla fase della tempesta di citochine). I sintomi sistemici (che riguardano, cioè, tutto l’organismo) comprendono, per esempio, diarrea e danni vascolari (il recettore ACE2 è espresso in molti tessuti dell’organismo, compresi gli epiteli intestinali e l’endotelio dei vasi sanguigni). Oltre che dal punto di vista clinico, questi sintomi non respiratori, se confermati, avranno un grande valore epidemiologico: alcuni dei casi ritenuti asintomatici potrebbero essere pazienti che hanno manifestato principalmente i sintomi intestinali o vascolari e, come tali, potrebbero essere sfuggiti alla diagnosi di COVID-19 nelle prime settimane di epidemia. Per capire l’impatto delle complicanze coagulative è nato in Italia il Registro START-COVID-19, che raccoglie i dati contenuti nelle cartelle cliniche dei pazienti. Una delle ipotesi è che il meccanismo patogenetico del virus possa agire su due fronti, cioè su entrambi i lati della superficie respiratoria degli alveoli: da un lato della superficie, abbiamo la cavità degli alveoli che si riempie di liquido e cellule infiammatorie, secondo il meccanismo già descritto; dall’altro lato, la formazione di micro-trombi e della risposta coagulativa impedirebbe al sangue ossigenato di fluire liberamente nei piccoli capillari alveolari. I danni vascolari possono poi ripercuotersi a cascata, attraverso il torrente circolatorio, in tutti i distretti dell’organismo, causando danni al cuore, al cervello, al fegato o ai reni. Un simile meccanismo, se confermato, suggerisce la necessità di strategie terapeutiche che tengano conto di entrambi i tipi di danni causati dal virus (in alcuni casi si sta già sperimentando l’uso di eparina, un farmaco anti-coagulante). Come venga avviata questa cascata coagulativa è ancora oggetto di dibattito: il meccanismo diretto si basa sull’ipotesi che il virus, infettando le cellule endoteliali, causi danni ai vasi sanguigni che attivano poi la coagulazione; è però possibile anche un meccanismo indiretto, mediato dall’attivazione della coagulazione da parte dei segnali già coinvolti nella risposta infiammatoria e nel sistema del complemento. Tra i bersagli dell’infezione da SARS-CoV-2 sembra esserci anche il sistema nervoso. Accanto ai sintomi respiratori, i medici hanno riscontrato in circa un terzo dei pazienti sintomi neurologici, come mal di testa, nausea, vomito, vertigini, irrigidimento del collo, perdita del gusto e dell’olfatto e, in alcuni casi, sintomi psicologici. Una ipotesi è che il virus SARS-CoV-2 penetri nel sistema nervoso attraverso le terminazioni nervose olfattive e sfrutti il recettore ACE2 per infettare i neuroni. Ma è possibile anche uno scenario alternativo: il virus infetta le cellule endoteliali e altera l’integrità della barriera emato-encefalica, portando a edema cerebrale e a un aumento della pressione intracranica. Il quadro può peggiorare ulteriormente se la risposta immunitaria scatenata dall’infezione produce autoanticorpi in grado di attaccare le cellule del paziente stesso e causare un’encefalite autoimmune. In generale, la penetrazione del virus all'interno del sistema nervoso causa l'attivazione della microglia e il conseguente innesco della risposta infiammatoria; questo processo è particolarmente preoccupante nel caso di pazienti già affetti da malattia di Alzheimer, perché le placche amoloidi trattengono il virus e aumentano l'intensità della risposta infiammatoria. Questi esempi indicano che l’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 sui pazienti possa essere più esteso di quanto si pensasse inizialmente. Per chiarire il quadro clinico associato alla COVID-19, nei prossimi mesi e anni sarà fondamentale cercare di perseguire due obiettivi:
  • catalogare in modo accurato le manifestazioni cliniche associate alla COVID-19, tenendo conto anche dei sintomi atipici: proprio questi potrebbero fornire dettagli utili a capire come il virus interagisca con l’organismo umano e possa causare sintomi cosi diversi, sia per tipo sia per gravità;
  • monitorare i pazienti già guariti, sia per valutare lo sviluppo di una memoria immunitaria duratura, sia per stabilire se i danni causati dalla malattia possono avere ripercussioni a lungo termine. Le indagini condotte degli ultimi mesi indicano che in una certa percentuale di pazienti i sintomi contnuano a persistere anche a distanza di settimane o mesi. Questi pazienti, talvolta indicati con il termine anglosassone long-haulers, non sono necessariamente quelli che hanno sofferto inizialmente dei sintomi più gravi, eppure a distanza di tempo continuano a lamentare difficoltà respiratoria, stanchezza, malesseri diffusi e svariati altri sintomi. Se queste testimonianze troveranno conferma negli studi epidemiologici in corso, sarà indispensabile capire quale meccanismo virale porti i sintomi a protrarsi a lungo termine, influenzando in modo così significativo la qualità della vita di molti pazienti.
Un grande aiuto alla ricerca potrebbe venire da modelli animali in grado di replicare la malattia; un primo tentativo è stato fatto da ricercatori cinesi, i quali di recente hanno sviluppato un modello di topo transgenico che esprime il recettore ACE2 umano ed è sensibile all’infezione da SARS-CoV-2. Nonostante i sintomi sviluppati dal topo siano molto più lievi della malattia umana, questo modello è un importante punto di partenza e potrebbe aiutare a testare nuovi farmaci e vaccini.

3. Che cos’è e come si manifesta il Long-COVID?

Il Long-COVID o COVID-post-acuto è una sindrome caratterizzata da sintomi persistenti e/o complicazioni ritardate o a lungo termine dell'infezione acuta di SARS-CoV-2. I sintomi del Long-COVID possono essere presenti anche se il tampone è tornato negativo e si prolungano oltre le 4 settimane dal momento dell’infezione; alcuni pazienti continuano a manifestare sintomi anche dopo 6 mesi dall’inizio della malattia. Chi è affetto da Long-COVID, spesso indicato con il termine inglese «long-hauler», presenta manifestazioni cliniche molto varie, che interessano diversi distretti anatomici.
Alcuni dei sintomi del Long-COVID, una sindrome che coinvolge diversi apparati (Immagine: Zanichelli).
Grazie alle segnalazioni fatte da una rete sempre più diffusa di associazioni di pazienti, la comunità medica e scientifica ha preso consapevolezza del fatto che le forme croniche di COVID non si limitano a qualche sporadico caso ma costituiscono un problema clinico sempre più rilevante, soprattutto per chi ha avuto la malattia in forma severa. I primi studi clinici condotti in Europa, negli Stati Uniti e in Cina confermano che, tra i pazienti sopravvissuti al COVID-19 dopo ricovero ospedaliero, circa 3 su 4 convivono con sintomi persistenti a più di sei mesi dalla guarigione. Tra questi compare anche uno studio condotto in Italia: su 143 pazienti dimessi dall’ospedale dopo aver superato il COVID in forma acuta, circa l’87% manifesta ancora uno o più sintomi. Molti di questi studi clinici, oltre a raccogliere le dichiarazioni soggettive dei pazienti, hanno verificato anche attraverso test clinici e di laboratorio la persistenza di alterazioni funzionali soprattutto a livello dei polmoni e dei reni.
Linea temporale del COVID-19 nella fase acuta e post-acuta (o long-COVID) (Fonte: Nalbandian A et al. Nature Medicine 2021).
Osservazioni analoghe sono state riportate in passato anche per altre infezioni da coronavirus, in particolare l'epidemia di SARS del 2003 e quella di MERS del 2012: i pazienti sopravvissuti a queste infezioni hanno spesso riferito uno o più sintomi persistenti nel tempo. Poiché le epidemie di SARS e MERS hanno avuto una diffusione più limitata, questi casi di long-haulers sono stati spesso considerati casi clinici sporadici. L’attuale pandemia di COVID-19, con la sua enorme diffusione a livello planetario, ha fatto da cassa di risonanza a quello che potrebbe essere invece un elemento distintivo delle infezioni da coronavirus e accende i riflettori sulla necessità di gestire il numero crescente di pazienti con sintomi persistenti e clinicamente rilevanti. Uno degli aspetti più importanti da affrontare riguarda le cause di queste sequele, come spesso vengono chiamati in medicina i sintomi persistenti e/o ricorrenti di una malattia. I pazienti long-COVID possono presentare un solo sintomo oppure più sintomi combinati in vario modo: un quadro clinico così vario suggerisce che le cause potrebbero essere diverse. I maggiori indiziati, ma ancora da dimostrare, sono al momento tre: i danni cellulari indotti dall’infezione, una violenta risposta immunitaria con rilascio di citochine infiammatorie (tempesta di citochine) e le trombosi vascolari causate dal virus, forse innescate dal legame al recettore ACE2. Le complicanze neuropsichiatriche potrebbero avere cause ancora più complesse, sui cui si innestano anche le conseguenze sociali dell’infezione, spiegando così alcuni quadri clinici aggravati da ansia, depressione, disturbi del sonno e disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Di fronte a una sintomatologia tanto varia, è sempre più importante che le autorità sanitarie si preparino a fornire un’assistenza medica multidisciplinare ai pazienti che si stanno riprendendo dal COVID-19.  

4. Perché alcune persone sembrano essere più vulnerabili agli effetti del coronavirus?

Gli studi epidemiologici condotti finora (e che, lo ricordiamo, sono in costante aggiornamento e basati ancora su numeri piuttosto ristretti) sembrano suggerire una maggiore vulnerabilità in alcuni gruppi di persone. Le persone anziane, con patologie croniche o immunocompromesse sono, proprio come nel caso dell’influenza, le più a rischio. Ma nel caso dell’infezione da coronavirus potrebbero entrare in gioco anche altri fattori, come dimostrato dal fatto che, sporadicamente, anche giovani adulti in salute possono sviluppare gravi sintomi respiratori e polmoniti. Inoltre, sebbene uomini e donne contraggano l’infezione con uguale probabilità, alcuni studi (in riferimento anche alla passata epidemia di SARS) sembrano suggerire che un peggioramento dei sintomi si riscontri soprattutto negli uomini. Queste osservazioni potrebbero dipendere da fattori ambientali e comportamentali (come l’abitudine al fumo, mediamente più diffusa tra i maschi) o genetici (per un eventuale effetto protettivo degli estrogeni). Un dato interessante emerge da un'analisi pubblicata sulla rivista Nature e riguarda il recettore ACE-2, ritenuto responsabile dell’ingresso nel corpo umano sia del virus SARS-CoV-2 sia di quello della SARS. Il gene che codifica per il recettore ACE-2 si trova sul cromosoma X; nel caso in cui un polimorfismo in particolare sia responsabile di un’aumentata vulnerabilità all’infezione, le donne eterozigoti potrebbero essere più protette, perché presentano due copie del gene, anziché una sola come avviene nei maschi. Ricordiamo che quelli citati rappresentano dati preliminari che richiederanno, per essere confermati, casistiche più ampie e statisticamente rilevanti, abbinate a valutazioni prolungate nel tempo.  

5. Quali sono le cause dell’alto tasso di letalità riscontrato in Italia nei primi mesi dell'epidemia?

Nella primavera di quest'anno, nel nostro Paese l'alto tasso di letalità da coronavirus è stato uno dei grandi punti interrogativi dell'emergenza sanitaria. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, nel mese di aprile del 2020 il tasso di letalità in tutta la popolazione era del 12,6% (dati del 27 aprile); nonostante non mancassero casi letali anche tra i giovani adulti, la maggior parte dei decessi era concentrata nelle fasce d’età sopra i 70 anni (raggiungendo il 28,9% di letalità nella fascia degli 80-89enni). Tra le possibili cause ci può quindi essere il fatto che il nostro Paese ha una popolazione molto anziana; con l’aumentare dell’età, aumenta la probabilità che una persona abbia anche altre malattie (malattie cardiovascolari, ipertensione o diabete), che in presenza del virus possono accelerare il deterioramento della salute. Rispetto alla Cina, che ha una popolazione più giovane e in cui il tasso di letalità nei primi mesi dell'anno si era attestato intorno al 3%, le differenze demografiche potrebbero quindi giocare un ruolo importante nel guidare il corso dell’epidemia. A destare preoccupazione sono state però anche le differenze regionali: le regioni del Nord Italia sembravano essere particolarmente colpite, con tassi di letalità superiori alla media nazionale. Alcuni hanno suggerito che questa discrepanza potesse dipendere dal fatto che la Lombardia, insieme al Veneto, è stata la sede di uno dei primi focolai italiani e che quindi questa regione si trovasse ad uno stadio più avanzato dell’epidemia. Distribuzione geografica dei casi di COVID-19. Il grafico illustra la distribuzione geografica dei casi di infezione da Coronavirus in Italia in termini percentuali e assoluti. Dati aggiornati al 29 settembre 2020 (Fonte: Fondazione GIMBE).   Questo ragionamento richiede una precisazione: il tasso di letalità è una percentuale calcolata sul totale dei casi positivi e dovrebbe quindi rimanere più o meno costante nel tempo, tuttavia va anche considerato il tempo di progressione dei diversi casi. Non tutti i decessi avvengono subito ma possono rappresentare il termine di un aggravamento che può richiedere anche diversi giorni; di conseguenza, maggiore è il tempo in cui il virus è in circolazione in una zona, maggiore può essere l’accumulo di casi critici e quindi di decessi. Tuttavia, un simile incremento della letalità ha probabilmente un’altra causa: il fatto chenei primi mesi dellepidemia il numero di persone positive fosse in realtà di gran lunga superiore a quello rilevato a causa dell'alta percentuale di asintomatici. In questo caso, il numero di decessi registrato in Lombardia in quelle settimane avrebbe dovuto essere rapportato a un numero molto più elevato di casi positivi totali, avvicinando il tasso di letalità ai valori nazionali. Non sono però da escludere anche fattori che possono aver contribuito a peggiorare la situazione in Italia. Tra le cause plausibili, ma da dimostrare, sono state citate alcune dinamiche intrinseche alla società italiana, come il fatto che nel nostro Paese i bambini e i giovani adulti vivono a stretto contatto con i “nonni” e questo potrebbe aver favorito la trasmissione del virus dalla porzione di popolazione più resistente agli effetti del virus (al punto da essere forse contagiosa anche da asintomatica) alla frazione più fragile, quella degli anziani. Un’altra ipotesi degna di approfondimenti riguarda una possibile correlazione con l’inquinamento atmosferico, particolarmente elevato in tutta la Pianura Padana. Secondo uno studio preliminare, un’alta percentuale di particolato atmosferico potrebbe prolungare la permanenza nell’aria del virus e veicolarlo più facilmente, anche se si tratta di una teoria basata su analisi correlative che necessita di conferme sperimentali precise. Inoltre, è importante sottolineare che la distanza di trasmissione del virus è breve e non necessita di carrier (ovvero di particolato atmosferico), mentre la trasmissione a lunga distanza non è mai stata confermata. L’inquinamento atmosferico potrebbe però contribuire anche in un altro modo: l’inquinamento può infatti però essere un cofattore di patologie più o meno croniche e/o di stati infiammatori che potrebbero rendere l’ospite più suscettibile all’infezione. Queste ipotesi andranno valutate alla luce di studi epidemiologici approfonditi che tengano conto anche di altri fattori: per esempio, la Lombardia è uno dei centri nevralgici dell’economia del Paese e questo può aver favorito un maggiore transito di persone, con conseguente aumento della diffusione del virus. È quindi probabile che la causa non sia una sola, ed è importante analizzare tutte le sfaccettature di questa situazione per capire qual è l’impatto che le nostre abitudini di vita possono avere sull’ambiente e sulla propagazione di una epidemia.  

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  --- Immagine box: Pixabay
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