2 novembre 2010 - Quando telefoniamo al customer service della nostra compagnia telefonica, potrebbe risponderci un operatore che si trova in Romania o in Bulgaria, mentre i souvenir che i negozianti vendono ai tanti turisti che ogni giorno visitano l'Italia sono quasi sempre «Made in China» o «Made in Taiwan». Acquistare un capo di abbigliamento in una delle catene internazionali significa portare a casa un oggetto che viene prodotto a molte migliaia di chilometri da dove viviamo. Le stesse grandi distanze che riusciamo a percorrere in poche ore quando prendiamo un aereo per andare in vacanza dall'altra parte del mondo. Tutto questo si chiama globalizzazione e ha un effetto importante sulla salute di tutti gli esseri umani. Perché assieme alle merci e alle persone viaggiano batteri e virus.
La salute pubblica, sottolinea in quest'intervista Ilaria Capua, virologa dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie di Legnaro (PD), non è più una questione nazionale, ma deve essere pensata in termini globali. Ne è stato un esempio evidente l'epidemia di influenza aviaria che nel 2005-2006 ha superato i confini del sudest asiatico per giungere in Europa. Oppure la pandemia di H1N1, la cosiddetta «nuova influenza» (ma è stata anche chiamata «suina»), che ha fatto il giro del mondo durante lo scorso inverno. In entrambi i casi sono entrati in gioco altri fattori, oltre a quello strettamente scientifico, che hanno diffuso nell'opinione pubblica informazioni non del tutto corrette e paure. In un suo recente intervento alla conferenza della Fondazione Veronesi tenutasi a Venezia tra il 19 e il 21 di settembre, Ilaria Capua ha parlato della necessità di condividere le informazioni e considerare la salute pubblica come un unicum, che non conosce barriere di confine tra nazioni. Ma questo è solo uno degli argomenti che nascono dallo studio della frontiera tra salute animale e salute umana.